Massimo Pupillo, messi da parte per un attimo gli Zu, ha tirato fuori un lavoro autografo dal fascino alchemico e dal profondo significato filosofico. Abbiamo contattato l’autore di “The Black Iron Prison” (Subsounds Records) per saperne di più.
Ciao Massimo, “The Black Iron Prison” è il tuo esordio da solista, quando hai avvertito per la prima volta l’esigenza di fare qualcosa che non portasse la firma degli Zu?
Ciao. In realtà la prima uscita non Zu che ho fatto credo sia del 2000, con i Dogon, quindi subito a cavallo del primo album Zu. Da allora ho pubblicato qualcosa come 18 album con Zu e più di 50 in varie formazioni parallele. E’ stato sempre un senso di curiosità reciproca verso le altre persone con cui ho lavorato a stimolarmi. Poi piano piano nella mia ricerca ha iniziato a venir fuori un suono che poteva esistere anche da solo, si è rafforzato ed affinato negli ultimi anni e continua ad evolvere.
Particolare il titolo, pare quasi che saltate le catene ti legavano agli Zu, tu ti sia ritrovato in una prigione d’acciaio nero! Immagino che la mia sia una ricostruzione fantasiosa, mi può spiegare tu il vero significato del nome del disco?
Il titolo deriva da una visione espressa da Philip K Dick nella sua trilogia Valis. La Black Iron Prison è un sistema di controllo globale onnipervasivo. Non ne vedi le tracce nel mondo che ci circonda? Valis è un acronimo per vasto sistema vivente di intelligenza artificiale. Calcola che Dick scriveva di queste cose a fine anni 70, Valis fu pubblicato nel’81. E diceva chiaramente che per lui la fantascienza era solo un modo efficace di trasmettere quello che vedeva. Spero che questo invogli qualcuno a leggerlo!
A conti fatti, credi che questa esperienza da solista ti abbia fatto crescere come musicista o il tuo cammino formativo era già concluso e questo n’è l’apice?
Assolutamente no, non credo che per me nulla e nessun luogo sia l’apice. E’ una percorso formativo come lo chiami tu, continuo e virtualmente infinito. Come diceva Coltrane ci sono sempre nuovi suoni da trovare e nuove storie da raccontare, basta pulire lo specchio. A conti fatti, non ci sono nemmeno conti fatti.
Ti senti un innovatore?
Non mi vedo in quel modo. Non credo all’innovazione per sé come un valore, quindi ti risponderei di no.
Come dicevi prima, chi ha sicuramente innovato il proprio settore di competenza, anticipandone anche alcune tematiche stilistiche e contenutistiche è Philp K. Dick, cosa ti ha spinto a musicare alcune delle sue novelle? E credi che ci sia un filo conduttore tra le vostre opere?
L’unico filo conduttore può essere quello che considero Dick un maestro e anche, perdonami il parolone, un profeta. Lo puoi leggere come intrattenimento e non c è nulla di male, oppure puoi lasciare che l’ universo dickiano ti insegni a ripensare il tutto, come potrebbe fare un grande filosofo antico.
In questi anni hai collaborato con alcuni grandi nomi del rock come Mike Patton (Faith No More), Buzz Osborne (The Melvins) Thurston Moore e Jim O’ Rourke (Sonic Youth), Stephen O’ Malley (Sunn O)))) , Joe Lally , Guy Picciotto (Fugazi), Damo Suzuki (Can), Eugene S. Robinson (Oxbow), Steve MacKay (The Stooges), cosa ti è rimasto di queste esperienze che poi hai sfruttato per questo disco?
In qualunque cosa fai, se è fatta col cuore al posto giusto, ti rimane qualcosa dentro. A volte impari, a volte impari cosa non fare, a volte assorbi, a volte dai. Ma questo non può essere relegato solo alla fama delle persone con cui collabori. Non ho mai pensato in questi termini. Ogni volta collaborare era davvero una spinta comune, spesso nata dall’ amicizia e proiettata verso un lavoro, un suono, una visione o una storia da raccontare. Ma sicuramente ho imparato altrettanto sul suono passando circa sei mesi da solo col fonico degli Zu (e mastermind dei Lento) Lorenzo Stecconi ad assemblare e ricomporre tutte le parti del nostro album “Jhator”. E in tantissimi altri incontri grandi e piccoli lungo la strada.
Però per “The Black Iron Prison” hai deciso di fare tutto da solo, non ricorrendo ad ospiti, scelta conscia o inconscia?
Il tema di questo lavoro viene espresso nell’ immagine di copertina, l’ alchimista, solo (anzi a ben guardare accompagnato da un corvo nero) che medita sulla Nigredo. Esprime dei processi interiori che avvengono in solitudine e che solo in solitudine potevano essere messi su nastro.
Se le cose dovessero sistemarsi, porterai il disco dal vivo ed, eventualmente, ti farai accompagnare dai dei musicisti?
Sì. ho già presentato un live di “Black Iron Prison” al Romaeuropa Festival di quest’ anno. Ovviamente è un solo, anche se accompagnato da vicino sempre da Lorenzo Stecconi al mixer, che ha un gran lavoro a seguire tutto quel che succede.
