Sergio Vinci ritorna tra le nostre pagine, e lo fa con un nuovo, disturbante capitolo firmato Oigres. Lo avevamo ospitato su Il Raglio del Mulo in occasione del canto del cigno dei suoi Lilyum, e oggi torniamo a dargli voce per raccontare un’altra tappa del suo personale cammino artistico: “Don’t Stay Close To Me” non è semplicemente il secondo album degli Oigres, ma è un viaggio tortuoso tra disagio, solitudine e ricerca di libertà espressiva, guidato da un approccio compositivo che non conosce compromessi. Chitarre a otto corde, registrazioni casalinghe, un’anima ferita che pulsa in ogni traccia: tutto concorre a delineare un lavoro che, come scopriremo dalle sue parole, non vuole e non può lasciare indifferenti.
Benvenuto su il Raglio del Mulo, Sergio! Il nuovo album degli Oigres, “Don’t Stay Close To Me”, segna un’evoluzione importante rispetto al debutto. Cosa ti ha spinto a tornare con questo secondo capitolo e cosa rappresenta per te?
Ciao a te e a tutti i lettori de “Il Raglio del Mulo”! Innanzitutto grazie per aver notato una evoluzione tra il primo album e questo secondo capitolo del progetto Oigres. E’ sempre interessante notare come ci siano opinioni diverse rispetto ad un’opera musicale. Alcuni hanno definito più semplice questo materiale rispetto al precedente, ma io la penso come te. I pezzi del primo album erano più lineari, basati sulla classica forma canzone, quasi pop come formula… In questo nuovo album l’approccio è più stratificato e intricato, comprese anche le voci. I brani sono imprevedibili e molte volte si sviluppano e finiscono molto diversamente da come iniziano. L’evoluzione in ogni caso per me è necessaria per trovare gli stimoli per andare avanti nel fare quello che faccio. Non ho mai realizzato un album uguale al precedente!
Tempo fa hai annunciato la fine del percorso dei Lilyum, band con cui hai pubblicato nove album. Cosa ha portato a questa decisione e in che modo questa chiusura ha influenzato la tua visione musicale e il lavoro su “Don’t Stay Close To Me”?
Credo che l’esperienza coi Lilyum e la chiusura di quel capitolo musicale non abbiano influenzato molto il materiale di “Don’t Stay Close To Me”, semplicemente perché l’ossatura dei pezzi di questo album era già pronta prima ancora che iniziassi a comporre l’ultimo capitolo discografico dei Lilyum, ovvero “We Are Disobedience”. Quindi l’unica influenza reale derivante dallo scioglimento dei Lilyum potrebbe ravvisarsi nel fatto che ho avuto la mente più sgombra per ultimare i pezzi degli Oigres, senza pensare ad altri progetti. Mi sono concentrato unicamente su Oigres e sul feeling che volevo ne scaturisse e non ci sono state interferenze, nemmeno indirettamente.
A livello strumentale, l’uso di chitarre a otto corde ha portato una svolta significativa. Com’è nato questo approccio e quanto ha influenzato la scrittura dei brani?
Diciamo che da tempo ero affascinato dalla potenzialità di strumenti diversi. Per anni ho usato una chitarra a sei corde e un basso a quattro corde, ma già con l’ultimo capitolo dei Lilyum avevo usato una chitarra a sette corde, notando come anche l’approccio compositivo si fosse evoluto di conseguenza. In poche parole, l’utilizzo di chitarre “speciali” non solo ha donato pesantezza a quel disco dei Lilyum, ma io stesso ho dovuto fare i conti con uno strumento per certi versi diverso e il mio modo di comporre è cambiato. Ho quindi voluto osare ancora di più, sempre per il discorso che facevo sull’evoluzione intesa come carburante per il mio processo creativo, e ho comprato una chitarra ad otto corde per realizzare il secondo capitolo degli Oigres. Non nascondo che band come Mesghuggah o Deftones abbiano avuto su di me un certo ascendente negli ultimi tempi come musicista, anche se le ascolto dagli anni novanta, e loro usano chitarre ad otto corde molto soventemente. Ho guardato molti video di questi chitarristi per capire come si potesse tirare fuori qualcosa di interessante da questo tipo di chitarre e ne sono rimasto affascinato. Non essendo io un chitarrista virtuoso pensavo di non saper nemmeno maneggiare un simile strumento ma il chitarrista dei Deftones, Stephen Carpenter, mi ha fatto capire come con poche note e tanto cuore si possano raggiungere risultati impensabili. Ecco quindi che l’intero album “Don’t Stay Close To Me” è stato registrato con una chitarra a otto corde, a parte qualche arrangiamento che è stato fatto con una sette corde. Il risultato per me è buono, inusuale e personale. E’ come se da un certo punto in poi della mia vita il mio cervello si sia sbloccato. Niente più solo black metal, niente più chiusura mentale verso ciò che avrei dovuto comporre, ma solo tanta libertà. Spero di evolvermi ancora in futuro, e se ciò non succederà appenderò gli strumenti al chiodo! Aggiungo solo che il sound e l’atmosfera di “Don’t Stay Close To Me” devono molto alla chitarra ad otto corde, che come dicevo ha rivoluzionato anche il mio modo di comporre.
Hai curato ogni aspetto del disco in prima persona: composizione, registrazione, arrangiamenti, testi, voce, produzione e mastering. Qual è stato il passaggio più difficile e quello invece che ti ha dato più soddisfazione?
Allora, quando riascolto un mio album penso sempre che a livello di produzione del suono si poteva fare di più. Ormai la tecnologia ha raggiunto livelli incredibili e ognuno da casa propria può ottenere dei suoni pazzeschi. Io ancora penso e registro come negli anni novanta! Ma poi penso che questo sia un po’ il mio tratto distintivo. L’imperfezione dei miei lavori li rende distinguibili ed unici, nel bene e nel male, anche se “Don’t Stay Close To Me” abbia un suono tutt’altro che brutto, credo… Ma non è perfettino e plasticoso. La parte più noiosa è costruire le batterie al pc comunque, e anche registrare le voci. Per le voci ho usato il bagno di casa mia ad esempio! Era completamente insonorizzato e per miracolo tutto è venuto bene! Uso attrezzature ridicole e sono fiero di quanto riesca a fare, insomma. Comunque tutto è difficile, e soprattutto il manico della chitarra ad otto corde mi ha fatto venire una tendinite al braccio sinistro. Un disco sofferto ma di cui sono fiero. Spero trasmetta emozioni a chi lo ascolta, e spero che qualcuno possa immedesimarsi in esso in qualche modo, anche se non è proprio un bel viaggio interiore, non è una passeggiata serena al sole…
Dal punto di vista della produzione, l’aver lavorato nei tuoi Anti-Human Studios, che vantaggi ti ha dato? E quanto ha influito sulla libertà creativa del disco?
Come dicevo, i miei studi si avvalgono di attrezzature che cadono letteralmente a pezzi. Ma il bello è sfidare i tempi che corrono, cercando di proporre sempre qualcosa di nuovo ed interessante, nonostante gli scarsissimi mezzi di cui dispongo. Per me anche questa è una sfida. Comunque il principale vantaggio di registrare in casa propria è quello di frammentare il lavoro come meglio si vuole: nessuno ti dice nulla, non hai nessun vincolo, niente di niente. Solo registrare quando, cosa e come ti va. Non è poco per uno come me, che mal volentieri accetta consigli non richiesti.
I testi del disco sono molto intensi, scritti in prima persona come un diario disturbato. Quanto c’è di autobiografico in queste liriche? E come sei riuscito a calarti in questo tipo di narrazione così cruda e personale?
C’è molto di autobiografico. Posso dire di vivere o aver vissuto sulla mia pelle molto di quello che ho scritto in questo disco, però ho usato un personaggio immaginario, che giorno dopo giorno scrive i suoi pensieri sul suo diario personale. I testi sono scritti in prima persona infatti. E’ tutto filtrato attraverso metafore, se vogliamo, ma molto vicine alla realtà. Questo rappresenta la solitudine di chi non riesce più a comunicare i suoi sentimenti a persone sempre più disumanizzate e che non sono interessate ai problemi altrui, ma solo alla vita frenetica che i tempi moderni impongono. Per quanto concerne il lato autobiografico a cui accennavamo, molte cose posso dire che sono passate, ma tante altre ancora bruciano e hanno lasciato cicatrici indelebili, lividi di colore scuro intenso. Non mi piace mentire, sono stato programmato per non mentire mai, e questo mi porta nella vita gioie (poche) e dolori (tanti). Questo nuovo album è più sfaccettato e intimo anche sotto l’aspetto lirico quindi scava nel profondo dell’abisso umano e nello specifico nell’abisso di schizofrenia, depressione, ansia e paranoia di chi sta parlando attraverso i testi. Tutto ciò rappresenta uno degli ultimi tentativi di richiesta di aiuto di una persona in grande difficoltà emotiva.
Il titolo dell’album, “Don’t Stay Close To Me”, è anche il titolo del singolo scelto come apripista. Perché proprio questo brano come biglietto da visita? Cosa lo rende rappresentativo del lavoro nel suo insieme?
Beh, significa “Non starmi vicino”. E’ un monito. Le persone in qualche modo “diverse” hanno una vita complicata e la rendono complicata a chi gli sta vicino. Anzi, è questa società a rendere le cose complicate, perché non siamo tutti usciti dalla “fabbrica di plastica”, come diceva Gianluca Grignani. Non siamo tutti uguali e confezionati alla stessa maniera, ma la società ci vorrebbe così, da sempre. Non è mai cambiato nulla. Io manifesto la mia imperfezione e la mia autenticità allo stesso livello nella mia arte e non mi preoccupo di ciò che pensa la gente, o almeno non più. Quindi, diciamo che se sei dalla parte dell’omologazione non ti conviene starmi vicino, saresti a disagio. Se invece guardi un po’ oltre la superficie delle cose, potresti scoprire in me un ottimo compagno di viaggio.
Guardando al percorso di Oigres, in cosa senti che questo secondo album supera o approfondisce quanto fatto con “Psycho”?
“Psycho”, come accennavo, era più lineare e la rabbia era più diretta, quasi una ribellione verso la società, era un disco più hardcore in tutto, più riottoso. Ci sono influenze hardcore anche in questo “Don’t Stay Close To Me”, ma anche doom, djent, dark. I testi non sono più un combattere contro qualcosa per cambiarlo, ma sono un urlo di dolore e disprezzo verso qualcosa che non potrà essere cambiato, purtroppo. L’unica cosa che possiamo cambiare è noi stessi, ma la strada verso questa direzione è davvero lunga e accidentata. A livello musicale credo inoltre che questo nuovo album abbia un alone più sinistro e oscuro, altamente criptico, figlio della mente malata che l’ha partorito. O meglio, della mente che si è ammalata a causa di una società allo sbando, dove conta solo l’apparire, lo strillare, la superficialità. L’uomo che parla in prima persona nei testi di “Don’t Stay Close To Me” non è pazzo, è solo uno dei tanti che grida “aiuto” in mezzo ad un panorama desertico, dove a rispondere è solo l’eco della sua voce.
Ultima domanda sull’identità futura del progetto: ci sarà anche una dimensione live o preferisci continuare su un piano puramente studio?
Non credo che Oigres avrà una dimensione live. E’ un progetto molto intimo, ma non nego che più volte ho pensato che questi pezzi dal vivo potrebbero spaccare sul serio. Il problema però è: spaccare davanti a chi? Le solite dieci persone? Ecco, questo mi spinge a riportarlo nella mia camera e nel mio bagno…
