Rainbow Bridge – I can’t wait to get on the road again

Più che una copertina, un manifesto di vita! Quella macchina che “veleggia” verso il sole, immortalata nella cover del nuovo disco, la dice lunga sull’attitudine dei Rainbow Bridge, che di chilometri in questi anni ne hanno macinati per raggiungere anche la più improbabile sala concerti. Una predilezione per le soluzioni live che è sempre apparsa palese nei dischi precedenti dei pugliesi e che, ovviamente, non manca neanche nel nuovo “Drive” (Autoprodotto / Metaversus PR). Però questo lavoro, più che i suoi predecessori, presenta un gran numero di novità e soluzioni innovative per il trio…

Benvenuti, conoscendoci da una vita so che di chilometri ne avete macinati tanti in questi anni, e credo che voi vogliate rimarcare questo aspetto sin dal titolo e dalla copertina del vostro nuovo album. Siamo tornati in termini di date ai giorni pre-pandemia, oppure quell’evento ha cambiato in modo definitivo l’apparato live nel nostro Paese?
Ciao Giuseppe, sicuramente la copertina rappresenta un po’ tutto questo, i chilometri che abbiamo percorso e che contiamo ancora di fare anche in senso metaforico. In termini di date non siamo ai livelli pre-pandemia ma crediamo che tutto ciò sarebbe accaduto a prescindere. In realtà, nel periodo delle prime riaperture noi abbiamo suonato tanto probabilmente per il tipo di proposta o per il formato trio, sai con le distanze e tutto il resto, adesso cerchiamo di scegliere bene i posti dove suonare anche se per un gruppo come il nostro è sempre più difficile spostarsi verso il nord e infilarsi nelle programmazioni dei locali. Buona parte dello Stato Borbonico però riusciamo a coprirla.

Restando in tema live, la vostra precedente uscita era proprio un disco dal vivo, pensate che sia riuscito in qualche modo a trasmettere in pieno all’ascoltatore l’energia, il sudore e l’entusiasmo che sprigionate sul palco?
Pensiamo di sì, siamo molto orgogliosi del disco live anche perché è venuto fuori in maniera quasi inaspettata. Un nostro caro amico (Beppe “Deckard” Massara) ci ha proposto questo concerto a Gennaio 2022, eravamo ancora in periodo di parziali chiusure, con l’intenzione di fare una registrazione ma non pensavamo in una resa simile sia in termini di suono che di performance. La Cittadella di Molfetta è un vero e proprio teatro, c’era una bella atmosfera e i concerti in giro scarseggiavano, noi eravamo concentratissimi (non avevamo nemmeno un goccio di alcol sul palco) e abbiamo suonato quasi tre ore. Alla fine abbiamo dovuto scegliere tra i tanti brani suonati ma è venuto fuori un disco di quasi ottanta minuti che ci rappresenta al 100%. E’ piaciuto anche a tanti altri oltre che a noi, va ancora alla grande su Bandcamp. Grazie a Beppe che ha fatto un lavoro pazzesco sul suono.

Tuffiamoci su “Drive”, un disco che paradossalmente nel suo essere atipico risulta una sorta di vostro compendio. E’ atipico perché è diviso in tre parti, però paradossalmente queste tre parti rappresentano al meglio i singoli aspetti della vostra musica. Questa peculiarità è il frutto di una scelta fatta a priori o solo lavori finiti vi siete resi conti di questa triplice anima di “Drive”?
In realtà è un disco molto pensato soprattutto rispetto ai precedenti che sono nati di getto. L’intento era di fare un qualcosa che racchiudesse tutte le anime della band. Abbiamo iniziato con delle canzoni, che poi sono diventati i primi tre singoli usciti nel corso del 2021 e 2022, e man mano si è sviluppata meglio questa idea di fare un disco a più facce. Il concept, se così vogliamo intenderlo, si è concretizzato dal momento in cui abbiamo deciso di comporre una sorta di lunga suite che non fosse la solita jam che non avremmo avuto difficoltà a far durare anche venti minuti. Infine abbiamo inserito i quattro strumentali che fanno da contraltare a tutta la parte cantata. E’ stato un lavoro più lungo del solito ma ci siamo riusciti.

Nella prima parte approfondite un aspetto che forse in passato avevate esplorato poco, quello della canzone e, secondo me, lo fate anche inserendo degli elementi nuovi nel vostro sound. Avendo una maggiore propensione all’improvvisazione in fase di scrittura, per voi comporre delle “canzoni”  è più complicato? 
Sì, è più impegnativo perché c’è molto più lavoro dietro soprattutto in sala ma anche a casa ognuno alla sua maniera. Siamo prevalentemente una live band e gli spunti non mancano mai anche nei soundcheck o nei ritagli di tempo. C’è sempre un riff nuovo, qualcosa che poi dimentichi e poi magari ritorna inconsapevolmente, ma per fortuna abbiamo acquisito un un nostro metodo senza andare a briglie sciolte tutto il tempo.

Accennavo prima come nelle canzoni, più che nei pezzi strumentali presenti sul disco, intravedo elementi nuovi, concordate con me?
Come dici tu, ci sono anche elementi nuovi soprattutto nella suite dove ci siamo divertiti ad inserire delle parti che ricordano a volte i Police o il primo heavy metal di fine anni ‘70. Le nostre influenze sono palesi ma ce ne sono tante che vorremmo far venire fuori e chissà magari nel prossimo disco ci sarà più funk se non reggae. Concordiamo con te e ci piace pensare che ce ne siano anche negli strumentali laddove in passato eravamo più sporchi e diretti adesso anche in quei momenti musicali c’è una consapevolezza diversa come se fossero delle canzoni anch’esse più strutturate come quando c’è la parte vocale.

I pezzi della prima parte dal vivo tendono a trasformarsi, diluirsi, oppure mantengono la semplicità che hanno da studio?
Lo stiamo capendo man mano. Ai tempi del nostro secondo disco, “Lama”, in cui inserimmo le prime parti cantate non eravamo soddisfatti della loro resa live, con il tempo i brani sono cresciuti e hanno assunto una forma diversa, sicuramente accadrà anche con queste song più recenti. La componente psichedelica è nella nostra natura ma a volte è bello restare nei paletti che alcune canzoni impongono.

I brani strumentali sono nati in contemporanea con le canzoni della prima parte oppure risalgono a sessioni di registrazione diverse?
La registrazione dei primi tre singoli risale al 2021 ed erano dei brani a cui stavamo lavorando già prima del covid, li abbiamo semplicemente remixati. Il resto risale a pochi mesi fa dove abbiamo registrato tutti gli strumentali e l’intera suite (a cui abbiamo comunque lavorato per circa un anno). In ogni caso anche se in tempi diversi la registrazione non è durata più di cinque, sei giorni totali.

Il disco si chiude con una mini-suite concettuale, come è nato questo pezzo? Può rappresentare il futuro della band o rimarrà un caso a sé stante?
“Tears Never Here” ha una sua storia abbastanza particolare. Volevamo fare un brano con diversi momenti quasi come fosse una storia un po’ alla Tommy (amiamo gli Who). C’erano questi tre testi di Paolo (il batterista) molto vecchi pensati per tre brani differenti che avevano comunque molti punti in comune e che Giuseppe (chitarra e voce) ha “unito” componendo allo stesso tempo la parte musicale. Un bel giorno ci ha inviato il brano completo con voce e chitarra acustica, ad un primo ascolto ci pareva impossibile realizzarlo, c’erano troppe parti da ricordare! In realtà non è stato poi così difficile una volta entrati è venuto fuori in maniera abbastanza naturale e ognuno ci ha messo del suo in fase di arrangiamento. Speriamo di suonarlo il più possibile nei prossimi concerti e magari ripeteremo l’esperienza aggiungendo elementi diversi, vedremo.

Dove vi condurrà nei prossimi mesi la vostra auto?
In giro il più possibile e sicuramente verso un nuovo disco a cui stiamo già pensando per il prossimo inverno.

Crampo Eighteen – Mother cloud

I Crampo Eighteen sono una rock band barese fondata dal cantante e chitarrista Nino Colaianni. Completano la line-up Michele Danza al basso, Gianluca Stero alla chitarra e Vanni Sardiello alla batteria. Hanno da pochissimo pubblicato il loro secondo full-length “Mother Cloud”, dopo l’esordio di due anni fa intitolato “Mojo Bag”. I membri della band sono già noti per aver militato in altre band altrettanto note nel nostro territorio e non solo, per conoscerli meglio, abbiamo intervistato Nino, cantante e chitarrista, e Vanni, il batterista.

Siete arrivati al vostro secondo lavoro, quali sono le differenze sostanziali con il lavoro precedente “Mojo Bag”?
Nino: Il primo lavoro, “Mojo Bag” è un disco oscuro, “Mother Cloud” invece è un album più solare perché scritto in un periodo sereno per me e ricco di soddisfazioni per la band. Per molti aspetti è più maturo nella composizione e negli arrangiamenti. A differenza del precedente, che è stato un salto nel buio, stavolta siamo entrati in studio con le idee chiare, preparati e consapevoli delle idee da riversare in musica. Naturalmente poi la magia che si compie in fase di registrazione è frutto di una combinazione di elementi. Fra noi e gli amici di Trulletto, la nostra etichetta, questa alchimia ha funzionato e confesso che non me lo aspettavo, ma per fortuna la vita ti sorprende sempre”.
Vanni: “Penso si noterà una differenza piuttosto importante nella produzione, ora abbiamo alle spalle la Trulletto Records, e in fase di registrazione e missaggio ci siamo potuti avvalere di orecchie esterne che ci hanno dato idee e contributi preziosi. Per quanto riguarda la scrittura, credo che ci sia stato un progressivo allontanamento dalle strutture un po’ stoner e/o psichedeliche dei primi lavori (compresi quelli di Nino da solo) per arrivare ad una forma canzone per certi versi più classica. Ma il nostro marchio di fabbrica si sente eccome.

Mother Cloud” è un concept album, qual è il tema che lega i brani dell’album?
Nino: Il tema che prevale nei testi è un po’ ermetico, se non li si legge attraverso una lente spirituale, possono apparire rivolti ad entità corporee, in realtà invece sono preghiere, richieste di aiuto ad una entità superiore. Questo spirito divino, nella mia visione del mondo, è la Terra, che nonostante le ferite che le infliggiamo continua a mostrarci la luce. È lei a orientarci nella scelta tra il bene e il male, se solo aprissimo gli occhi ai segnali che ci sta mandando”.

Al momento il disco è reperibile solo in digitale, sarà prevista una pubblicazione in vinile come per il precedente?
Nino: Sì, ma al momento è reperibile su tutte le piattaforme di streaming musicale e video.
Vanni: Se tutto va bene le copie in vinile dovrebbero essere disponibili per settembre. C’è un po’ di caos in giro per le uscite in vinile, ritardi, molta richiesta e ancora poca offerta. Speriamo bene. Ma noi siamo partiti con l’idea del vinile, e abbiamo pensato al disco idealmente come ad un lato A ed un lato B.

Se vi chiedessero a quale mondo musicale appartenete, come vi definireste? Quali sono state le vostre influenze musicali più importanti?
Nino: Non ricordo un giorno trascorso senza ascoltare musica, fin da quando ero ragazzino. Tutti i miei ricordi hanno una colonna sonora che spazia in tutti i generi. Naturalmente ciò che ti rimane addosso è inevitabilmente quello che ascoltavi nell’età della formazione, per cui Seattle’s sound, garage rock, psichedelia, stoner. Attualmente sono immerso nella riscoperta di r&b, soul e gospel anni 50. Tutti elementi che in fase di scrittura riecheggiano inevitabilmente nella mia testa e si riversano inconsciamente nella composizione. Confesso che sta diventando frustrante trovare un riff e doverlo scartare perché troppo simile a un brano esistente.
Vanni: Io cerco di inserire a livello ritmico, tutti quelle che sono i miei ascolti oltre che la mia esperienza dietro la batteria. Ho sempre ascoltato rock a 360°, davvero spaziando tra gli opposti e cercando di assimilare tutto il possibile dallo stile dei batteristi alle prese con le mie canzoni preferite.

Tutti i membri della vostra band hanno avuto un passato in altre band importanti del nostro territorio, Vanni, in breve facciamo una cronistoria della vostra formazione?
Nino: Io ho iniziato con i That’s All Folks dal 1990 al 2000 e nella esperienza parallela del Lily of the Valley. Stessa trafila per Luca che poi ha militato anche negli Anuseye. Michele ha suonato nei Feltura.
Vanni: Io ho cominciato con i Veronika Voss a Taranto, esperienza durata dal 1993 al 1996 e con qualche sporadica reunion in un passato recente, Esperienza formativa enormemente importante e che so, aver in qualche modo lasciato il segno sul territorio e non solo. Poi nei miei anni pisani, ho avuto un power trio di matrice post-math-rock, i Lillayell, che avevano alla voce e chitarra, il molto noto batterista degli Zen Circus, Karim Qqru. Infine, attualmente suono la batteria anche nei Comfy Pigs, siamo in quattro, abbiamo dei connotati post-punk di matrice squisitamente british e stiamo per esordire con un LP sempre per Trulletto Records, la cui uscita è prevista per fine giugno.

Sempre sottolineando il vostro passato da musicisti è più o meno difficile secondo voi rispetto a venti anni fa suonare in Italia e soprattutto al sud, oggi?
Nino: Per assurdo, il problema oggi è da ricercare nell’ audience. Ultimamente c’è un proliferare di situazioni live, anche piuttosto affollate, ma da tanta gente col cocktail in mano a chiacchierare fra loro. Io personalmente se vado a vedere una band, anche emergente, sto sempre sotto il palco. C’è poco rispetto e poca attenzione per chi fa musica in Puglia. Naturalmente ci sono realtà che fanno eccezione e sono le ultime in cui abbiamo suonato.
Vanni: Tasto piuttosto dolente, in un mondo infestato dalle cover band, ormai il pubblico sembra non avere più curiosità verso ciò che è originale e inedito. Però in qualche modo riusciamo a trovare sempre qualche posto dove c’è gente davvero appassionata, che ci concede spazi per suonare live. Stiamo anche cercando di creare una sorta di community tra musicisti e band locali, in modo da poterci scambiare contatti e avere la possibilità di suonare insieme. Ma la strada è lunga e tortuosa.

Sono previsti live imminenti per la promozione del disco?
Nino: Abbiamo un po’ trascurato il booking dei live per via delle registrazioni del disco. Ricominciamo ora con la programmazione di alcune date, sicuramente per il prossimo autunno. In estate magari ci scappa qualche festival locale o qualche secret show.
Vanni: Non nell’immediato, io purtroppo sono reduce da un delicato intervento alla schiena, spero tra giugno e luglio di essere di nuovo in perfetta forma. Sicuramente avremo un concerto nel bosco di Altamura a inizio luglio.

Per finire, il significato del vostro monicker, Crampo Eighteen?
Nino: Crampo è da sempre il mio moniker nato durante il tragitto in auto per il concerto dei Velvet Underground a Bologna negli anni 90, Eighteen rappresenta l’età musicale adulta, l’esperienza e la libertà di espressione musicale e poi suona bene, meglio di seventeen…

INTERVISTA ORIGINARIAMENTE PUBBLICATA IN VERSIONE RIDOTTASU “IL QUOTIDIANO DI BARI” IL 10MAGGIO 2022

Stranger Vision – From the Wasteland

Su Overthewall, ospiti di Mirella Catena, gli Stranger Vision, di Ivan Adami e Alessio Monacelli, autori nel 2022 di “Wasteland”, uscito per la Pride & Joy Music.

Benvenuti, ci parlate delle vostre esperienze musicali antecedenti agli Stranger Vision?
Ivan : Ho iniziato a cantare da giovanissimo nel 96 in una band power, gli Angels Fall. A seguire ho avuto diverse cover e tribute band, ultimo gli Hangar 18, tributo ai Megadeth. Tre anni fa Riccardo Toni mi contattò dopo aver letto un mio annuncio, entrambi stavamo cercando membri per formare una band che potesse esprimersi componendo brani originali. E’ nato subito un connubio artistico molto forte, dato che avevamo obbiettivi e riferimenti comuni: dal power teutonico, al thrash statunitense fino al death melodico di Göteborg. “Poetica” è stato scritto in poco più di tre mesi. Con l’arrivo di Dany prima e, a seguire con Alessio, stiamo riuscendo a concretizzare in modo molto sinergico l’energia in questo progetto.
Alessio: Muovo i primi passi con la batteria costretto da mio fratello maggiore, già appassionato di metal. Ho suonato per una decina d’anni con i Deathriders, poi dopo che mi sono trasferito a Bologna e ho avuto modo di suonare vari generi di metal. Diffidate da batteristi che suonano con meno di quattro band! Io sono l’ultimo arrivato negli Stranger Vision, mi ha contattato Ivan un annetto fa. Il progetto mi ha subito convinto, è un progetto indubbiamente serio con tutti gli elementi musicali che prediligo.

Come nasce il progetto Stranger Vision e qual era l’idea iniziale della band?
Ivan: L’idea iniziale era quella di cercare una nostra strada che potesse unire la parte power con ritmiche più thrash e con un velo di malinconia che riporta alla scena di Göteborg. Un grosso riferimento inziale sono stati i Savatage e i Blind Guardian anche se “Poetica” forse aveva qualche influenza AOR, dovuta anche al gusto del precedente batterista, Luca Giacopini. Sicuramente l’esperienza in studio fatta per “Poetica” ci ha permesso di crescere tanto e capire meglio come produrre e dare risalto a certi passaggi. L’arrivo di Alessio ha portato inoltre il nostro sound in “Wasteland” su una strada più power-prog e credo che per i prossimi lavori in cui Alessio, sarà maggiormente coinvolto anche nella parte di songwriting, il sound evolverà con strutture ritmiche molto più complesse.

“Wasteland” è il vostro secondo album in studio, con uno stile più personale e contenente più spunti rispetto a “Poetica”. Ci parlate della sua realizzazione?
Ivan: abbiamo iniziato a scrivere “Wasteland” ancor prima di registrare “Poetica”, perché purtroppo a causa del primo lockdown abbiamo dovuto posticipare le registrazioni in studio di “Poetica” di sei mesi. In quei sei mesi abbiamo fatto quattro cover, di cui anche “Bright Eyes” con cui abbiamo vinto l’Imagination Song Contest dei Blind Guardian ed inoltre abbiamo iniziato a scrivere i primi brani e il concept di “Wasteland”. L’idea di “W” è nata da uno spunto di Riccardo dopo la stesura delle prime due canzoni, “Anthem for the Doomed Youth” e “The Road”. Dopo aver scelto il concept, abbiamo scoperto che l’uscita del nostro album cadeva con il centenario dell’uscita del libro di Eliot e abbiamo pensato che fosse un segno del destino.

Il disco vanta la partecipazione di grossi nomi del metal internazionale, come il frontman dei Blind Guardian Hansi Kursh e Tom S. Englund degli Evergray. Come sono nate queste collaborazioni?
Alessio: la collaborazione con Hansi Kursch dei Blind Guardian è nata a seguito della partecipazione e vincita dell’Imagination Song Contest. questo ci ha dato la possibilità non solo di conoscere i Blind Guardian di persona durante il Rock the Castle 2022, ma anche di approcciare Hansi per proporgli la partecipazione al nostro album. Lui è stato da subito entusiasta e super collaborativo. Lo potete ascoltare nella title-track di “Wasteland”. L’altro guest è Tom S. Englud degli Evergrey, qui siamo riusciti a contattarlo grazie ad un amico in comune. Tom canta in “The Deep”, un brano un po’ nel suo stile, con una vena malinconica. Con entrambi è stato un vero piacere ed onore collaborare.

Recentemente vi siete esibiti all’Isola Rock Invernale con i White Skull. Ci saranno altre occasioni di vedervi sul palco?
Alessio: Sì, abbiamo tante diverse cose in cantiere, tra Italia e estero. Vogliamo cercare di recuperare un po’ del fermo dovuto alla pandemia. Abbiamo da poco annunciato un tour in marzo in UK tra Londra, Bristol e Birmingham. Nelle prossime settimane usciranno gli eventi dei prossimi appuntamenti.

State già lavorando a qualcosa di nuovo?
Ivan: Sì, siamo molto prolifici, stiamo già lavorando sui prossimi due album. Abbiamo già prenotato gli studio di registrazione verso fine anno. Le idee ci sono già tutte, in questo periodo stiamo lavorando sulla parte di arrangiamento dei singoli album e sulla struttura dell’album. Probabilmente entrambi usciranno nel 2024, a seconda degli accordi con l’etichetta, valuteremo a quale distanza pubblicare l’uno dall’altro. Ci piace molto la musica che stiamo componendo e crediamo che anche il nostro pubblico saprà apprezzare l’evoluzione del nostro sound.

I vostri contatti sul web per i nostri ascoltatori?
Alessio: per rimanere sempre aggiornati con le nostre novità potete seguire le nostre pagine Facebook e Instagram, poi siamo presenti un po’ su tutte le piattaforme: Youtube, Tik Tok, etc.

Ascolta qui l’audio completo dell’intervista andata in onda il giorno 30 Gennaio 2023.

Death Dies – Abiura l’eterno

Poco più di un lustro fa, pareva che l’attivata dei patavini Death Dies dovesse riprendere con buona continuità. Invece nulla, nonostante un disco, “Legione”, e un live DVD, pubblicati a brevissima distanza tra loro. Abbiamo dovuto aspettare un bel po’, prima di poter ascoltare il singolo, “Argento”, che ha fatto da apripista per il nuovo album, “Stregoneria” (Time To Kill Records), che ripropone gli ex Evol in una veste diversa, anche se sempre fedele al proprio stile e alla propria filosofia artistica. Ne abbiamo parlato con Demian De Saba

Benvenuto, otto anni non sono pochi, ma è questo è il lasso di tempo che separa i vostri ultimi due album, ossia “Legione” e Stregoneria”. “Legione”, per quanto un disco particolare, comunque sembrava aver dato l’avvio a una nuova fase della vostra carriera, anche l’uscita del live DVD “Legione Patavina”, nel 2016, confermava questa sensazione di rinascita. E invece, come mai è sceso nuovamente il silenzio sui Death Dies?
Innanzitutto grazie per lo spazio che ci dedicate. Il lasso di tempo cosi lungo è dipeso essenzialmente da tre fattori: una line-up da “ricostruire” dopo i concerti che sono seguiti a “Legione”; gli impegni con l’altra band di cui io e Samael facevamo parte (Mad Agony) e, nel momento del “primo” ritorno sulle scene con una song nuova (nel caso specifico “Impero” a Febbraio 2020, l’arrivo del Covid. Diciamo che una line up stabile e coesa è venuta a formarsi nel 2019 quando, a seguito dello stop con i Mad Agony, io e Samael abbiamo deciso di riprendere in mano in maniera prioritaria il progetto reclutando Danjal al basso e Der Todesking alla chitarra, che erano già con noi nei Mad Agony appunto. La prima idea era quella di procedere con la formazione a quattro con Samael ad occuparsi di chitarra e voce, ma poi, nel 2020, l’incontro con Viktor Flamel ci ha portato a stravolgere i piani, reclutando un frontman capace e dalla grande potenza vocale, lasciando che Samael potesse occuparsi solo della chitarra.

Tornerei un attimo su “Legione”, che raccoglie dei brani ri-registrati di Death Dies ed Evol. Quanto è stato importante per i Death Dies di oggi, quelli di “Stregoneria”, aver ripercorso parte della propria storia con quel disco?
Il fatto di aver ripreso in mano nostre composizioni precedenti è stato un modo per ritornare nel “mood” di sonorità che ci appartengono al 100% dopo che, per diversi anni, ci eravamo dedicati a progetti paralleli di matrice diversa, più orientata al thrash e al metal “classico”. Il legame con “Stregoneria “, però, è molto blando. Quando siamo ripartiti a comporre materiale inedito abbiamo spontaneamente messo da parte certe soluzioni del passato magari più “tecniche” per prediligere l’impatto e la compattezza.

Quindi, brani contenuti in “Stregoneria” non hanno avuto una genesi molto lunga e sono il frutto del lavoro svolto nei mesi antecedenti alla pubblicazione del disco?
I brani sono tutti recenti. Le prime song composte furono, appunto, “Impero” e di seguito “Lame”. La nostra idea era di un ritorno sulla scena con qualcosa di inedito, ma senza pensare necessariamente ad un full lenght…Era stato prodotto un lyric video, il nostro management (Merlin Music Management) aveva già fissato diverse date live, ma poi l’arrivo del Covid ha fatto saltare tutto. Così, oltre a portare avanti progetti paralleli, abbiamo concentrato le nostre forze in altre nuove composizioni che poi sarebbero finita appunto in “Stregoneria”.

Quali sono gli elementi nuovi nel vostro sound, se ce ne sono, apportati in questo album?
Come accennavo prima in questo caso si è badato più all’essenza delle song rispetto ai precedenti lavori inediti. La velocità pur sempre presente, anche se mai esasperata, ha lasciato anche spazio a momenti più cadenzati, ma comunque ricchi di “impatto” e probabilmente la novità più rimarcabile sta proprio in questo.

Come mai avete scelto proprio “Argento” come primo singolo?
Volevamo proporre una song “diversa” dai canoni black metal, che potesse essere d’impatto e che interpretasse lo spirito “old school” con cui ci siamo posti di fronte alla scrittura delle nuove composizioni. In più la presenza di Andy Panigada dei Bulldozer con il suo fantastico assolo voleva essere la conferma che questo è un disco a cui noi crediamo molto e nel quale hanno creduto anche gli altri grandi ospiti che abbiamo coinvolto.

Hai appena accennato alla presenza di alcuni sopiti sul disco, ti andrebbe di parlarne?
Certamente, per noi è motivo di grande orgoglio aver coinvolto, in maniera oltretutto così attiva e creativa, dei musicisti che stimiamo moltissimo e che hanno avuto la capacità di interpretare il loro ruolo nelle song in modo totalmente libero, riuscendo a cogliere esattamente lo spirito di ognuna di esse. Oltre al già citato e grandissimo Andy Panigada, abbiamo Mr Yasuzuki dei giapponesi Abigail alla voce in un pezzo (il cui testo è stato composto e cantato in giapponese su nostra precisa richiesta), Simon Ferètro dei Mater A Clivis Imperat in alcune soliste e Lucho Sanchez dei peruviani Blizzard Hunter ,che ha ricamato un assolo in pieno stile “shredder” nel brano “Vento d’Erebo”. Tutte collaborazioni da noi fortemente volute e che hanno dato un valore aggiunto.

Il legame con gli Evol è sempre stato forte e lo è tutt’ora, prova ne è la presenza di “Sorrow of the Witch”, brano proprio degli Evol nella versione originale, su “Stregoneria”. Come mai non avete mai voluto tagliare il cordone ombelicale tra le due band?
Da una parte la semplice voglia di riproporre con una veste sonora nuova una canzone che non era entrata nella track list di “Legione”, una sorta di chiusura del cerchio. Il legame c’è ed è indissolubile, anche perché lo spirito creativo che ci anima è il medesimo nonostante lo scorrere degli anni.

In occasione dell’annuncio della vostra firma per la Time To Kill Records, sui social ho intercettato alcuni post polemici riguardanti il vostro utilizzare il face-painting e aver fatto degli scatti nei boschi. Cosa rispondi a chi ha sollevato queste critiche?
Guarda, li ho visti anche io ma me ne sono tenuto debitamente fuori… Noi facciamo quello che ci pare e viviamo la nostra “arte” come meglio crediamo.

Avete già pianificato delle date?
Abbiamo appena partecipato al Black Winter Fest e per ora in programma abbiamo il co headlining con le Crypta al Padova Metal Fest il 30 Luglio e la partecipazione al Kryuhm Fest il 18 Novembre. Il management sta lavorando ad altre date compatibilmente con la nostra volontà di selezionare le possibilità che ci vengono offerte, in modo che siano coerenti con la nostra proposta musicale e attitudinale. Sicuramente, tra l’inverno e la primavera prossimi avremo modo di tornare on the road con più frequenza.

Deluded by Lesbians – Umami

Quinto album per i Deluded by Lesbians, power trio meneghino (anche se due terzi della band ha realmente origini baresi) che pubblica la loro ultima fatica discografica, “Umami”, con l’etichetta Bagana/B District. La band, formata da Lara Brixen (batteria e voce), Federica Knox (chitarra, basso e voce) e Lara O’Clock (basso, chitarra e voce), durante la sua carriera ha aperto i concerti per band come Nada Surf, Kyle Gass Band, Monotonix e ha partecipato a festival importanti come l’Home Festival di Treviso nel 2017, Expo 2015 a Milano, Magnolia Parade 2010, Miami 2011, calcando anche palchi internazionali come lo Sziget Festival di Budapest per ben due volte nel 2010 e 2012. Abbiamo intervistato Lara che ci racconta qualcosa in più su quest’ultimo lavoro, appena pubblicato.

Avete un nome “singolare”, da dove deriva il vostro monicker e soprattutto da dove derivate voi come musicisti?
Tutto quello che riguarda il nostro magico mondo viene da storie vere e anche il nome della band ha un riscontro nella realtà: tre ragazzi che si innamorano di tre ragazze che purtroppo avevano gusti molto simili ai nostri e quando si trovano a suonare insieme cercano un nome con qualcosa che li accumunava. Le persone vengono da esperienze musicali e di ascolto molto diverse (metal, alternative ed fm rock anni ’90) e questo ci porta a non avere mai un approccio unico nei nostri pezzi e lo riteniamo un po’ il nostro marchio di fabbrica.

Che significato ha il titolo del vostro ultimo lavoro “Umami” e come mai i riferimenti al Giappone?
Quando abbiamo scritto “Glutamate”, il nostro secondo singolo e videoclip che ironicamente sfata il mito del glutammato di sodio come pericoloso, siamo entrati nel magico mondo dell’umami. L’umami è proprio il sapore che viene stimolato dal glutammato, è il quinto sapore che può percepire la nostra lingua ed è stato scoperto in Giappone ad inizio ‘900. Questo è il nostro quinto disco, lo riteniamo molto saporito e chiamarlo “Umami” è venuto naturale! E il Giappone rimane sempre un posto molto affascinante. Ma il disco non parla solo di umami, ci sono asinelli (“Rufus”), canzoni che sembrano belle ma la radio le passa fino allo sfinimento (“Out Of My Head”), canzoni contro le cover band dei Queen (“Freddie”), abbronzature improbabili in paesi Baltici (“Suntanning in The Baltics”) lotte sociali per il Wifi libero (“WIFI”, su cui ospitiamo Timo Tolkki degli Stratovarius per un assurdo power solo in una canzone pop punk).

In che formato esce e dove è possibile acquistare il vostro disco?
Abbiamo ritenuto che non potessimo non avere un’uscita fisica del disco, ma siamo rimasti legati ai nostri cari vecchi anni 90 e al CD (che al momento è nettamente più semplice da stampare visti i ritardi mondiali che si sono accumulati nella stampa dei vinili). Siamo molto orgogliosi del prodotto finito, abbiamo fatto finta di essere una band giapponese che pubblicava un disco negli Stati Uniti, con un booklet interamente in Giapponese, un secondo booklet in bianco e nero con i testi tradotti in Inglese e l’OBI, la fascetta di cartoncino tipica dei dischi pubblicati nel sol Levante. Il disco è disponibile sulla nostra pagina Bandcamp, ai nostri shows e ovviamente in digitale e streaming su tutte le piattaforme.

I vostri videoclip sono altrettanto particolari, così come il vostro modo di comunicare, ce ne parlate?
Abbiamo un approccio molto creativo in tutto quello che facciamo. Pur avendo una “linea editoriale” cerchiamo sempre di non annoiarci e creare qualcosa di nuovo e che faccia divertire soprattutto noi per primi e a volte ci ispiriamo al rock del passato. Per “Glutammate” abbiamo deciso di girare una parodia di “Numb”, un singolo degli U2 del 1993 che il magazine NME ha messo al sedicesimo posto nella classifica dei peggiori video di sempre.

Tour in vista, programmi imminenti?
Oltre ad avere una dozzina di pezzi in saccoccia in diversi stadi di completamento su cui lavorare, siamo pronti per promuovere “Umami” in tutta Europa e non vediamo l’ora di calcare i palchi soprattutto dei Festival per farci conoscere da un pubblico che ancora non è salito sul carro dei delusi.

INTERVISTA ORIGINARIAMENTE PUBBLICATA SU “IL QUOTIDIANO DI BARI” IL 29 MARZO 2023

Animaux Formidables – Siamo tutti animali

“We Are All Animals” è l’album d’esordio degli Animaux Formidables, sensuale ed esplosivo power duo mascherato formatosi a inizio 2022, una delle cose migliori emerse dal sottobosco musicale italiano di questi ultimi mesi. Due personaggi con connotazioni animalesche che si esprimono tramite un garage-fuzz-noise, senza dimenticare la lezione del blues e il rock’n’roll, ad altissimo tasso incendiario. Il disco, composto da dieci tracce e registrato in presa diretta da Marco Fasolo dei Jennifer Gentle, è uscito lo scorso 24 febbraio. A parlarcene è lo stesso power duo mascherato.

Benvenuti su il Raglio del Mulo, qualche mese fa è uscito il vostro primo disco “We are all Animals” a poco più di un anno dalla nascita della band, com’è nata l’idea di dare vita a questo progetto?
L’idea collaborativa tra noi due è nata diversi anni prima ma, per via di altri progetti artistici che ci tenevano impegnati singolarmente, è rimasta soltanto appunto un’idea fino ad un anno fa circa, dove siamo finalmente entrati in sala prove assieme.

C’è stato un periodo, soprattutto nella prima metà dei duemila sull’onda del successo di White Stripes e Black Keys, in cui la formula duo chitarra-batteria era diventata quasi uno standard nel mainstream, ora che è tutto un po’rientrato nell’underground, voi come la vedete? E’ una formula che può avere ulteriori sviluppi?
Per ciò che ci riguarda in maniera diretta è più una questione pratica. Ci piace l’idea di mantenere la formula in duo perché è innanzitutto molto comoda per innumerevoli ragioni. Inoltre ti costringe ad un’essenzialità sonora che troviamo parecchio stimolante. Nel panorama generale della musica, invece, ormai mainstream e underground spesso si fondono, non c’è quasi più confine. E ciò può rivelarsi interessante.

Ho molto apprezzato il vostro approccio diretto e viscerale soprattutto leggendo anche il modo in cui è stato registrato, mi parlate un po’ di come siete arrivati a Marco Fasolo e in che maniera avete lavorato con lui al disco?
Marco è una persona con la quale, in altre circostanze, abbiamo instaurato un bel rapporto di amicizia. Poche settimane dopo aver messo su il progetto, una sera in cui ci trovavamo a cena insieme, gli abbiamo fatto sentire due bozze di brani registrati col telefono. Si è entusiasmato e ci ha convinti ad andare in studio da lui, pochi giorni dopo, a registrare. Per ciò che riguarda il modo di lavorare in studio ci siamo trovati tutti d’accordo sul fare una presa diretta senza alcuna sovraincisione, per mantenere intatta l’essenza e l’energia “live” che caratterizza ad ora il progetto. Tutto su nastro analogico perché è il modo di lavoro prediletto da Marco ed incontra a pieno anche il nostro gusto sonoro.

Quali sono le vostre influenze, se ne avete?
Abbiamo una moltitudine di influenze diverse che spaziano dal rock più tradizionale a quello più moderno, dal blues al garage, dal glam allo stoner, dal jazz all’elettronica. Spesso è curioso constatare come alcuni ascolti apparentemente discostino molto da ciò che componiamo ma, in qualche maniera indiretta, stanno avendo invece una rilevante influenza su di esso.

“In fin dei conti siamo tutti animali ma ce lo stiamo dimenticando” è il vostro manifesto , c’è un filo conduttore in tutti i brani in una sorta di concept, me ne volete parlare?
Le tematiche dei brani di questo nostro primo lavoro sono parecchio incentrate su un’analisi critica delle dinamiche relazionali sia verso gli altri che verso sé stessi. Il tutto con uno sguardo al contesto societario circostante, con una punta di ironia dal sapore un po’ agrodolce.

Come sta procedendo l’attività live? Non deve essere facile esibirsi mascherati, come reagisce il pubblico ai vostri concerti?
L’attività live sta procedendo davvero molto bene – e da settembre ad oggi incessantemente – anche soprattutto grazie all’ottimo lavoro che svolge Revolver Concerti, l’agenzia che ci segue e pianifica le date. Quale maschera?

Dove vi potremo vedere prossimamente?
Saremo ancora in giro, da nord a sud più o meno per tutta la penisola, fino a fine maggio (sui nostri canali social si può trovare il calendario date). Dopodiché il 25 Maggio faremo un concerto “in casa” allo Ziggy Club di Torino, per concludere la stagione indoor. Successivamente comunicheremo le date estive, che ci vedranno impegnati in vari bei festival sempre sparsi per l’Italia.

La vostra identità sarà rivelata con il prossimo disco?
La nostra identità è già nota: Mrs. Formidable, Mr. Formidable.

Out Of The Blue – Pirate queens

“Pirate Queens” è il titolo dell’album del duo Out Of The Blue formato da Annie Saltzman Pini alla voce e Giovanni Pollastri, polistrumentista. L’album è dedicato alle donne pirata, piratesse. Realmente esistite. Un album unico nel suo genere, “Pirate Queens’”include dieci brani dedicati a piratesse, o come venivano definite Pirate Queens, che hanno combattuto fianco a fianco con i leggendari pirati della storia, lasciando un marchio indelebile nel mondo della pirateria. I brani raccontano le avventure di alcune tra le figure più leggendarie grazie alla particolarissima voce di Annie Saltzman Pini, nata a New York City, Giovanni Pollastri ha invece prodotto e suonato quasi tutti gli strumenti presenti nelle registrazioni. Entrambi vivono a Milano. Ogni brano è dedicato a una piratessa descrivendone le gesta, a volte narrando la storia della sua vita, a volte soffermandosi sul carattere e sul difficile rapporto con un mondo, quello della pirateria, totalmente maschile, dove non veniva dato alcuno spazio alle donne per emergere. Abbiamo intervistato il duo, per conoscere meglio questo interessantissimo progetto.

Giovanni, come è nata l’idea di dedicare un progetto al tema ‘piratesse’? Cosa esattamente ha scatenato il tutto?
L’idea è nata ascoltando “Rogue Gallery”, un bellissimo album prodotto da Johnny Depp e Gore Verbinski, regista dei primi due film “I pirati dei Caraibi”. È un disco dedicato ai cosiddetti Sea Shanties, canti del mare legati al mondo dei pirati, traditionals reinterpretati da Nick Cave, Bono, Sting, Brian Ferry e molti altri artisti, tra cui anche alcune cantanti donne come Robin Holcomb e Lucinda Williams. Ascoltandole ho pensato se stessero parlando di donne pirata, e da lì è nata l’idea che ho poi sviluppato insieme a Annie. Le ho mandato un messaggio e lei mi ha risposto da Provincetown, nel Massachusetts, e in quel momento era proprio davanti a un museo di pirati! Che coincidenza!”

Annie, i brani sono da te cantati, cosa ci raccontano?
Abbiamo scelto una serie di piratesse che hanno lasciato un segno indelebile nel mondo della pirateria. Quando Giovanni mi ha mandato quel messaggio, sono entrata nel museo e ho visto che c’erano dei libri dedicati alle “Pirate Queens”, il modo in cui venivano chiamate le piratesse. Ho praticamente studiato a fondo le loro storie e ho scelto quelle più interessanti. Ogni brano è dedicato a una piratessa, per cui in alcuni casi i testi raccontano la loro vita, in altri il carattere. Mi piace l’idea di aver scritto dei testi non su me stessa, cosa che di solito si fa quando si scrive un brano, ma sulla vita di altri.

Giovanni, questo progetto ha avuto una gestazione molto lunga, quanto tempo ci avete messo per realizzarlo? E come?
Colpa mia! Diciamo che cerco sempre di prendere bene la mira quando realizzo qualche cosa, per cui se serve ci impiego anche più tempo del previsto, però in effetti questa volta sono passati addirittura degli anni! Il risultato però ci sta dando molte soddisfazioni perché è esattamente come volevamo che fosse. Io ho registrato tutte la parti musicali mentre Annie si è occupata dei testi. Collaboriamo molto bene insieme per cui a volte lei interviene sulle mie parti e io sulle sue, e in questa maniera sviluppiamo meglio l’idea di base.

Hai arrangiato, suonato e prodotto quasi tutto l’album, è la tua prima esperienza di questo genere o hai in passato prodotto o partecipato a simili progetti, se sì, quali?
Ho già lavorato con molti artisti in ambito produzione, tra cui il mitico Lou Reed, dato che ho realizzato un brano insieme al suo storico produttore Fernando Saunders. Abbiamo ripreso un brano dei Velvet Underground intitolato “Jesus” e l’ho un po’ stravolto, aggiungendo delle parti, cambiando totalmente il sound e l’atmosfera del brano, semplicemente seguendo il mio istinto. Sia a Fernando che a Lou è piaciuto molto per cui lo abbiamo realizzato per l’album di Saunders intitolato “Happiness” nel 2012. Ho avuto anche la possibilità di collaborare con Joe Cocker e Andy Summers tra i tanti artisti con cui ho lavorato.

Annie, il tema “piratesse” ha un risvolto attuale, anche metaforico, inteso nella attuale società in cui viviamo?
Ancora oggi, purtroppo, il dibattito relativo al ruolo della donna nella società è ancora molto aperto. Le piratesse hanno combattuto in prima persona per ottenere un riconoscimento e una uguaglianza in un mondo che era totalmente maschile, basti pensare che le donne non potevano salire sulle navi dei pirati. Loro però sono riuscite nel loro intento e hanno ottenuto la cosiddetta parità. È un po’ come guardare al problema da una angolatura differente, ossia in maniera positiva: loro sono riuscite a ottenerla l’uguaglianza.

Il vostro è un duo, come è nata l’amicizia artistica e non solo?
Io sono di New York City e sono cresciuta nel mondo di Broadway, andavo a vedere tutti i musical che potevo, e poi ho esordito all’età di dodici anni in un coro alla Carnegie Hall. Quando mi sono trasferita in Italia negli anni Ottanta ho incontrato molti musicisti che apprezzavano la mia voce e ho iniziato a lavorare con alcune band, tra cui i Casbah, con cui sono andata in tour aprendo i concerti di Vasco Rossi. Negli anni Novanta una nostra amica in comune mi ha fatto conoscere Giovanni e da lì è iniziato un bellissimo percorso artistico dapprima creando una band grunge, gli Street Tease (un nostro album intitolato “The Grunge Years” lo si può ascoltare su Spotify), e negli anni successivi sviluppando altre idee, fino ad arrivare a questo album. Siamo ottimi amici e artisticamente abbiamo una grande affinità.

Giovanni, come è lavorare con Annie?
Quando ho sentito la voce di Annie ho capito subito che era unica! È riconoscibilissima, molto personale, oltretutto perfetta per impersonare le piratesse. Mi trovo veramente bene a lavorare con lei, abbiamo lo stesso approccio nei confronti della musica, ci piace dare al pubblico un prodotto che sia il più professionale possibile e viaggiamo veramente sugli stessi binari. Ci confrontiamo a vicenda sui nostri ruoli, io come compositore e lei come autrice, e spesso è dal confronto che riusciamo a sviluppare ancora meglio i brani. E poi siamo sempre un po’ un vulcano di idee, non finiremmo mai di scrivere e suonare!

INTERVISTA ORIGINARIAMENTE PUBBLICATA SU “IL QUOTIDIANO DI BARI” IL 12 APRILE 2023

Abysmal Grief – Despise the living…

Regen Graves nel corso della sua esistenza ha seminato lungo la propria strada, come un oscuro Pollicino, piccole molliche di morte. Per nostra fortuna, queste briciole nere non vanno quasi mai disperse, così come capitato ai nove brani, provenienti da periodi diversi (2016 – 2021) della carriera degli Abysmal Grief, raccolti nell’antologia di inediti pubblicata di recente dall’Avantgarde Music,Despise the Living, Desecrate the Dead.

Ciao Regen, nelle note promozionali che accompagnano la vostra nuova raccolta, “Despise the Living, Desecrate the Dead”, ho trovato questa tua dichiarazione sul contenuto dell’album «canzoni registrate e mixate nel nostro studio negli ultimi anni, con diverse formazioni, che per una serie di ragioni non sono mai state incluse nelle uscite precedenti». Direi di iniziare proprio da questa “serie di ragioni”, che immagino che non siano di tenore qualitativo…
Il motivo per cui ci ritroviamo spesso con outtakes e “inediti” lasciati nel dimenticatoio è dato dal fatto che abbiamo un ritmo compositivo fortunatamente (ancora) piuttosto elevato, e quindi in occasione di ogni album si ripresenta la necessità di dover scegliere i brani che meglio si adattano ad un determinato concept, o che più banalmente stanno bene tra di loro a livello musicale. E dato che ormai da qualche anno abbiamo scelto di non pubblicare più singoli, mini-Lp o split, tutto questo materiale escluso va poi a confluire in un’unica release nel momento in cui esso raggiunge una durata sufficiente per un album. Non ti nego che dopo trent’anni di pubblicazioni, mi diverte assai di più assemblare un disco del genere, molto più eterogeneo e interessante, che non mettermi al lavoro su un album “ufficiale” dall’inizio alla fine, e ritengo che probabilmente in futuro sarà una direzione che continueremo a percorrere più marcatamente, sia che piaccia o no.

In generale, come fai a capire se un pezzo è pronto per finire in una vostra pubblicazione ufficiale?
Ovviamente, al momento della composizione tutti i brani hanno la stessa importanza, altrimenti finirebbero direttamente cestinati. Poi, però, a seconda del concept o del mood di ogni album viene fatta una scelta. Tutto qui.

Ti è mai capitato di pentirti anni dopo, magari riascoltando un vostro disco, di aver inserito nella tracklist un determinato brano?
No, per fortuna non mi sono mai pentito per aver incluso brani “brutti” o sbagliati, per il motivo di cui ti parlavo sopra. Semmai, mi è dispiaciuto non aver avuto sufficiente spazio in quel determinato album per includerne altri che avrebbero potuto starci assai bene.

Torniamo a “Despise the Living…”, i pezzi sono finiti nella compilation così come sono stati registrati all’epoca oppure ci hai messo nuovamente mano?
La maggior parte erano già stati completati e “chiusi” da tempo, mentre alcuni hanno necessitato solamente di piccole aggiunte qua e là, di qualche ripulita, e soprattutto di un mixaggio definitivo. In ultimo, è stato fatto un mastering non eccessivo, che potesse mettere per quanto possibile tutti i brani ad uno stesso livello sonoro.

Zess e The Black sono le due realtà a cui avete reso tributo in questo disco. Secondo te, la loro opera è servita a creare una vera e propria scena italiana o ci troviamo oggi innanzi a un nugolo di band, che pur avendo delle affinità stilistiche e concettuali, si muovono come entità isolate?
Gli Zess purtroppo sono stai una realtà praticamente sconosciuta a tutti, nel senso che il loro unico disco è uscito quando la band non esisteva più. Discorso diverso per Mario Di Donato, ovviamente, anche se è risaputo che tutti i grandi nomi del dark sound italiano hanno agito praticamente nell’ombra, soprattutto nei loro periodi migliori, e sono stati realmente scoperti e apprezzati solo successivamente, tranne rare eccezioni.

Di Vito Salvatore Monitto e della sua marcia funebre degli anni ’50, “Estremo Dolore”, cosa puoi dirmi?
Che era dai tempi di “Misfortune” che desideravamo trasporre in metal delle vere marce funebri della tradizione italiana (l’idea era addirittura quella di farne un album intero!) ma non ci siamo mai azzardati a intraprendere un lavoro del genere. Era semplicemente arrivato il momento di farlo, prima che ci pensasse qualcun altro meno titolato di noi.

Quello della Morte è il vostro tema per antonomasia, ma la tua percezione della stessa è cambiata nel corso del tempo? Magari, proprio in questi ultimi anni in cui abbiamo assistito a fenomeni di morte di massa quali pandemia e guerra nel nostro continente?
No, nell’era attuale i processi storici a cui assistiamo non credo possano influire più di tanto sul concetto proprio di Morte. Non ho ancora un’età tale da poter fare un confronto tra epoche vissute particolarmente distanti tra di loro o diverse, quindi per me, a livello personale, la percezione di essa come di tutti i fenomeni umani è rimasta pressochè inalterata. I fenomeni di pandemia e di guerra poi ci sono sempre stati, solo che erano lontani dal nostro felice mondo occidentale “civilizzato”, e quindi ipocritamente ce ne sbattevamo il cazzo e ne davamo una valutazione superficiale e “cinematografica”. Ora finalmente qualcosa è arrivato a smuovere, seppur di poco, anche le nostre confortevoli esistenze, e ai più sembra tutto così enormemente difficile da gestire a livello psicologico…

A proposito di morte, ma il formato CD è completamente defunto? La compilation esce in formato digitale e vinile, come avviene sempre più spesso anche per le release di altre band…
Questa release è solo su vinile poiché, in accordo con la Avantgarde Music, volevamo in qualche modo differenziarla dagli album “ufficiali”, ma presumo che il prossimo disco sarà pubblicato come sempre su CD, LP e cassetta. Mi piacerebbe che fosse il formato digitale a essere “defunto”, ma sono consapevole di dire una cosa fuori dal mondo ormai, quindi mi devo adattare alla realtà delle cose.

A breve dobbiamo aspettarci un nuovo disco di inediti, magari proprio l’Avantgarde Music?
Sicuramente non a breve, ma nel 2024 credo potremo parlare di un nuovo album. I brani nuovi ci sono, e ci stiamo lavorando proprio in questi mesi.

Tony Hadley – Talking to the moon

A distanza di due mesi, Tony Hadley, storico ed ex- cantante degli Spandau Ballet, torna in Italia per festeggiare i suoi quarant’anni di carriera. Anche più in realtà, se pensiamo che il primo singolo con la band inglese, To Cut a Long Story Short, uscì sul finire del 1980, per poi debuttare nel 1981 con il primo album “Journeys to Glory”. Da lì, una serie di successi, uno dietro l’altro, ha decretato alla band una fama a livello mondiale da far invidia a chiunque. Tra le loro hit più famose “I’ll Fly For You”, “True”, “Gold”, “Through the Barricades”, “Only When You Leave” e tante altre canzoni di grande successo, che sicuramente ascolteremo nel suo imminente live italiano che finalmente tocca anche il Sud Italia. Inizia domani sera con una doppia data a Palermo, per poi continuare a Taranto lunedì, 30 gennaio, al Teatro Orfeo e martedì all’Auditorium Gervasio di Matera, per poi proseguire il 1 febbraio a Ravenna al Teatro Alighieri. Quale migliore occasione per intervistare la star inglese.

Tony, finalmente torni in Italia e in particolare al Sud Italia, con cui tu hai un particolare legame, vieni spesso al Sud, com’è ritornarci dopo tanto tempo?
E’ sempre un grande piacere per me tornare in Italia. Ho un pubblico molto affezionato, che mi segue dal primo successo con gli Spandau Ballet, negli anni Ottanta. Le persone sono fantastiche, il cibo e il vino sono inarrivabili, per non parlare delle vostre ricchezze culturali e architettoniche. Come si fa a non amare l’Italia?

A proposito, conosci la musica italiana, c’è qualche artista o band italiana che ti ha colpito particolarmente?
Beh, dal momento che sto parlando con il Quotidiano di Bari, non posso che citare Caparezza. Con Michele ho inciso, nel 2011, il singolo “Goodbye Malinconia”, e ho passato dei giorni meravigliosi in Puglia!

A brevissimo suonerai sia a Taranto che a Matera, che tipo di concerto proporrai?
A Taranto e Matera non mi esibirò con la Fabolous TH band, il mio gruppo storico per i concerti rock, ma la mia performance sarà con l’Orchestra della Magna Grecia, con la quale presenterò brani iconici degli Spandau Ballet, alcuni brani della mia carriera solista, e non mancherà qualche piccola sorpresa in termini di cover.

Nuovo album in cantiere?
Sì, ci sto lavorando, ci sono già molti brani pronti, ma non sono ancora in grado di programmare una data di uscita.

Quarant’anni di musica per te: dischi, tour, attività promozionali in tutto il mondo, come è cambiata la musica e il suo modo di farla rispetto ai tuoi esordi?
È banale dirlo, ma ovviamente l’avvento dello streaming ha cambiato tutto. Non c’è più l’attaccamento ad un album, ora si ragiona a singoli, ma nello stesso tempo la musica è diventata più fruibile per tutti, ed è molto più facile scoprire nuovi talenti. Le mie figlie più piccole, che sono adolescenti, mi avvicinano spesso a musica nuova che non conoscevo e che apprezzano, grazie allo streaming. Il desiderio di vedere un artista in concerto rimane però invariato.

INTERVISTA ORIGINARIAMENTE PUBBLICATA SU “IL QUOTIDIANO DI BARI” IL 26 GENNAIO 2023

Kryuhm – Danze macabre tra i fuochi

Puoi aspettare per una vita l’esordio della tua band, e quando arriva, non pensi agli anni difficili che ti sei messo alle spalle, ma ti godi il presente e programmi il futuro e delle scorie del passato non resta quasi più traccia. Qualcosa del genere è capitato ai Kryuhm di Daniele “Ozzy” Laurenti, nati più meno venticinque anni fa e giunti solo lo scorso al debutto con “Only In My Mind” (Black Widow Records).

Ciao Daniele, da poco è fuori l’esordio dei tuoi Kryuhm, “Only In My Mind”, però la band esiste da quasi un quarto di secolo. Come mai ci avete messo così tanto a pubblicare la vostra opera prima?
La storia dei Kryuhm si potrebbe definire una sorta di “sfida” alle problematiche di vita. Chi ha dei sogni, spesso li mette nel cassetto per mille motivi: quando ero ancora giovane dovetti abbandonare le passioni musicali per turni di lavoro esasperati, bambini da far crescere, mutui da pagare..Raramente riuscivo a trovare le energie, il tempo e la costanza per dedicarmi al progetto. Aggiungo che spesso la storia delle band va avanti solo trovando la giusta alchimia tra i musicisti, se non arriva ci si imbatte nell’ennesimo stop… e nei Kryuhm è successo più volte.

Appunto, un anno importante della vostra storia è sicuramente il 2004, contraddistinto dall’uscita di Sinico e il conseguente stop di un lustro. L’attività poi viene ripresa nel 2009 e interrotta nuovamente, almeno sino al 2021. In questo lasso di tempo si sono avvicendati diversi membri e immagino che anche tu come persona sia cambiato rispetto alla fine dei 90, quando hai creato la band. Quanto dell’idea originale dei Kryuhm c’è ancora in questa edizione del 2022 e cosa invece è cambiato in meglio o in peggio secondo te? 
Bella domanda! Partiamo dalla storia: dopo uno sforzo economico per autoprodurre il nostro primo demo tape, abbiamo cercato di compattare la band a suon di concerti e serate ma le vie per arrivare al pubblico negli anni 90 erano molto più difficili di oggi con internet ed i social. Si poteva solo mandare il demo a case discografiche e le due-tre riviste del settore. Sinico ad un certo punto lascia la band ed arriva il primo scoramento, io e Brusaferro ripartiamo nel 2009 ma anche lì per problemi di lavoro Berton lascia. Il cambiamento vero e proprio è arrivato quando io ho variato modo di vedere le cose, prendendo in mano la band e cercando di sistemare tutto in maniera seria e professionale In quel periodo lascia anche l’ultimo dei fondatori per visioni diverse sul progetto. Ho messo su una nuova band  cercando obiettivi da raggiungere senza pensare ad altro. Dell’idea originale è rimasto il “sogno”, è cambiato totalmente invece il modo di lavorare, la mentalità ed il metodo, che è sicuramente più positivo ed appagante.

Al di là delle influenze storiche, c’è una band più recente che ti ha ispirato o dato degli spunti per “Only In My Mind”?
Ne ho molte in realtà. Anche se sono legato al sound del classico heavy metal, ascolto molto e di molti generi, dal progressive rock italiano degli anni 70 al dark sound made in Italy. Una band che mi affascina particolarmente sono i The Magik Way dell’amico Flavio Porrati, così come Il Segno Del Comando di Diego Bnchero. Ma potrei citarne moltissime, da Mater At Clivis Imperat di Samael Von Martin ad Incantvum di Vittorio Sabelli. Le seguo tutte e tutte danno lustro all’underground italiano.

Cosa c’è “solo nella tua mente”?
Nella mia mente c’è solo la “voglia” di recuperare il tempo perso, portare la nostra musica agli appassionati, tributare i miei musicisti preferiti e dare spazio a nuove collaborazioni con tanti artisti “amici”, che stimo e con cui condivido storie, idee e progetti… Credo molto nelle collaborazioni.

Effettivamente, nel disco appaiono in veste di ospiti Federico Dalla Benetta (Riul Doamei, Nero The Fall Of Rome) e John Goldfinch: come sono nate queste collaborazioni?
Con John ci eravamo sentiti negli anni passati, c’era la voglia di fare qualcosa assieme ed alla fine ci siamo riusciti! Federico lo conosco bene, per anni l’ho visto nei live club di Verona, mi ha impressionato il lavoro fatto con i Nero The Fall Of Rome e da lì la voglia di contattarlo per questa collaborazione.

I pezzi finiti nell’album sono il frutto delle diverse epoche della band oppure sono tutti recenti?
Ci sono tre pezzi del 2001, due del 2009 e tre del 2022. Ho voluto proprio inserire le varie epoche e formazioni dei Kryuhm per rendere, comunque, a chi ne ha fatto parte. Anche se, ovviamente, tutto l’album è stato registrato dalla formazione attuale.

Leggendo la tracklist, salta subito all’occhio l’unico titolo in italiano “Danze macabre tra i fuochi”. Questo pezzo rappresenta un esperimento che potrebbe portare a nuovi sviluppi per i prossimi album oppure si tratta di un pezzo isolato che non apre in modo definitivo all’uso dell’italiano nella vostra produzione?
Non è un’episodio isolato, anzi, posso anticipare che i Kryuhm faranno più pezzi in italiano e non solo: in un pezzo useremo anche delle frasi in lingua francese, oltre all’inglese ovviamente.

I brani come sono stati accolti dal vivo?
La dimensione live credo proprio che sia uno dei punti di “forza” dei Kryuhm, abbiamo una notevole intesa sul palco ed un groove non indifferente. Infatti i nostri concerti sono accolti molto positivamente dal pubblico. Vorrei citare quello tenuto a Genova recentemente dove abbiamo condiviso il palco con Blue Down e Vanexa. Siamo stati accolti con una vera e propria “magia”, il pubblico ci ha supportato da sotto il palco per tutto il tempo in maniera eccezionale!

In conclusione, apriamo una finestra sul futuro: c’è un pezzo di “Only In My Mind” che potrebbe rappresentare la base di partenza per il prossimo disco?
Per certi versi direi “Danze Macabre Tra I Fuochi”, ma non abbandoneremo le atmosfere di “In The Nightmare” o “The Evolution…