Ospite di Mirella Catena a Overthewall un grande protagonista del metal italiano, Luca Bonzagni con il suo nuovo progetto musiale Krell.
Luca, sei stato il cantante storico dei Crying Steel e la tua estensione vocale è stata paragonata a quella di Rob Halford. Hai collezionato successi e hai calcato palchi importanti sin dagli anni 80. Chi è Luca Bonzagni adesso? Luca è un vecchio cantante che ha ancora la musica, vecchia amica fedele, che lo accompagna sin da quando era bambino, prima come fruitore e poi anche come musicista.
Come nasce il progetto Krell? Nasce qualche anno fa quando io e Di Nicola ci siamo incontrati per caso, dopo qualche tempo che non ci vedevamo, ed abbiamo deciso di fare qualcosa insieme.
Chi ha scelto il moniker e qual è il significato? Il nome Krell è una citazione cinematografica dal film “Il pianeta proibito” dove Krell era il nome di un popolo, ormai estinto, che possedeva tecnologie avanzatissime che permettevano loro di materializzare i sogni (o anche gli incubi…) delle persone che le utilizzavano.
I dieci brani sono stati registrati al Pristudio di Bologna, con Roberto Priori come tecnico del suono. Ci parli della realizzazione dell’album? Priori, grande tecnico ed amico, ha fatto un lavoro egregio adattando il sound ai contenuti sonori dell’album.
“Deserts” è targato novembre 2022, state già lavorando a qualcosa di nuovo? Non attualmente, anche se di materiale ne abbiamo ancora.
Sono previsti dei live per promuovere il nuovo album? Se dovesse capitare l’occasione di suonare live, saremo ben lieti farlo.
Come pensi che la scena metal italiana si sia trasformata, dagli anni ’80 ad oggi? Vantaggi e svantaggi, come sempre… si è purtroppo frammentata in mille rivoli ma al contempo si è diffusa enormemente.
Dove i nostri ascoltatori possono seguire i Krell? Attraverso le piattaforme social più famose e praticamente tutti i servizi di streaming attuali.
Grazie di essere stato con noi, lascio a te l’ultima parola… Mirella, sono io che ti ringrazio per avermi ospitato e saluto con affetto tutti gli ascoltatori. A presto.
Ascolta qui l’audio completo dell’intervista andata in onda il giorno 13 Febbraio 2023.
Enio Nicolini è un treno perennemente in corsa, difficile immaginarlo lontano da una sala di registrazione o da un palco. Così in questo 2022 la sua discografia, già corposa, si arricchisce di un’altra uscita, “Hellish Mechanism” (Hellbones Records), pubblicata a nome Enio Nicolini and the Otron.
Benvenuto Enio, da poco è fuori il nuovo lavoro dei tuoi Enio Nicolini and the Otron: hai per caso contatoquante pubblicazioni hai nella tua nutrita discografia, considerando tutte le band con cui hai lavorato? Innanzi tutto, ti ringraziamo per ospitarci nelle tue pagine. In effetti dal primo album pubblicato nel 1985 “Heavy & Dangerous”(Unreal Terror) a “Hellish Mechanism” (E.N. and the Otron) del 2022, passando per The Black (27 anni), Akron, Sloe Gin, il mio progetto con ospiti a mio nome “Heavy Schering”, sono tanti… Escluse compilation e ristampe varie, 20 dischi.
Gli Enio Nicolini and the Otron sono l’unica band che contiene nel proprio moniker il tuo nome, lo ritieni il tuo progetto più personale? Sì, al momento è l’unico progetto che mi identifica come ”band”, anche se ho pubblicato un lavoro con ospiti a mio nome, dal titolo ”Heavy Sharing”. Il progetto Enio Nicolini and the Otron rappresenta il mio progetto più personale, proprio per come è stato concepito. Tutto in effetti si basa sul ruolo del “basso” che diventa l’elemento primario nella costruzione della melodia, in sostituzione della chitarra. Questo avviene perché uso dei power chord che mi danno la possibilità di fare composizione, oltre a questa modalità ne inserisco, sempre, anche una più convenzionale. Cosi posso portare il basso oltre il ruolo “classico” di strumento prettamente ritmico e di accompagnamento, ad elemento centrale del progetto dove ruota tutto il resto della composizione. Ho affinato questo mio modo di usare lo strumento negli Otron, facendolo diventare il mio “marchio di fabbrica” .
Sapresti individuare nel nuovo disco, “Hellish Mecchanism”, qualcosa di riconducile agli Unreal Terror e agli Akron? Le mie radici partono da quei lavori ed è inevitabile che il mio modo di comporre possa essere in qualche maniera contaminata. Oggi ho affinato una mia tecnica compositiva, come detto prima, che si differenzia molto dal mio modo di esecuzione. Anche le tematiche che sto affrontando, a partire dal progetto Otron, sono completamente diverse e vertono su argomenti riconducibili al mondo sci-fi.
Invece, cosa c’è che non hai mai sperimentato prima in questo disco? L’uso dell’elettronica e synth . Il progetto Otron si muove come detto in un mondo sci-fi e l’utilizzo di questi elementi fanno si che ci si possa proiettare in quella dimensione, poi con un drumming possente e una voce adeguata e interpretativa si riesce a restare nel metal viaggiando con sonorità nuove e futuribili (mia convinzione).
A cosa si riferisce il titolo “Hellish Mecchanism”? “Meccanismo infernale” vuole sottolineare come i “media” possano essere padroni delle menti rese schiave da false “verità”, spacciate tali da un infernale pensiero rassicurante. Tutto questo, nel testo, viene monitorato da pensieri liberi che urlano rabbia e opposizione a questo meccanismo di morte in atto.
Come sono nati i pezzi finiti in “Hellish Mecchanism”, il fatto che il disco sia stato scritto a ridosso della pandemia ha cambiato il tuo modo di lavorare in studio? Tutto “Hellish Mechanism” l’ho scritto in piena pandemia e sicuramente le tematiche dei testi hanno risentito del periodo. Praticamente sono stati tutti, o quasi, eliminati i nostri contatti in presenza, ma non quelli che la tecnologia ci ha messo a disposizione. Sono riuscito comunque a fare tutte le basi ritmiche con Damiano Paoloni nel suo studio a Castelfidardo (An) – il “Sound Distillery Recording Studio – adottando tutte le regole imposte dai decreti in vigore all’epoca, mentre con Gianluca Arcuri (anche lui marchigiano) e Luciano Palermi che vive a Los Angeles abbiamo lavorato a distanza. Nonostante questo è stato tutto molto empatico riuscendo a realizzare un grande disco.
Mi presenteresti gli artisti che hanno collaborato con te nella realizzazione di “Hellish Mecchanism”? Con molto piacere e orgoglio, perché in primis sono grandi persone e poi musicisti di prim’ordine. Alla batteria Damiano Paoloni, un drummer poliedrico con un curriculum artistico vastissimo che lo ha portato a prestare le sue pelli anche in generi diversi dal metal, questo anche per la sua enorme conoscenza della musica. Lui è anche un esperto tecnico del suono e titolare dello studio (citato prima) dove abbiamo registrato il disco. Poi Gianluca Arcuri, un mago dell’elettronica e synth con una enorme sensibilità artistica, lui con il suo contributo sonoro ci ha portato in una dimensione cyber e moderna (mio parere). Luciano Palermi, voce storica degli Unreal Terror che ci ha visti nella stessa band negli anni 80 e poi nella reunion del 2012. Che dire, è un vocalist completo dotato di una grande sensibilità e professionalità nel creare melodie che rimangono indelebili nella memoria dell’ascoltatore. Il suoi lavoro ormai decennale di doppiatore negli USA hanno anche accentuato quella teatralità nell’interpretare qualsiasi cosa debba cantare. Questi sono gli Otron un combo di professionisti e soprattutto di amici
Chi di loro ti seguirà dal vivo nelle date a supporto del disco? La maggiore difficoltà potrebbe essere per Luciano Palermi il cantante che vive a Los Angeles e Damiano Paoloni per gli impegni con il suo studio di registrazione, ma abbiamo sempre l’opzione di avere a bordo gli altri componenti degli Otron con i quali ho registrato il primo disco “Cyberstorm”. Comunque appena saranno stabilite le date, ci organizzeremo per dare a chi ci ascolterà un grande spettacolo.
Da quale delle tue band dobbiamo aspettarci il tuo prossimo disco? Sicuramente ci sarà il terzo disco con il moniker Enio Nicolini and the Otron a chiudere la trilogia… poi vedremo.
Francesco Marras ha legato il proprio nome soprattutto al destino della sua band, gli Screaming Shadows. Recentemente è persino arrivato alla corte di quella leggenda della NWOBHM che risponde al nome di Tygers of Pan Tang. Ma evidentemente al chitarrista italiano questi ottimi risultati non bastavano, qualcosa dentro di lui era ancora inespresso. Cosa di meglio, allora, di un disco solista per mettersi a nudo ed esprimere tutto ciò che si ha dentro? Nel caso di Francesco, poi, questa volontà è chiara sin dal titolo, “It’s Me”, vera e propria dichiarazione di autodeterminazione!
Benvenuto Francesco, le nostre strade si sono incrociate l’ultima nel 2021 in occasione della pubblicazione del primo singolo, “Free Me”, tratto dall’ultimo album dei tuoi Screaming Shadows: come è andato “Legacy of Stone”? Ciao ragazzi! L’ultimo disco degli Screaming Shadows “Legacy of stone” sta andando bene, lo stiamo ancora promuovendo e a Dicembre riprenderemo a suonare dal vivo. E’ decisamente il miglior disco prodotto dalla band e ne siamo pienamente soddisfatti.
Da poco è uscito invece il tuo album omonimo, cosa si prova a leggere su una copertina il proprio nome invece di quello di quello della band? E’ una bella soddisfazione, mi piace il logo del mio nome, molto anni 80, così come la copertina, opera anche questa volta del disegnatore Stan W Decker.
Il titolo è emblematico, “It’s Me”: vuoi forse dire che dopo anni di carriera per la prima sei riuscito a metterti completamente a nudo? Il titolo non sarebbe potuto essere diverso, questo disco mi rappresenta al 100% ed è la prima volta che mi presento anche come cantante. Ero curioso di sapere come sarebbe stato recensito il disco e devo dire che tutte le recensioni hanno voti alti e commenti molto positivi, sto ricevendo un feedback molto motivante, è una bella soddisfazione.
C’è un brano nel disco che esprime un lato di te nascosto, una parte del tuo Io più intimo? Con i miei testi cerco sempre di trasmettere un messaggio positivo e motivante, anche il genere musicale è più leggero rispetto ai lavori degli Screaming o dei Tygers. Era mio intento creare un disco che potesse essere ascoltato con facilità e leggerezza in qualsiasi situazione, è perfetto per viaggiare infatti. La durata totale è di circa 48 minuti e non ha riempitivi, tutte le canzoni sono ispirate e fresche. Tutti i testi comunque parlano di cose che ho visto o vissuto in prima persona, o del mio punto di vista riguardo a qualcosa. I testi più intimi sono sicuramente “Closer to the Edge”, “In the Name of Rock and Roll”, “Do You Hear Me Now?
Come è cambiato il tuo modo di lavorare dovendo incidere per te stesso e non per gli Screaming Shadows? Il cambiamento più importante è stato quello di integrare nel mio sound il suono dell’hammond, per questo devo ringraziare il mio amico Marco “Lord” Cossu che ha registrato tutte le parti. Ho fatto questa scelta perché non volevo sovraccaricare gli arrangiamenti di chitarre ed in vista degli eventuali concerti avevo cmq bisogno di qualcosa che riempisse il sound e interagisse e supportasse la chitarra.
Al di là di ogni cosa, immagino che ti sia portato dentro questo album tutte le tue esperienze precedenti, per esempio cosa ci hai messo della tua avventura con una band storica come i Tyger of Pan Tang? Certo, rappresentando il punto in cui mi trovo in questo momento del mio percorso artistico e musicale, porta con se tutte le esperienze precedenti. Devo dire però che il disco è stato scritto prima del mio ingresso nei Tygers.
Hai fatto quasi tutto tu, sia nelle vesti di musicista che di produttore, ma c’è qualcuno che ti aiutato nella realizzazione dell’album e che vorresti ringraziare? Non c’è una persona che mi ha aiutato in particolar modo alla realizzazione del disco, ma tutte le persone che ci hanno lavorato e che mi sono state vicine nel periodo di produzione sono citate e ringraziate negli special thanks all’interno del booklet.
Hai già accennato a qualcosa prima: porterai in giro il disco, magari con una vera e propria band, o si tratta di un progetto da studio? Non è solo uno studio project, mi piacerebbe moltissimo portare la mia musica e la mia voce dal vivo e sto lavorando perché ciò avvenga presto.
I tuoi propositi per il 2022-23? Nel 2023 uscirà il nuovo disco dei Tygers of Pan Tang, il primo con me alla chitarra, sicuramente quello sarà il maggiore obbiettivo per il prossimo anno. Poi ovviamente continuerò a lavorare con gli Screaming Shadows e a promuovere il mio nuovo disco solista “It’s Me!” che ricordo, è disponibile in formato CD dal mio sito www.francescomarras.com. Seguitemi sui social per rimanere aggiornati sulle prossime novità, grazie per il supporto, un saluto, a presto!
David Shankle è uno dei più grandi maestri dello shred. Dopo l’incredibile parentesi con i Manowar nei primi ’90, con il suo debutto su “The Thriump of Steel”, in questi anni ha dedicato tutta la sua vita alla musica, aprendo anche una sua accademia. In questa intervista per Il Raglio del Mulo, David ci ha rivelato il suo punto di vista sulla musica di oggi, cosa si prova quando si suona per i Manowar e con quali band dell’odierna scena dell’heavy-power metal collabora.
Ciao David, benvenuto su Il Raglio del Mulo, come è iniziato il tuo percorso nella scena metal? Mio padre mi ha fatto iniziare a suonare a otto anni. Ho smesso per un periodo ma ho ripreso da adolescente e da allora non ho più smesso. Dopo aver esplorato tutti gli stili musicali, il neoclassic power/progressive metal e la chitarra classica hanno catturato il mio cuore.
Hai mai pensato di abbandonare la musica? No. La musica è la mia vita. Amo tutte le band in cui sono stato, quelle con cui ho collaborato come ospite con i miei assoli e il mio disco strumentale che sto pianificando per il prossimo futuro. Per quanto riguarda i Manowar, è stata un’esperienza meravigliosa e mi ha portato un disco d’oro/di platino e l’opportunità di suonare davanti a centinaia di migliaia di fan.
Cosa pensi della satura scena metal attuale, credi che sia più difficile vivere di musica ora che in passato? Come si dice: le cose cambiano, cambiano sempre. Ma c’è posto per tutti, basta fare ciò che si ama, in cui si crede. Almeno per me, funziona così.
Secondo te, cos’è che non consente la crescita dell’underground? Come dicevo prima, credo che tu debba lottare per i tuoi sogni e fare ciò che desideri, poi tutto andrà a posto da sé.
Internet oggi, con le piattaforme di musica digitale, secondo te è una benedizione o una maledizione? È una benedizione. Le cose cambiano. È necessario seguire le nuove opportunità e lavorare all’interno del sistema per avere successo.
David, quanto materiale hai registrato in tutti questi anni anche in veste di ospite? I Manowar erano una band meravigliosa, con “The Triumph of Steel” portarono a casa un disco di oro/platino; tre album con i DSG: “Ashes to Ashes”, “Hellborn” e “Still a Warrior”; un album con i Feanor, “Power of the Chosen One”; un album con i GraveReign, “Destination Aftermath”. Con i Wings of Destiny pubblicherò a breve nuova musica, mentre ho inciso 30 assoli come ospite su progetti di altri artisti. Farò uno strumentale in futuro. Tutto sarà disponibile sulle piattaforme digitali a breve.
Secondo te, una band emergente, qualunque sia lo stile del metal, può avere successo solo se ha una grande etichetta alle spalle o, al contrario, oggi ci sono più possibilità di farcela senza dover dipendere da una label? Come artista, è sempre bello avere un’etichetta alle spalle, ma internet ha fornito a tutta la musica maggiori possibilità di essere ascoltata e ha offerto incredibili opportunità alle band emergenti.
Cosa pensi debba cambiare urgentemente nell’industria musicale? Dobbiamo tornare a fare tour e suonare per i fan. Credo che ciò accadrà presto, e non vedo l’ora!
Cosa ti spinge a registrare metal? L’amore per lo strumento e dei fan che mi chiedono poter ascoltare dei nuovi brani. Suonerò fino al giorno della mia morte e andrò in tournée finché non chiuderanno la mia bara… o anche più a lungo…
Nel 1992 uscì “The Triumph of Steel”, cosa ricordi di quel periodo con i Manowar? Quello con i Manowar è stato un periodo meraviglioso della mia vita. Ho scritto metà di “The Triumph of Steel”, che è diventato oro/platino e mi ha aperto molte porte. Mi ha dato la possibilità di girare il mondo e suonare davanti a centinaia di migliaia di fan. Ciò ha portato al successo dei miei album come DSG e a tutto quello che sto facendo oggi.
Nonostante un moniker che si rifà a un grande personaggio del passato, i Gengis Khan non stanno lì a rimuginare troppo sul proprio di passato, anzi preferiscono di disco in disco sperimentare nuove soluzioni. L’ultima uscita della band italiana, “Possessed by the Moon”, ha un approccio ben più melodico rispetto alle due precedenti uscite del gruppo, ma non per questo meno epico.
Benvenuto Frank, il vostro album di debutto si intitolava “Gengis Khan Was a Rocker”, sono passati nove anni da quella pubblicazione, ma non direi che l’imperatore mongolo abbia cambiato gusti musicali, stando a quanto contenuto nel vostro nuovo lavoro “Possessed by the Moon”! Ciao e saluto tutti i lettori di Raglio del Mulo! Beh, direi di no, oserei dire quasi che i suoi gusti si sono un filo estremizzati rispetto al primo album che direi quasi era più un demo che un album. Ma è bello cosi al inizio.
Oltre ai gusti musicali, credi che in qualche modo ci sia una sorta di filo ispiratore che unisca la pianura mongola e la vostra pianura padana? Per certe angolazioni potrebbe sì assomigliarci. Ma è lo spirito di chi ci abita che assomiglia, a mio parere, molto di più a quello del popolo mongolo per la tenacia di chi non si arrende mai.
Il protagonista del vostro nuovo album è il lupo, lo richiamate nel titolo, fa bella mostra di sé sulla copertina e nel nome del brano “Possessed by the Wolf”. Cosa rappresenta nell’album il lupo? E ha anche un valore simbolico nelle vostre vite? Siamo stati ispirati dalla grande leggenda del lupo blu. Ho letto recentemente l’epopea del lupo blu della steppa di Homeric pubblicato da Rizzoli e questo mi ha ispirato nel creare un racconto mistico tra leggenda e realtà, con dettagli, tra le righe, che ritraggono anche situazioni di vita reale e quotidiana. Ma allo stesso tempo creano un concept tra “Possessed by the Wolf” e “Possessed by the Moon”.
Hai dichiarato “Canzoni come “Possessed By The Wolf”, “The Wall Of Death” e la ballata “Eternal Flame” sorprenderanno i nostri ascoltatori. Ci sarà più melodia e le tastiere hanno un suono enorme!”. Avevate programmato questi cambiamenti oppure la mutazione è avvenuta in modo spontaneo? La mia band metal preferita sono i Vanadium e ho sempre adorato le tastiere, semplicemente però non ho mai incontrato un tastierista con il quale legare. Con l’entrata in formazione di Lee Under tutto è cambiato, lui è colui che diede il nome alla band nel 2012, prima era il nostro merchandiser/roadie, da qualche anno a sta parte si è specializzato nelle tastiere e cosi non potevamo scegliere di meglio, visto che era già della famiglia. Devo dire che ha un ottimo talento nel leggere il ruolo adatto delle tastiere al interno dei nostri brani, siamo molto soddisfatti.
In qualche modo la scelta di Simone Mularoni ha inciso su questa nuova direzione? No assolutamente, anzi lui ci preferiva senza. “Colder Than Heaven”, il nostro precedente album pubblicato dalla francese Steel Shark Records ne era completamente privo e tirava più sullo speed metal/thrash. Elementi che anche in questo album sono presenti, ma devo ammettere, in maniera nettamente ridotta.
Il pubblico metal non sempre è aperto ai cambiamenti, non temi che la cosa possa infastidire i vostri seguaci? Sì, questo lo sappiamo bene, ma noi siamo quello che siamo, non amiamo troppo mantenere intatto il nostro sound da disco a disco. Spero che in futuro avremo modo e maniera di dimostrarlo sempre più frequentemente di modo che i fan si riescano ad abituare a questo standard evolutivo.
Da uno dei tre brani da te citati in quella dichiarazione, “Possessed by the Wolf”, è stato tratto un singolo con relativo video. Come è nata la clip? Tutto è nato da una mia idea di sceneggiatura nel periodo natalizio, abbiamo cercato di far sì che il video potesse rispecchiare passo a passo il contenuto della canzone. Ci sono stati diversi attori che hanno partecipato e fu fantastico che, dopo i festeggiamenti vari, il giorno dopo ci eravamo contagiati tutti di Covid, con incluso un mal di testa da vino rosso: really heavy!
Lo scorso 23 aprile al Sidro Club Savignano sul Rubicone avete presentato i nuovi brani, cosa avete provato a suonarli davanti al pubblico? Direi che è stato fantastico, il locale era pieno ed eravamo emozionati, pensa che ho venduto un vinile di “Colder Than Heaven” ad un rapper di passaggio, non lo scorderò facilmente… ahah!
Avete altre date in programma? Stiamo lavorando per cercare di riuscire a portare in Europa “Possessed by the Moon” dopo l’estate, tra autunno inverno. Ci manca molto il sapore della strada, tra pandemia e nascita della mia bambina nel 2018, è molto tempo che non calpesto i palchi oltre il confine italiano. Per cui mi auguro che riusciremo nell’intento! Giuseppe, ti ringrazio infinitamente per la bellissima intervista e mando un saluto a tutti i lettori! Keep the faith!
Tornano su Overthewall i Road Syndicate, freschi autori di “Vol. II”, con la partecipazione straordinaria dello scrittore Francesco Gallina!
Ciao a tutti voi e bentornati! Lorenzo: Ciao Mirella. È un piacere per tutti noi parlare di nuovo con te.
Vi abbiamo già incontrato per la pubblicazione di “Smoke“, il vostro album di debutto. Rieccovi con un nuovo album e una formazione rinnovata. Quali sono le novità salienti che riguardano la band? Fabio: La novità più importante è l’ingresso di Pierluigi “Jonna” Coletta. Inizialmente come chitarrista ritmico e poi come bassista. Fa parte della “famiglia” da sempre perché anche con lui ci conosciamo da trent’anni e noi tutti abbiamo suonato con lui e collaborato in diverse band. Lorenzo: Oltre alla novità in formazione, un cambiamento sta nel songwriting del disco. “Vol. II” è un lavoro molto più corale. Durante il lockdown abbiamo avuto modo di scambiarci idee, parti di canzoni e testi. Quindi tutti abbiamo partecipato alla stesura di quelli nuovi. Inoltre, il materiale era parecchio e ci siamo potuti permettere di scegliere quali brani mettere nel disco e quali tenere per i prossimi lavori.
Citiamo la line up completa? Lorenzo: Certamente. La nuova formazione della band è: Lorenzo Cortoni – voce e chitarra ritmica; Fabio Lanciotti – chitarra solista e backing vocals; Pierluigi “Jonna” Coletta – basso e backing vocals e Cristiano Ruggiero – batteria.
Mi rivolgo a Francesco. Il brano di apertura del nuovo album è ispirato ad uno dei tuoi libri, qual è il titolo e ci racconti com’è andata? Francesco: Ciao Mirella. È nato tutto dalla mia richiesta a Lorenzo di preparare alcuni teaser promozionali per “Dipinto Sull’Acciaio – del rapporto tra heavy metal e pittura”, il mio ultimo libro. Collaboravamo già insieme dal lancio di “Smoke” e quando gli ho chiesto se aveva qualche jingle originale da poter utilizzare per i miei promo, mi ha sottoposto un riff di Fabio che non era ancora stato usato per i Road Syndicate, ma “girava” da tempo in sala prove. Visto anche il successo di questi piccoli video, che hanno fatto migliaia di visualizzazioni, abbiamo convenuto che si trattava di un riff che doveva per forza diventare una canzone. Fabio lo ha quindi sviluppato e arrangiato, mentre Lorenzo gli ha costruito addosso un testo ispirato al mio scritto. Così è venuta fuori “Take me Higher”, la canzone di apertura dell’album. Un brano che, oltretutto, diventerà anche un video.
Il suono che siete riusciti ad ottenere con “Vol. II” possiede quel calore che il rock trasmette da quasi settant’anni e che purtroppo ultimamente si tende a trascurare. Credete che l’aver prodotto personalmente questo album e il mancato utilizzo di troppi “trucchetti” digitali siano il segreto alla base del risultato ottenuto? Fabio: Pure “Smoke” è stato autoprodotto, anche se lavoriamo con una etichetta discografica (Orange Park Records). Del resto anche il primo album è figlio della stessa filosofia: backing tracks registrate in presa diretta, dal vivo, no correttori di intonazione, nessun simulatore di ampli e nessun trigger sulla batteria. E, soprattutto, nessuna concessione alla “Loudness War”. Stavolta, la differenza tra i due dischi risiede nelle risorse tecnologiche a cui abbiamo potuto attingere, oggi più importanti rispetto a due anni fa.
Per le registrazioni dell’album vi siete avvalsi della partecipazione di musicisti esterni alla band, da dove è nata questa esigenza e quali giovamenti credete abbia apportato al lavoro in fase di arrangiamento dei brani stessi? Fabio: È molto semplice: la formazione allargata si era già esibita in diverse circostanze durante la promozione di “Smoke” ma, per una serie di motivi assolutamente fortuiti, non si era concretizzata nella realizzazione di quel disco. Stavolta la congiunzione astrale si è avverata e siamo riusciti a realizzare quel “big sound” che ci piace tanto. Con hammond, Fender Rodhes, Dobro, coriste e tutto il resto. Lorenzo: La collaborazione con altri musicisti ci ha permesso di ampliare le possibilità sonore della band. L’aggiunta dell’hammond di Luciano Gargiulo, dei cori di Francesca Cinanni, Helena Pieraccini, Marco Battelli ed Emiliano Laglia, del dobro di Gabriele Sorrentino e del basso di Arianna De Lucrezia ci ha permesso di aggiungere venature più blues e gospel ad alcuni pezzi. Oltre al fatto che per me personalmente, suonare con Luciano e Francesca è un piacere che va avanti da anni ormai.
Dove i nostri ascoltatori possono seguirvi sul web? Lorenzo: Siamo pressoché ovunque, da Facebook a twitter e instagram, oltre che sul nostro sito www.roadsyndicate.it, cercateci. Francesco, noi ci sentiamo presto per la presentazione del tuo libro, un salutone ai Road Syndacate e alla prossima! Francesco: Ciao Mirella. Sarà certamente un piacere discutere con te di Dipinto Sull’Acciaio e grazie per questo spazio. Lorenzo: Ciao e grazie anche da parte mia per aver parlato di “Vol. II”. Fabio: E mia, a presto e… rock’n’roll.
Ascolta qui l’audio completo dell’intervista andata in onda il giorno 31 gennaio 2022.
Alfieri del più incontaminato heavy metal old school, gli italiani Gunjack hanno sfornato lo scorso 2 febbraio il loro terzo album in studio, “The Third Impact” (Neecee Agency). Lavoro che sin dal titolo evidenza le intenzioni bellicose del trio rappresentato in questa sede dal bassista\cantante Mr.Messerschmitt.
Benvenuto, è arrivato il momento di “The Third Impact”, che sin dal suo nome certifica che si tratta del vostro terzo album, quello che nella tradizione rock segna la maturità completa di una band. Ritenete che anche nel vostro caso sia così? Ciao, innanzi tutto grazie per questa intervista. Sì, in effetti siamo molto soddisfatti di questo risultato. Abbiamo voluto definire al meglio il nostro sound – già in “The Cult of Triblade” si può sentire un cambiamento rispetto a “Totally…” – ma credo che questa cosa sia una normale evoluzione.
I vostri primi due album sono usciti quasi ad un anno di distanza l’uno dall’altro, mentre questo ha necessitato di una gestazione più lunga, come mai? Purtroppo la pandemia non ha giocato a nostro favore: il materiale era praticamente pronto, ma il lockdown e, ovviamente, l’impossibilità di muoversi liberamente, ha fatto sì che optassimo per l’attesa di un periodo “leggermente” migliore. Già con il secondo album, che tra l’altro stava andando alla grande, abbiamo dovuto bloccarci causa Covid. Peccato.
Come e quando sono nati i pezzi che compongono il disco? Ogni pezzo dell’album è un racconto di ciò che accade intorno a noi o di fatti storici che ci fanno riflettere. Cerchiamo di trattare diversi temi, come i problemi ambientali o quelli sociali, fino alla religione. E ovviamente, in puro stile Gunjack, ci piace maneggiare lo scomodo tema della guerra.
L’impressione generale che ho ricevuto fin dal primo ascolto è quella di un disco più diretto dei precedenti ma anche più oscuro. Voi invece come trovate il sound di “The Third Impact” in rapporto alle vostre precedenti uscite? Hai centrato in pieno, quello è il risultato che volevamo: un album più oscuro. I temi trattati e le ritmiche che servivano per queste song non potevano essere come per esempio in “Totally”. Anche se poi le fondamenta rock’n roll ci saranno sempre. Cercavamo un sound più “grosso” e cattivo, e credo che ci siamo riusciti.
La triplice lama che vi identifica, e che è stata anche oggetto del titolo del vostro disco precedente, oggi la troviamo trasfigurata nel simbolo del pericolo biologico: quanto la stretta attualità ha inciso sulle canzoni di questa uscita? Direi tantissimo. Ovviamente questa pandemia ha influito su tutto, ne senti parlare tutti i giorni a qualsiasi orario. E’ quindi normale che volente o nolente ne sei influenzato in molte cose che fai. L’immagine sulla copertina vuole però essere anche un modo per combattere questa negatività mentale: il triblade incarna la musica, che in questo caso è davanti al virus e lo combatte. Quindi mai arrendersi!
Siete degli alfieri della vecchia scuola, ma non dei nostalgici: come è possibile attualizzare l’heavy metal? Siamo convinti che in primis bisogna suonare ciò che piace a se stessi. Sembra banalità ma non lo è: molto volte si decide su cosa “creare” in base a ciò che va in quel momento o ciò che si crede possa richiamare più persone. In realtà, siamo legati all’old school, questo è innegabile, ma nello stesso tempo non ci diamo dei limiti. Ognuno di noi ha delle proprie influenze che può usare per creare nuovi riff o arrangiamenti, cose magari, non proprio “standard” per il genere.
Di contro, cosa non deve mai mancare in un album heavy metal che si rispetti? Beh, direi la chitarra tagliente, il basso pesante e la batteria che pesta a più non posso, ahahaha…
Visto che si parla di metal classico e voi siete un power trio, vi andrebbe di citare alcuni terzetti classici che vi hanno influenzato? Se non dicessi Motörhead, qualcuno riderebbe, ehehe! Ma anche Sodom o Venom!
Torniamo all’attualità, anche se in piena emergenza forse bisognerebbe parlare di futuro che si spera prossimo: avete già dei programmi per la promozione dal vivo del disco? Sì, ad ora abbiamo in programma il release party al Trani di Belgioioso, Pavia, il 4 Marzo ma stiamo lavorando per il calendario 2022. Incrociamo le dita!
Su Overthewall ospite di Mirella Catena, Alessio Perardi, leader e fondatore degli Airborn!
Bentornato, Alessio!La storia della band inizia con il promo dal titolo “Born to Fly” nel lontano 1995. In suo omaggio ogni anno proponete un festival che porta il suo stesso nome. Quanto pensi sia importante per una band, rimarcare e omaggiare le proprie radici e quindi la propria genesi? Ciao Mirella, innanzitutto grazie per l’invito. E’ sempre un grande piacere tornare su Overthewall. Devo ammettere che forse non c’è stato, almeno consciamente, un tentativo di omaggiare le nostre radici, ma “Born to Fly” è sicuramente uno dei pezzi più conosciuti della nostra band, il pubblico si aspetta di sentirlo quando suoniamo e ha anche un titolo molto evocativo… quindi ci è sembrata la scelta perfetta quando cercavamo un nome per il festival. Suonarla come canzone di chiusura dell’evento è sempre molto emozionante!
La collaborazione con il produttore tedesco Piet Sielck e i suoi Iron Savior ha avuto inizio nel 2002 e prosegue ancora oggi. Il prossimo anno, ormai imminente, vi vedrà impegnati in un mini-tour in terra spagnola, proprio con la band tedesca. Con quali spirito vi apprestate ad affrontare questa nuova avventura? Ovviamente incrociamo le dita, rispetto a questa nuova avventura. L’aggravamento della situazione Covid potrebbe farla saltare da un momento all’altro, ma speriamo che, anche se dovesse succedere, sia solo rimandata. E’ sempre un piacere suonare con gli Iron Savior che sono davvero dei grandi amici. Suonare in Spagna sarebbe anche molto importante perché la nostra etichetta, la Fighter Records, ha base proprio a Madrid. Vedremo cosa succederà. Ma ripeto, se non sarà possibile, l’appuntamento è solo rimandato.
Diversamente dalla maggior parte delle bands power, nei vostri testi affrontate tematiche legate alla fantascienza piuttosto che gesta cavalleresche o narrazioni storiche tanto care al genere musicale, raccontaci a questo proposito la trilogia legata al “segreto della lucertola”. E’ vero, i nostri testi sono più che altro legati alla fantascienza e il motivo è che semplicemente mi piace moltissimo ed è sempre stata una mia passione, inoltre già nel lontano 1995, quando siamo nati, c’erano già tantissime band che affrontavano la tematica epic/fantasy con cavalieri, spade e dragoni. Mi pace molto anche il fantasy, ma sembrava una materia abusata. La trilogia di Lizard Secrets non fa eccezione, infatti i brani si dividono equamente fra storie sci-fi e altre più legate alla società e a temi attuali. Abbiamo finito proprio in questi giorni la pre-produzione dell’ultimo album della trilogia che speriamo possa uscire nel corso del 2022.
Ci racconti come nasce un brano degli Airborn? Solitamente io compongo la musica per 8/9 brani e il nostro chitarrista Roberto ne scrive un altro paio, dopodiché ci aggiungo le parole e creo delle demo schematiche con la struttura e le linee vocali. A quel punto la nostra sezione ritmica, composta da Roberto alla batteria e Domenico al basso, aggiunge gli arrangiamenti adatti per trasformare il tutto in una canzone viva e vera.
Nel 2020 gli Airborn hanno festeggiato i 25 anni di carriera, un traguardo che poche band italiane possono vantare, come vedi gli Airborn tra 25 anni? Molto più vecchi! Scherzo… sembra impossibile che sia già passato tanto tempo, considerando che abbiamo avuto un solo grande cambiamento nella line-up: i “giovani” Dome e Roby sono entrati nel gruppo più di 10 anni fa. Il che rende anche la seconda versione della band molto collaudata. Il futuro chi può dire cosa ci porterà? Penso che ogni nuovo disco sia più ricco e maturo del precedente. Certo, tra 25 anni alcuni di noi saranno ultrasettantenni, ma se avrò ancora un po’ di voce e saremo tutti in forma, si potrà ancora suonare, no?
C’è un sogno che vorresti realizzare con la band? Sinceramente io spero di poter continuare come adesso: abbiamo dei fan meravigliosi, sparsi in giro per il mondo. Siamo molto fortunati. Se, nella nostra nicchia, riusciremo a restare rilevanti per chi ci apprezza, penso che il nostro sogno più grande si sarà avverato.
Grazie di essere stato con noi, ti lascio l’ultima parola Grazie mille per questa chiacchierata e, per tutti i nostri amici là fuori, speriamo di poterci rivedere presto, magari a un concerto, in un mondo libero dal malefico virus! Grazie ancora.
Ascolta qui l’audio completo dell’intervista andata in onda il giorno 10 gennaio 2022.
Un album dal vivo è molte volte un’istantanea di un momento particolare nella storia di una band. I Crohm, che la loro storia l’hanno iniziata nel 1985, hanno deciso di immortalare un concerto particolare, quello andato in onda in streaming in occasione della rassegna “Les Hard Griots: narrazioni Metal e poetiche Rap sull’animo umano” in pieno lockdown. Un modo per trasformare la sofferenza in rinascita, come lascia immaginare il titolo “Paindemic Live”.
Benvenuto Sergio, direi di iniziare dalla stretta attualità, il vostro album “Paindemic Live”, registrato in occasione della manifestazione “Les Hard Griots: narrazioni Metal e poetiche Rap sull’animo umano”. Mi dareste maggiori dettagli dell’evento? La Regione Valle d’Aosta organizza da più di 20 anni una rassegna culturale chiamata “Saison Culturelle” che vede svolgersi per diversi mesi spettacoli teatrali, concerti, danza ecc. Anche la “Saison” ha subito il Lockdown nel 2020 ma a inizio 2021, coraggiosamente, hanno deciso di provare a ripartire con una versione in diretta streaming senza pubblico in presenza, mediante la pubblicazione di un bando per proposte artistiche che non prevedessero un normale concerto o una normale pièce teatrale, ma qualcosa di nuovo. Il progetto da noi presentato prevedeva un doppio concerto metal con l’inserimento di un violino come quinto elemento della band, un concerto rap, la compenetrazione tra i due live, una bravissima ballerina di Pole Dance, che si è esibita durante la nostra performance, e alcuni attori che interpretavano un nostro brano in maniera teatrale. Musica, danza e teatro che convivevano insieme. Il nostro progetto è stato accettato e messo in cartellone.
Il disco si apre con degli applausi, anche se il live è stato trasmesso in streaming in assenza di pubblico. Immagino che questa scelta di inserire dei rumori ambientali abbia un valore simbolico, è così? Suonare in diretta streaming senza pubblico è molto impegnativo, poiché non hai il riscontro ed il dialogo con il pubblico. E’ stato comunque un concerto in presa diretta, un vero live (se ascolti con attenzione ti accorgerai che alcuni errori ci sono e non sono stati corretti e il suono è bello grezzo) che è stato seguito in diretta streaming da oltre 7400 persone (me lo sono fatto ripetere 3 volte dal gestore della diretta, wow!!!), per cui abbiamo deciso di aggiungere il pubblico in fase di missaggio e l’abbiamo scritto chiaramente sulla copertina dell’album. Quindi vero live e vero / finto (!) pubblico! Ah! Ah! Se di significato simbolico vogliamo parlare possiamo dire che l’intenzione era quella di far sentire come sono veramente i Crohm in concerto e il “suono” del pubblico rende l’atmosfera ancora di più.
Vi siete esibiti con una formazione allargata, impreziosita dalle apparizioni di Flavia Simonetti (violino), Fabio Rean aka Fungo (voce) – Andrea Di Renzo (voce) aka Dj Sago. Come è stato lavorare con artisti provenienti da ambienti musicali diversi? E’ stato veramente molto interessante e divertente! Flavia è un’amica e una musicista bravissima. Con lei abbiamo già collaborato in passato per “Legend And Prophecy” e ci ha pregiato della sua presenza in diversi concerti successivi. Sempre con l’idea di realizzare lo spettacolo all’interno delle linee guida del progetto per la Saison Culturelle abbiamo pensato al suo coinvolgimento, riscrivendo e riadattando molti brani in modo da rendere il violino un vero comprimario della chitarra e dare un sound unico a quell’evento rispetto al nostro standard. Per quanto riguarda l’incursione dei rapper, siamo in ottimi rapporti di amicizia con Fungo Zio. DJ Sago, a lui molto legato, è un musicista molto bravo con cui ci siamo trovati subito bene. Il resto è venuto molto naturalmente.
Come avete scelto i brani da inserire nella scaletta della serata? Appena quest’anno ci si è presentata l’occasione abbiamo suonato in live. “Paindemic” è il prodotto di quel concerto. Nel titolo è racchiuso il dramma di tutti per la pandemia e la frustrazione di chi a vario titolo fa o lavora nella musica e ha patito questo lungo stop, soprattutto se è la sua fonte di reddito. In sostanza rappresenta la nostra voglia di tornare a suonare e un’opportunità di ravvivare l’attenzione anche su “Failure In The System”, che purtroppo è uscito a ridosso dell’inizio della pandemia, trovando un modo alternativo di promuoverlo a distanza di quasi un anno e mezzo dalla pubblicazione. Alcuni brani sono estratti dagli album precedenti, brani in cui avevamo già collaborato con Flavia. Il resto è sostanzialmente quasi tutto il nostro ultimo lavoro “Failure In The System” che per l’occasione ha avuto dei nuovi arrangiamenti in diverse canzoni per essere adatto alla presenza del violino come grande comprimario.
Oltre i vostri brani, troviamo anche “Post Fata Resurgo” donatovi da Fabio Rean aka Fungo. Come è nata questa ulteriore collaborazione? Come ho detto poco fa siamo in ottimi rapporti di amicizia con il rapper/videomaker Fungo Zio e DJ Sago. Abbiamo pensato che la “forma spettacolo” proposta alla “Saison Culturelle” della Regione Valle d’Aosta avrebbe potuto ospitare un crossover di due generi distanti musicalmente ma a volte vicini nei contenuti e nella “rabbia” di esprimerli. Loro erano perfetti. Ecco che durante l’esecuzione di “Failure In The System” si sono aggiunti Fungo e Sago come coristi rap. E’ una canzone che restituisce una visone cupa di ciò che è l’uomo in rapporto alla natura e agli altri esseri umani. Tema intorno al quale ruota , con diversi aspetti, tutto il nostro album che porta lo stesso titolo. Un brano potente, ruvido, rabbioso. Proprio per questo non è stato inserito il violino ma abbiamo pensato di inserire il rap di Fungo e Sago. Noi abbiamo invece musicato in versione metal uno dei brani di Fungo, “Post Fata Resurgo”, aggiungendo una terza voce, la mia.
Il live del release party del vostro album “Humanity” fu registrato e trasmesso interamente dalla sede regionale radiofonica della RAI Valle d’Aosta. Non sono molte le band metal che hanno avuto il privilegio di esibirsi negli studi dell’emittente nazionale, come entraste in contatto con la RAI? La sede regionale RAI della Valle d’Aosta ha generalmente un’attenzione particolare per la realtà musicale locale. I Crohm (insieme ai Kina) sono la band valdostana più conosciuta fuori dai confini regionali. Credo sia per questo che ci hanno proposto questa collaborazione, che abbiamo accettato con entusiasmo, e di cui ancora gli siamo grati.
Noi qui al sud ci lamentiamo spesso della difficoltà ambientali per chi fa metal, poiché per motivi geografici ci troviamo lontani dalle più grandi e attive città del nord. Voi provenite dalla Valle D’Aosta, una zona altrettanto periferica, questo vi crea problemi logistici o la vicinanza con il confine alla fine si tramuta in un vantaggio, garantendovi opportunità all’estero? Come giustamente dici, anche noi siamo una zona periferica rispetto ai circuiti principali italiani. Per cui dobbiamo sempre spostarci per suonare verso Milano, Torino e il resto del nord Italia in generale. Per altri versi essendo in zona di confine ci è più facile “espatriare” verso i paesi limitrofi. Abbiamo infatti tenuto ad esempio alcuni concerti in Svizzera, che per noi è vicinissima.
Da osservatori dell’ambiente metallico italiano dal 1985, anno della vostra fondazione, come giudicate la stato di salute della nostra scena nazionale? Tutto sommato la “scena nazionale” intesa come band mi sembra sempre vigorosa, grazie a tutti gli headbangers che tengono duro. Il vero problema in Italia, come era già negli anni ottanta, è la scarsissima attenzione dei media e del grande pubblico per il metal, con la conseguente quasi inesistente promozione radiofonica, tranne alcune radio specializzate, che determina la conseguente scarsa disponibilità dei locali ad organizzare concerti che non siano di bands già famose. In Italia, purtroppo, le masse sono tutt’ora legate soltanto alla musica melodica ultra-leggera. Non c’è stata mai un’evoluzione del gusto. La costante reiterazione di manifestazioni come San Remo o il Festivalbar lo dimostrano. E il business segue quella strada che, a mio personalissimo giudizio, è molto povera di contenuti musicali, ma fa cassa!
Il disco dal vivo in passato era uno spartiacque tra due fasi della carriera di una band, si chiudeva un’era e se ne apriva un’altra: è così anche nel vostro caso? Per quanto ci riguarda non direi. La nostra nuova era si è aperta con la reunion del 2014, cui sono seguiti i nostri primi tre album in studio. Per noi il disco Live è stata più l’opportunità di metterci alla prova senza il comfort di uno studio di registrazione. Come dire, buona la prima… E devo dire che, nel nostro piccolo, sono soddisfatto! Inoltre è stato un modo per dare, a chi vorrà ascoltare “Paindemic”, la vera misura dei Crohm in una dimensione totalmente senza filtri.
A poco meno di un anno dalla pubblicazione del loro ottimo terzo album “Unlocked & Reloaded”, i Sainted Sinners di Frank Pané tornano con il loro nuovo album “Taste It” (ROAR! Rock Of Angels Records), una grande raccolta di pezzi di classico hard rock.
Ciao Frank, solo pochi mesi fa ci siamo sentiti per il vostro album precedente “Unlocked & Reloaded”, oggi i Sainted Sinner hanno un nuovo full-lenght, “Taste It”. Stai vivendo una delle tue stagioni più stimolanti dal punto di vista compositivo? Ciao Giuseppe, sì… è decisamente una stagione molto creativa e fruttuosa per noi. Abbiamo sfruttato la grande chimica che si è creata tra noi per “Unlocked & Reloaded” per diventare un team creativo molto efficiente, e ne sono davvero felice.
Il disco contiene brani scritti per “Unlocked & Reloaded” o sono stati composti solo per “Taste It”? Tranne l’idea della canzone che è diventata “Never Back Down”, che è stata lasciata fuori ai tempi delle session di scrittura dell nostro secondo album “Back With a Vengeance”, tutte le idee erano nuove e maturate dopo l’uscita di “Unlocked & Reloaded”.
Pubblicare due album a pochi mesi di distanza, nel mezzo di una pandemia che ha bloccato le attività live, non è una mossa rischiosa? Ad essere sincero non lo so. Ci sono come in tutto probabilmente pro e contro. Durante la scrittura di queste canzoni, tutto sembrava così naturale ed eccitante, quindi la nostra volontà era di condividerle con il mondo il prima possibile. Dal nostro punto di vista, trattenerle e aspettare non era proprio una cosa pensabile. Tuttavia questa è la nostra visione delle cose e ovviamente se la nostra nuova etichetta ROAR ci avesse detto di aspettare, ovviamente avremmo seguito il loro consiglio. Ma dato che anche loro erano d’accordo, abbiamo deciso di tirarlo fuori. Un altro buon effetto collaterale è forse che i fan del rock ci hanno ancora nel loro radar dai tempi di “Unlocked…”, quindi se gli è piaciuto l’ultimo, forse saranno felici di ricevere del nuovo materiale prima di quanto probabilmente si aspettassero.
Il titolo “Taste It” sembra un invito a fidarsi di voi, qualcosa come “dai, prova il nostro sound”… Esattamente, questo è ciò che significa! E dato che avevo questa idea di una bottiglia di whisky con l’etichetta Sainted Sinners come tema per la copertina che ronzava nella mia mente da un po’ di tempo, mi è sembrata una decisione perfetta.
Con “Taste It” avete tagliato il traguardo del quarto album, siete soddisfatti del livello raggiunto dalla band? Quanto sei vicino all’idea che avevi dei Sainted Sinners quando hai deciso di iniziare questa nuova avventura? Sappiamo tutti che questi sono tempi difficili per una “nuova” band e ovviamente ci potrebbero essere molti più album venduti, più visualizzazioni su Youtube, più stream, ecc… tuttavia da un punto di vista artistico sono davvero orgoglioso e felice di ciò che raggiunto nei nostri 5 anni di esistenza. 4 album e finalmente con il nostro 3° album siamo diventati una vera band e la gente ci ha riconosciuto come questo e non come un semplice progetto. Penso che abbiamo avuto la crescita naturale della consapevolezza del nostro ruolo nel mondo del rock e sono sicuro che questa cosa, così come noi come band, si evolverà ulteriormente con ogni uscita in futuro.
“Unlocked & Reloaded” è stato il frutto di una formazione nuova, la stessa che ritroviamo oggi su “Taste It”: pensi che nell’ultimo album ci sia stata una maggiore sintonia tra di voi? Di sicuro. Anche senza incontrarci di persona prima che uscisse “Unlocked…” avevamo un’ottima intesa lavorativa, ma ora, dopo aver fatto più cose insieme, siamo diventati davvero una squadra e abbiamo potuto evolvere ulteriormente la nostra intesa lavorativa, e anche a livello personale ci piace molto stare insieme e avere una grande intesa.
L’album è stato il risultato di un lavoro di squadra o di idee individuali poi elaborate in sala prove? È stato un lavoro di squadra, purtroppo non elaborato in sala prove, per ovvi motivi, ma attraverso la condivisione di file, tante sessioni di chat online e in cui ognuno ha portato le proprie idee e creatività. Questa è la prima volta in un album dei Sainted Sinners che le idee iniziali per le canzoni non sono venute solo da me, ma anche da Ernesto e Jack, quindi abbiamo davvero lavorando insieme come un team su queste canzoni.
Siete uno scrigno di perle di puro hard rock ma avete scelto di registrare la cover di un brano, “Losing My Religion” (REM), non proprio in linea con il vostro stile: come è nata questa particolare decisione? Grazie mille, ci siamo detti che se avessimo fatto una cover allora non ne avremmo fatto una ovvia, ma piuttosto qualcosa di un genere diverso, che la gente non si aspetta e che possiamo personalizzare con parti riarrangiate, ecc… Avevamo alcune idee ma “Losing My Religion” mi è sembrato l’idea migliore per questo album e sono davvero felice di come sia venuta fuori. Suonarla sembra come suonare una canzone dei Sainted Sinners. Quindi abbiamo raggiunto il nostro obiettivo.
Possiamo aspettarci un nuovo album a breve o vi prenderete una meritata pausa? Beh, abbiamo già abbastanza materiale rimasto dall’ultima sessione di scrittura che potrebbe bastare per un altro album. Abbiamo scelto queste canzoni per “Taste It”, perché pensavamo che garantissero un album con un buon bilanciamento generale tra le canzoni. Quindi c’è molto materiale di cui siamo entusiasti tanto quanto per le canzoni che sono finite su “Taste It”. Vedremo dove ci porterà “Taste It” e speriamo di poter fare molti spettacoli dal vivo per promuovere l’album, ma le cose come vedi sono già impostate per l’album numero 5.
Not even a year a after the release of their great third album “Unlocked & Reloaded”, Frank Pané’s Sainted Sinners are back with their new album “Taste It” (ROAR! Rock Of Angels Records), a great collection of songs by classic hard rock.
Hi Frank, just a few months ago we got in touch for your previous album “Unlocked & Reloaded”, today Sainted Sinner have a new full-length out, “Taste It”. Are you experiencing one of your most inspirational seasons? Hi Giuseppe, yes…it’s definitely are very creative and fruitful season for us. We transported the great chemistry we had doing “Unlocked & Reloaded” towards becoming a very efficient writing team and i’m really happy about that.
Does the disc contain songs written for “Unlocked & Reloaded” or were they composed just for “Taste It”? Except the song idea that became “Never Back Down” which was left over from the writing session for our second album “Back With a Vengeance” all ideas were fresh and written after the release of “Unlocked & Reloaded“.
Releasing two albums a few months apart, in the midst of a pandemic that has blocked live activities, isn’t that a risky move? To be honest i don’t know. There are as with everything probably pros and cons. Everything when writing these songs felt so natural and exciting so our feeling was to share them with the world as soon as possible. From our standpoint to hold them back and wait wasn’t really a thing we thought about. However that’s our view of things and obviously if our new label ROAR would have told us to wait we of course would have followed their advice. But as they were also up for it we said let’s get it out. Another good side effect is maybe that rock fans still have us on their radar from “Unlocked…”, so if they liked the last one they are maybe happy to get some new material sooner than they probably expected.
The title “Taste It” seems like an invitation to trust you, something like “come on, taste our sound”… Exactly, that is what it stands for and as i had this idea with a Sainted Sinners labeled Whiskey bottle as the cover motive buzzing around for some time it felt like a perfect fit.
With “Taste It” you have crossed the finish line of the fourth album, are you satisfied with the level reached by the band? How close are you to the idea you had of Sainted Sinners when you decided to start this new adventure? We all know that these are difficult times being a “new“ band and of course there always could be more albums sold, more views on Youtube, more steams, etc….however from an artistic point i’m really proud and happy what we achieved in our 5 years existence. 4 albums and finally with our 3rd album we became a real band and people recognized us as that and not another project. I think we have a natural growth to our awareness in the rock world and i’m positive that this and also we as a band will further evolve with each release in the future.
“Unlocked & Reloaded” was the result of a new line-up, the same that we find today on “Taste It”: do you think that on the new album there is a greater harmony between you? For sure. Even without meeting all together in person before “Unlocked…” was out we had a great working chemistry, but now after doing more things together we really became a team and could further evolve our working chemistry and also on a personal level we really enjoy being together and have an overall great alliance together.
Was the album the result of teamwork or individual ideas then elaborated in the rehearsal room? It was a teamwork, unfortunately not elaborated in a rehearsal room, because of obvious reasons, but by sharing files, many online chat sessions and everybody bringing in his own ideas and creativity. This is the first time on a Sainted Sinners album that initial song ideas came not just from myself, but also Ernesto and Jack, so we really were working together as a team on these songs.
You are a treasure trove of pure hard rock gems but you have chosen to record the cover of a song, “Losing My Religion” (REM), not exactly in line with your style: how did this particular decision come about? Thank you so much. We said if we do a cover then we do not an obvious one, but rather something from a different genre, that people not expect and that we can make ours with rearranging parts, etc… we had a few ideas floating around but “Losing My rRligion” felt the best for this album and i’m really happy how it turned out. Playing it feels like playing a Sainted Sinners song. So we reached our goal.
Can we expect a new album soon or are you getting a well-deserved break? Well, from the last writing session we have already enough material left that could make up for another album and we picked theses songs for “Taste It“ , because we thought they make up for a good album with the overall flow between the songs in mind, so there is lots of material around we are as excited about as the songs we now put out on “Taste It“. We will see where “Taste It“ will bring us and we hope we can do many live shows to promote the album, but things as you see are already set for album #5.