Con il nuovo album “Soundtrack of a Silent Land”, pubblicato da Argonauta Records, i Rainbow Bridge inaugurano una nuova fase del loro percorso artistico, abbandonando nuovamente le parti vocali e affidandosi per la prima volta a una etichetta discografica. A parlarci di questo cambiamento è il batterista Paolo Ormas, da anni anche collaboratore “stonato” de Il Raglio del Mulo.
Bentornato su Il Raglio del Mulo, Paolo! Il nuovo album “Soundtrack of a Silent Land” presenta alcune novità rispetto alla vostra storia o anche soltanto rispetto al vostro più recente passato. Inizierei con quelle più evidenti, per poi passare a quelle più prettamente musicali. La prima: dopo anni di filosofia DIY, oggi siete sotto un’etichetta, l’Argonauta Records. Cosa auspicate che questa collaborazione possa portare in più rispetto a quanto ottenuto in passato?
Un saluto a Il Raglio del Mulo e grazie per averci ospitato nuovamente! Questa volta volevamo dare una spinta in più al nuovo disco perchè ci crediamo molto. In precedenza ci siamo sempre mossi autonomamente o lavorando solo con degli uffici stampa e con il passaparola (tramite quella grande invenzione che è Bandcamp) raggiungendo anche degli ottimi risultati. Stavolta terminata la registrazione e con il master pronto abbiamo valutato diverse opzioni e con Argonauta si è creato subito un buon feeling, ci lasciano una certa indipendenza che per noi è fondamentale, inoltre sono una realtà consolidata e la distribuzione sarà certamente più capillare.
Altra cosa che mi ha colpito è la copertina, avete utilizzato in passato immagini color pastello, ma comunque colorate. La nuova invece gioca con i toni di grigio, mi ha ricordato, per esempio, la cover di “Relayer” degli Yes. Dietro questa mutazione cromatica c’è una scelta ben precisa?
Non c’è una scelta ben precisa sulla grafica di copertina, avevamo questa vecchia immagine creata da Nesia_eARTh per il nostro primo album ma mai utilizzata. Era solo una bozza, abbiamo chiesto a Nesia di ricostruirla in qualche modo e si è rivelata perfetta per il tipo di lavoro che stava venendo fuori. Non abbiamo mai preso in considerazione altre idee, era lei dal primo momento che è saltata fuori, inoltre ci rappresenta al 100% visto che si tratta del famoso “Rainbow Bridge National Monument” uno dei ponti naturali più iconici presenti negli Stati Uniti in Arizona. Abbiamo preferito lasciarla quasi senza colore perché in qualche maniera le dava un senso di autenticità.
Entriamo ora in ambito musicale, sono sparite le voci, che invece erano una delle novità del precedente lavoro. Come si spiega questo ritorno al passato?
E’ stata una scelta ben precisa e in controtendenza al disco precedente dove ci eravamo quasi autoimposti di rimanere nei paletti della forma canzone. Volevamo essere in un certo senso più liberi e abbiamo cominciato a lavorare in sala su alcune idee, tre brani in particolare completamente nuovi, e qualche piccolo ripescaggio di vecchie jam rielaborate. Ad un certo punto abbiamo quasi pensato di provare ad inserire qualche traccia vocale ma avrebbe perso il suo senso e il concept che ci avevamo costruito attorno. In più in questa maniera, secondo il nostro personale punto di vista, è più facile arrivare all’ascoltatore.
Non avete mai nascosto che volti dei vostri brani sono frutto di jam, però un titolo come “Soundtrack of a Silent Land”, lascia presagire una direzione più strutturata, se non altro la presenza di un filo conduttore: come si è evoluto il vostro approccio compositivo in questo disco rispetto ai precedenti album?
Si è molto evoluto e forse più che nei dischi in cui è presente anche la voce c’è un concept ben preciso. Abbiamo anche inserito su Bandcamp (e in parte nel booklet) dei testi descrittivi per ogni brano. La nostra musica, soprattutto le composizioni strumentali, ha sempre avuto un certo tipo di approccio quasi cinematografico e questa volta mentre i brani prendevano corpo in sala prove ci è sembrato naturale pensarli accompagnati da immagini della natura, spazi aperti e tutta quella iconografia desertica, forse anche per un senso di libertà che dà quel tipo di immaginario, da lì l’idea di pensare al disco come fosse una colonna sonora. Probabilmente nei primi dischi strumentali che abbiamo prodotto c’era più irruenza, adesso cerchiamo di sviluppare un suono, un percorso melodico, per intenderci non ci sono assoli di chitarra per tutto il tempo. Abbiamo adottato un approccio forse più vicino al post rock portandoci dentro un’anima blues.
Il disco è stato registrato in presa diretta o avete sperimentato soluzioni diverse in studio?
Il disco è registrato completamente in presa diretta da noi tre simultaneamente a parte un brano che ha registrato JimiRay in casa.
I brani “Hugh the Cactus” e “GABA” sono stati scelti come tracce promozionali: cosa li rende rappresentativi del nuovo lavoro?
“Hugh the Cactus” e “GABA” sono due di quei tre brani che sono un pò la spina dorsale del disco, la terza è “A Loving Sun” che chiude il disco in maniera liberatoria, lì probabilmente c’è un collegamento con i primi Rainbow Bridge di “Dirty Sunday”. “GABA” ci sembrava ottima come presentazione, ha delle atmosfere che crescono pian piano fino a esplodere ma mai del tutto, mentre “Hugh the Cactus” è la nostra preferita con la sua melodia diretta e psichedelica che un po’ mi ricorda i Soundgarden del periodo “Superunknown” ma senza voce.
Avete in programma concerti o un tour per promuovere l’album, magari con date fuori dall’Italia?
Ci contiamo, adesso in Estate sarà difficile faremo giusto una manciata di concerti. Per il prossimo autunno inverno si vedrà dipende anche da come sarà accolto il disco all’estero.
Come vivete il rapporto con il formato fisico rispetto al digitale, e cosa avete previsto per l’uscita dell’album in termini di supporti? E’ arrivato il momento del primo vinile?
Il disco uscirà per il momento solo su CD ma chissà potremmo decidere unitamente ad Argonauta di stampare anche qualche copia in vinile, vedremo. Il rapporto con il fisico lo viviamo da appassionati che difficilmente abbandoneranno la propria collezione, il sottoscritto in particolare ha una predilezione per il CD, ma cerchiamo di non essere troppo distaccati dalla realtà. Certo grazie a quello strumento fondamentale per la musica indipendente che è Bandcamp riusciamo a garantire delle discrete vendite soprattutto all’estero dove si fanno meno problemi. La gente al di fuori dell’Italia ha un culto maggiore per l’oggetto fisico e a volte non riusciamo a star dietro a qualche fan dall’altra parte del pianeta che chiede continue ristampe dei primi dischi autoprodotti, pian piano cerchiamo di accontentarli perché è grazie a loro se ne registreremo altri.
Siete attivi da quasi vent’anni: come vedete l’evoluzione della scena rock psichedelica e stoner in Italia rispetto agli inizi?
La scena è molto viva ma forse c’è una sovrabbondanza di band e di uscite soprattutto in ambito Stoner e affini. C’è stato un bel periodo in cui sembrava quasi di respirare il periodo dei primi anni ’90 quando il movimento era soprattutto underground, ma c’è stato poco riciclo. Seguo abbastanza i vari DesertFest e festival dedicati, e sono dei piccoli paesi dei balocchi ma è tutto molto circoscritto e le band sono più o meno sempre quelle, a volte fai fatica a distinguerle, a parte la vecchia guardia. Questo per quanto riguarda l’estero, in Italia siamo in pochi e non essendo un genere alla moda con i synth e le chitarrine minuscole, è davvero difficile trovare gli spazi giusti. Però a parte la questione live, di belle uscite ce ne sono vedi band come i Messa che si stanno conquistando un bel posto soprattutto oltreconfine.
