
Gabriele Grixoni – chitarra
Matteo Ricci – chitarra
Agostino Tavella – tastiere
Diego Banchero – basso
Carlo Opisso – batteria
Parlare di questo album è per me fonte di grande emozione. Si tratta, infatti, del primo della lunga serie delle mie pubblicazioni che oggi tra full-length, EP e raccolte è arrivata a superare le 45 uscite; numero che, salvo imprevisti, è destinato ad aumentare.
La mia attività di musicista era iniziata parecchi anni prima del ’96, ma si era concentrata quasi interamente in ambito live.
Negli anni, avevo dedicato molte energie alla mia formazione di bassista, avevo studiato molto e avevo approfondito generi diversi.
L’amore per il basso elettrico mi aveva portato a percorrere strade stilistiche anche lontane dal metal, genere che aveva acceso in me quella scintilla che ti fa dire: “Basta! Devo suonare anch’io!”.
Tutto questo lavoro condotto per la voglia di imparare, infine, mi aveva spinto verso lo studio del jazz. Per iscrivermi alla gloriosa scuola genovese Jazz Quarto avevo abbandonato anche i nascenti Malombra, qualche anno prima che questa band pubblicasse il proprio disco di esordio.
Questa esperienza formativa mi fece maturare al punto che sentii di avere bisogno di mettermi alla prova in maniera definitiva come compositore, arrangiatore e direttore esecutivo.
Avevo amato molto il jazz, ma forse, diventare un bassista turnista in quell’ambito, non era una strada che potesse soddisfare qualcosa che sentivo di avere dentro e che andava oltre l’esigenza di suonare uno strumento.
Fin dai miei esordi avevo suonato in band che proponevano musica propria e avevo sempre contribuito alla parte compositiva, pur non essendo mai stato il principale artefice delle composizioni. Però, già ai tempi degli Zess (band che aveva preceduto sia Malombra sia Il Segno del Comando), avevo preso coscienza di possedere una naturale predisposizione a creare musiche ed arrangiamenti che erano in linea sia con il soundtrack horror sia con il poliziottesco di matrice italiana. Quei tipi di sonorità mi venivano naturali come se li avessi radicati nel DNA.
Questa mia propensione era emersa così prepotentemente già ai tempi degli Zess e, successivamente, nel periodo della sperimentazione che portò alla nascita di Malombra, che si comprese fin da subito che avrebbe dovuto essere impiegata in uno spazio specifico. Un progetto nuovo per il quale si indicò già parecchi anni prima un possibile moniker: Il Segno del Comando. Questo nome fu rievocato in onore degli sceneggiati Rai che avevano traumatizzato la nostra infanzia.
Intorno alla metà degli anni ’90 tornai a frequentare certi vecchi ambienti con la voglia di iniziare a mettere su disco qualche mia idea. Avevo condotto già delle sperimentazioni con il mio quartetto di jazz elettrico, scrivendo e registrando tre brani strumentali in stile soundtrack in presa diretta.
Ripresi i contatti con Mercy e assieme decidemmo che era giunto il momento di realizzare il tanto fantasticato disco. Formammo una band composta da una parte dei musicisti dal mio quartetto (Gabriele Grixoni e Carlo Opisso), dal chitarrista dei Malombra (Matteo Ricci) e da un tastierista locale (Agostino Tavella). Io scrissi molto velocemente le musiche necessarie ad arrivare al minutaggio di un LP (successivamente aggiungemmo qualche brano strumentale apportando alcuni arrangiamenti), mentre Mercy procedette con i testi. Per creare atmosfere e lyrics ci si basò sul romanzo di Giuseppe D’Agata che in quegli anni era uscito in edizione economica. In quel periodo non erano disponibili VHS dello sceneggiato originale de Il Segno del Comando. Saltuariamente la Rai trasmetteva in piena notte vari serial degli anni ’70, ma non erano nelle programmazioni dei palinsesti. Era necessario passare le nottate davanti alla tv e avere il colpo di fortuna di riuscire a trovarsi pronti con il videoregistratore; cosa che ovviamente non riuscimmo a fare.
Recuperammo, grazie a Pino Pintabona della Black Widow, una VHS con il remake de Il Segno del Comando che era stato girato in Francia nel 1988 e trasmesso in Italia nel 1992. Da questo trascrivemmo solo il “Salmo XVII di Baldassarre Vitali” che era differente da quello dello sceneggiato del ’71 (del quale, però, non avevamo trovato traccia). Era stato, infatti, riscritto da Luis Bacalov.
Dopo pochissime prove portammo la band al New Musical Box di Genova Bolzaneto. Uno studio di periferia che in quel periodo era molto attivo sul territorio genovese. Era gestito da Osvaldo Giordano assieme a sua moglie Doriana Barbè. Nello stesso stabile c’erano molte sale prova che i gruppi musicali affittavano a lungo termine. La struttura, un tempo, era stata un ospedale e aveva lunghissimi corridoi deserti e pieni di porte chiuse. Avrebbe potuto benissimo essere la location adatta alle riprese di un film horror.
Avevamo prenotato lo studio per due weekend, tempo in cui si era stabilito di completare tutte le musiche suonando in presa diretta l’intero album. Il registratore era un vecchio cassone analogico a bobina e anche le possibilità di editing erano inferiori a quelle consentite oggi dal digitale. Ci fu molta improvvisazione a partire dagli assoli, ma riuscimmo a stare nei tempi stabiliti.
Nelle settimane successive registrammo le voci definitive, eliminando quelle che in una prima fase erano servite solo a guidare la band durante l’esecuzione dei brani.
Seguì una fase di missaggio piuttosto lunga. Infatti trovammo alcune difficoltà nel raggiungere l’amalgama ottimale che ritenevamo di dover dare a questo album.
I tempi non erano quelli di oggi. Avevamo poca esperienza, ma eravamo consapevoli di aver realizzato un album destinato a pochissimi. Si era scelto di cantare in italiano in un momento in cui in Italia si cercava in ogni modo di ridurre il divario che il rock nostrano aveva rispetto quello di lingua anglofona. Le sonorità e le soluzioni stilistiche che avevamo adottato appartenevano ad un’epoca passata di moda. La maggior parte dei musicisti era pienamente attenta a ciò che arrivava da oltreoceano o da oltremanica. Molta sperimentazione era in atto, perché si sentiva il bisogno di trovare nuovi modi di fare rock, ma riagganciarsi a qualcosa di passato, soprattutto se proveniente dalla tradizione italiana, era una scelta vista come involutiva.
Noi, però, avevamo dietro la Black Widow Records. Un’etichetta nata pochi anni prima (il primo album de Il Segno del Comando è stato il 17° pubblicato dalla label genovese) che manteneva un profondo legame con l’ambiente del collezionismo. Avevano il coraggio di appoggiare scelte lontane dalle mode di quei tempi.
Si decise di stampare il disco sia in cd sia in vinile (supporto che all’epoca era ancora fondamentale) e fu prevista un’edizione limitata alla quale fu allegato un medaglione realizzato da un ragazzo genovese. Tutta la produzione mantenne una certa artigianalità, ma l’album iniziò, fin da subito, a incuriosire sia appassionati di rock progressivo sia appassionati di metal (che da sempre avevano amato i Goblin).
Il progetto era nato come side project e dopo aver pubblicato l’album, seguì una fase di grande indecisione e confusione. Non si sapeva quale direzione prendere e la stessa crisi non risparmiò neppure Malombra che dopo “Our Lady of the Bones”, uscito non molti mesi prima dell’LP di esordio de Il Segno del Comando, non riuscì più a ripartire veramente.
Quale poteva essere il futuro per noi?
Avevamo compiuto un esperimento di recupero di una parte di storia del nostro paese che i media volevano cancellare. Amavamo troppo il nostro passato per vederlo dimenticato, ma il mondo non era in linea con un lavoro di resistenza culturale come il nostro.
In quegli anni arrivammo a pensare di aver fallito. Di aver portato avanti progetti che non avrebbero mai avuto una loro collocazione nella scena rock internazionale. Pensammo di dover cambiare totalmente strada e dar vita a qualcosa di nuovo. Così fermammo ogni attività dopo il primo album e non pianificammo nuovi lavori negli anni immediatamente successivi.
Via via, iniziarono ad arrivare attestazioni di stima sia da fans inaspettati sia dalla stampa. Persone che in parte sono ancora oggi affezionate a Il Segno del Comando e hanno continuato a seguire il progetto malgrado i molti cambiamenti avvenuti con il tempo.
Negli anni si sono modificate molte cose. E’ chiaro a tutti che l’industria discografica sia in piena crisi. Probabilmente una crisi irreversibile. Un vero salto di paradigma da quale è impossibile tornare indietro, però il cambiamento che c’è stato negli anni ha preso pieghe che mai mi sarei aspettato.
I generi di dark music che allora rappresentavano il mainstream (come il dark wave e il gothic) sono praticamente spariti, mentre c’è stato un revival del prog. Oggi Il Segno del Comando sta vivendo una nuova giovinezza e resiste tra quei progetti che ancora trovano una propria collocazione.
Diego Banchero

Tenebrose Presenze
Il Segno Del Comando
Salmo XVII Di Baldassarre Vitali O “Della Doppia Morte”
Messaggero Di Pietra
Ritratto Di Donna Velata (Lord Byron’s Night Promenade)
Missa Nigra
La Taverna Dell’Angelo
Ghost Lovers In Villa Piuma