“Selfie Ergo Sum” (Ma.Ra.Cash \ New Model Label) è una fotografia dura, inclemente e sarcastica della società attuale. L’occhio dietro l’obiettivo, griffato Altare Thotemico, è quello vigile di Gianni Venturi.
Ciao Gianni, il primo approccio con il nuovo album dei tuoi Altare Thotemico è sicuramente provocatorio. Mi riferisco sia al titolo “Selfie Ergo Sum” che alla copertina che immortala la Statua della Libertà intenta a farsi un autoscatto. Vorrei iniziare anche io questa intervista in modo altrettanto provocatorio, non credi che alla fine ogni disco, o generalmente un’opera d’arte, sia una sorta di selfie?
Potrebbe essere, ogni opera contiene però la parte intima dell’artista, il selfie spesso rappresenta una sorta di avatar. Una realtà solo immaginata. Mentre l’opera cerca spesso di mostrare il nascosto, il selfie tende a rappresentare il palese. La domanda che spesso personalmente mi pongo è: quello che creo è il me intimo? O la rappresentazione del me ideale? Pare che oggi per essere devi apparire, mentre quando crei vorresti che fosse la tua opera a parlare per te. Selfie interiore?
In generale qual è il tuo rapporto con la contemporaneità e, in particolare, con la deriva digitale che ha preso l’industria discografica? Per esempio, uno dei mezzi più potenti di promozione è Instagram, dove la centralità è data alle immagini e marginalmente alla musica.
Il mio rapporto con la contemporaneità è l’essere contemporaneo negli argomenti e nel mio esistere. Per quanto concerne gli Altare, lavoro con giovanissimi che anche se amano il passato, hanno ovviamente un linguaggio più attuale rispetto al mio, la fusione temporale mia e loro mi pare interessante. La deriva digitale la trovo dannosa per la musica, a parte l’ovvietà della fine del disco a livello commerciale, e quindi la crisi delle etichette, tanto da chiederci se hanno ancora un senso le etichette. Instagram mi pare completamente legato al concetto di selfie ergo sum! Poi, sai noi suoniamo musica progressiva, ovviamente siamo legati a tempi in cui l’ascolto musicale era quasi sacro, si andava per negozi di dischi a cercare le novità, con i pochi soldi che avevi dovevi scegliere. Oggi le novità ti fagocitano, un enorme quantità di progetti rimbalzano da un social all’altro. La tua domanda si conclude con una verità.
Nel vostro sito web ho trovato una sezione molto interessante, il Blog Thotemico: di che si tratta?
Il progetto Altare, non è solo musicale, ma un progetto pensante, quindi il blog rappresenta il pensiero nostro su quello che facciamo, perché lo facciamo e da cosa siamo influenzati!
Il disco si apre con uno dei pezzi più duri dal punto di vista lirico, “Non in Mio Nome”, quasi a voler dimostrare che avete finito di scherzare e che si inizia a fare sul serio. Come mai avete scelto questo brano come apertura?
Crediamo che comunque essere artisti abbia ancora una valenza politica, non partitica, ma politica intesa come scelta! Scegliere di dire: “Non in Mio Nome”, è un punto di partenza. Ovviamente i ragazzi hanno sposato la mia linea filosofica, perché per fortuna è anche la loro! Il brano è duro perché l’argomento richiede durezza e una netta presa di posizione. Politicamente scorretto! Importante anche la linea musicale, legata ad un arpeggio nato in un pomeriggio buio dalle mani di Agostino Raimo, nel sentirlo ho provato un brivido e recitato inventandolo sul momento il testo. Se i soldati dicessero no, non ci sarebbero le guerre, se consumassimo meno e meglio, calerebbe l’inquinamento, tante cose che succedono sono legate anche alle scelte del popolo!
Dal brano è stato tratto anche un video, chi se ne è occupato?
Il video è nato in tempo di covid, doveva uscire il 30 aprile. Quindi Teo Rinaldi ha letto le parole e cercato le immagini, la parte girata l’abbiamo fatta con i cellulari, lui ha montato il tutto. A noi è piaciuto ed eccolo!
All’interno del disco troviamo una nuova line up, potresti presentarla?
Ho sempre considerato il progetto Altare Thotemico un progetto indipendente dalle persone, ma oggi questa nuova band mi ha conquistato mente e cuore, per la maturità e profondità. Marika Pontegavelli è stata la prima che ho incontrato, sostituire Leo caligiuri, non era facile. Fin dal primo istante ho trovato una sintonia magica, lei suona il piano da Dio e canta, oltre che compositrice di talento. Poi è arrivato Filippo Lambertucci, giovane batterista ma potente e fantasioso, in tre abbiamo composto le prime cose, c’era ancora mio fratello al basso, poi ha fatto altre scelte, probabilmente non aveva visto in questi ragazzi quello che ho visto io. Ed ecco arrivare come un missile Giorgio Santisi, che dire? Groove, armonia, potenza e delicatezza! Poi dalle campagne bolognesi, Agostino Raimo, uno dei talenti più puri che ho conosciuto fino a d ora, chitarra magica idee compositive, ed ha pure mixato il disco, ma non lo paghiamo di più. Emiliano Vernizzi ospite d’eccezione con il suo magico sax, anzi più che un ospite, un thotemico esterno. Ultimo brano, poesia di tromba, Matteo Pontegavelli.
Oltre che dal punto di vista esecutivo, credi che l’avere gente nuova intorno ti abbia condizionato anche dal punta di vista compositivo?
Ovviamente e per fortuna, intanto da anni non avevamo un chitarrista, Agostino ha risvegliato il mio rock addormentato, mentre la Marika ha mantenuto il suo jazz pianistico. Filippo senz’altro quello che più è vicino al mio modo d’intendere musica, anzi così era all’inizio, ci siamo fusi, le composizioni più belle sono nate in sala prove. Si mi hanno influenzato, come io probabilmente avrò influenzato loro! Giorgio è il collante tra i due mondi generazionali!
Pur rimanendo ancorato al prog, mi pare quest’opera sia meno cerebrale e più istintiva, sbaglio?
Questo disco è più vicino al primo che al secondo, nato come ho già detto in sala prove spesso a occhi chiusi, a volte s’innescava una vibrazione creativa che mi commuoveva, si molto più istintivo, ma anche curato e pensato. Meno improvvisazione esecutiva rispetto al secondo, ma allo stesso tempo una sorta d’improvvisazione creativa. Prog è progressione, dire cos’è il prog significa non averlo capito.
Accanto alla tua produzione a firma Altare Thotemico, ne porti avanti un’altra autografa: in cosa differiscono questi due cammini artistici?
Non dormo, soffro d’insonnia quindi creo. “Mantra Informatico” è un disco dove con la voce simulo strumenti vari, basso batteria, chitarre, synth! Di vero c’è solo a tratti un basso elettrico, e alcuni interventi di pad elettronici. Ma la poesia è la stessa in ogni mio lavoro. A Novembre uscirà un disco con Alessandro Seravalle: “Qohelet”, disco folle dedicato ad un testo della bibbia tradotto da Ceronetti con testi anche miei. E “Moloch” progetto dedicato alla beat generation con Lucien Moreau.
Chiuderei soffermandomi un attimo sul tuo libro di poesie, recentemente pubblicato da Ladolfi Editore, “21 Grammi di solitudine”. La poesia ti permette di esplorare una parte di te che non è raggiungibile con la tua attività musicale? Nel tuo caso specifico, poesia e musica sono così distanti da doverle scindere per dare ad ognuno di esse una dignità propria?
Ho pubblicato altri lavori, amo la poesia musicale, alcuni cantautori scrivono poesie splendide, Paolo Conte, De André, De Gregori e altri. Però come diceva il mio maestro e mentore Roberto Roversi, c’è una poesia che va letta in solitudine, poiché possiede già tra verso e verso una sua musicalità. All’ultima domanda rispondo di nì, ogni forma d’arte è vera se racchiude in se la poesia. Penso che la musica e la poesia siano fatte per incontrarsi.
