Rainbow Bridge – I can’t wait to get on the road again

Più che una copertina, un manifesto di vita! Quella macchina che “veleggia” verso il sole, immortalata nella cover del nuovo disco, la dice lunga sull’attitudine dei Rainbow Bridge, che di chilometri in questi anni ne hanno macinati per raggiungere anche la più improbabile sala concerti. Una predilezione per le soluzioni live che è sempre apparsa palese nei dischi precedenti dei pugliesi e che, ovviamente, non manca neanche nel nuovo “Drive” (Autoprodotto / Metaversus PR). Però questo lavoro, più che i suoi predecessori, presenta un gran numero di novità e soluzioni innovative per il trio…

Benvenuti, conoscendoci da una vita so che di chilometri ne avete macinati tanti in questi anni, e credo che voi vogliate rimarcare questo aspetto sin dal titolo e dalla copertina del vostro nuovo album. Siamo tornati in termini di date ai giorni pre-pandemia, oppure quell’evento ha cambiato in modo definitivo l’apparato live nel nostro Paese?
Ciao Giuseppe, sicuramente la copertina rappresenta un po’ tutto questo, i chilometri che abbiamo percorso e che contiamo ancora di fare anche in senso metaforico. In termini di date non siamo ai livelli pre-pandemia ma crediamo che tutto ciò sarebbe accaduto a prescindere. In realtà, nel periodo delle prime riaperture noi abbiamo suonato tanto probabilmente per il tipo di proposta o per il formato trio, sai con le distanze e tutto il resto, adesso cerchiamo di scegliere bene i posti dove suonare anche se per un gruppo come il nostro è sempre più difficile spostarsi verso il nord e infilarsi nelle programmazioni dei locali. Buona parte dello Stato Borbonico però riusciamo a coprirla.

Restando in tema live, la vostra precedente uscita era proprio un disco dal vivo, pensate che sia riuscito in qualche modo a trasmettere in pieno all’ascoltatore l’energia, il sudore e l’entusiasmo che sprigionate sul palco?
Pensiamo di sì, siamo molto orgogliosi del disco live anche perché è venuto fuori in maniera quasi inaspettata. Un nostro caro amico (Beppe “Deckard” Massara) ci ha proposto questo concerto a Gennaio 2022, eravamo ancora in periodo di parziali chiusure, con l’intenzione di fare una registrazione ma non pensavamo in una resa simile sia in termini di suono che di performance. La Cittadella di Molfetta è un vero e proprio teatro, c’era una bella atmosfera e i concerti in giro scarseggiavano, noi eravamo concentratissimi (non avevamo nemmeno un goccio di alcol sul palco) e abbiamo suonato quasi tre ore. Alla fine abbiamo dovuto scegliere tra i tanti brani suonati ma è venuto fuori un disco di quasi ottanta minuti che ci rappresenta al 100%. E’ piaciuto anche a tanti altri oltre che a noi, va ancora alla grande su Bandcamp. Grazie a Beppe che ha fatto un lavoro pazzesco sul suono.

Tuffiamoci su “Drive”, un disco che paradossalmente nel suo essere atipico risulta una sorta di vostro compendio. E’ atipico perché è diviso in tre parti, però paradossalmente queste tre parti rappresentano al meglio i singoli aspetti della vostra musica. Questa peculiarità è il frutto di una scelta fatta a priori o solo lavori finiti vi siete resi conti di questa triplice anima di “Drive”?
In realtà è un disco molto pensato soprattutto rispetto ai precedenti che sono nati di getto. L’intento era di fare un qualcosa che racchiudesse tutte le anime della band. Abbiamo iniziato con delle canzoni, che poi sono diventati i primi tre singoli usciti nel corso del 2021 e 2022, e man mano si è sviluppata meglio questa idea di fare un disco a più facce. Il concept, se così vogliamo intenderlo, si è concretizzato dal momento in cui abbiamo deciso di comporre una sorta di lunga suite che non fosse la solita jam che non avremmo avuto difficoltà a far durare anche venti minuti. Infine abbiamo inserito i quattro strumentali che fanno da contraltare a tutta la parte cantata. E’ stato un lavoro più lungo del solito ma ci siamo riusciti.

Nella prima parte approfondite un aspetto che forse in passato avevate esplorato poco, quello della canzone e, secondo me, lo fate anche inserendo degli elementi nuovi nel vostro sound. Avendo una maggiore propensione all’improvvisazione in fase di scrittura, per voi comporre delle “canzoni”  è più complicato? 
Sì, è più impegnativo perché c’è molto più lavoro dietro soprattutto in sala ma anche a casa ognuno alla sua maniera. Siamo prevalentemente una live band e gli spunti non mancano mai anche nei soundcheck o nei ritagli di tempo. C’è sempre un riff nuovo, qualcosa che poi dimentichi e poi magari ritorna inconsapevolmente, ma per fortuna abbiamo acquisito un un nostro metodo senza andare a briglie sciolte tutto il tempo.

Accennavo prima come nelle canzoni, più che nei pezzi strumentali presenti sul disco, intravedo elementi nuovi, concordate con me?
Come dici tu, ci sono anche elementi nuovi soprattutto nella suite dove ci siamo divertiti ad inserire delle parti che ricordano a volte i Police o il primo heavy metal di fine anni ‘70. Le nostre influenze sono palesi ma ce ne sono tante che vorremmo far venire fuori e chissà magari nel prossimo disco ci sarà più funk se non reggae. Concordiamo con te e ci piace pensare che ce ne siano anche negli strumentali laddove in passato eravamo più sporchi e diretti adesso anche in quei momenti musicali c’è una consapevolezza diversa come se fossero delle canzoni anch’esse più strutturate come quando c’è la parte vocale.

I pezzi della prima parte dal vivo tendono a trasformarsi, diluirsi, oppure mantengono la semplicità che hanno da studio?
Lo stiamo capendo man mano. Ai tempi del nostro secondo disco, “Lama”, in cui inserimmo le prime parti cantate non eravamo soddisfatti della loro resa live, con il tempo i brani sono cresciuti e hanno assunto una forma diversa, sicuramente accadrà anche con queste song più recenti. La componente psichedelica è nella nostra natura ma a volte è bello restare nei paletti che alcune canzoni impongono.

I brani strumentali sono nati in contemporanea con le canzoni della prima parte oppure risalgono a sessioni di registrazione diverse?
La registrazione dei primi tre singoli risale al 2021 ed erano dei brani a cui stavamo lavorando già prima del covid, li abbiamo semplicemente remixati. Il resto risale a pochi mesi fa dove abbiamo registrato tutti gli strumentali e l’intera suite (a cui abbiamo comunque lavorato per circa un anno). In ogni caso anche se in tempi diversi la registrazione non è durata più di cinque, sei giorni totali.

Il disco si chiude con una mini-suite concettuale, come è nato questo pezzo? Può rappresentare il futuro della band o rimarrà un caso a sé stante?
“Tears Never Here” ha una sua storia abbastanza particolare. Volevamo fare un brano con diversi momenti quasi come fosse una storia un po’ alla Tommy (amiamo gli Who). C’erano questi tre testi di Paolo (il batterista) molto vecchi pensati per tre brani differenti che avevano comunque molti punti in comune e che Giuseppe (chitarra e voce) ha “unito” componendo allo stesso tempo la parte musicale. Un bel giorno ci ha inviato il brano completo con voce e chitarra acustica, ad un primo ascolto ci pareva impossibile realizzarlo, c’erano troppe parti da ricordare! In realtà non è stato poi così difficile una volta entrati è venuto fuori in maniera abbastanza naturale e ognuno ci ha messo del suo in fase di arrangiamento. Speriamo di suonarlo il più possibile nei prossimi concerti e magari ripeteremo l’esperienza aggiungendo elementi diversi, vedremo.

Dove vi condurrà nei prossimi mesi la vostra auto?
In giro il più possibile e sicuramente verso un nuovo disco a cui stiamo già pensando per il prossimo inverno.

Abysmal Grief – Despise the living…

Regen Graves nel corso della sua esistenza ha seminato lungo la propria strada, come un oscuro Pollicino, piccole molliche di morte. Per nostra fortuna, queste briciole nere non vanno quasi mai disperse, così come capitato ai nove brani, provenienti da periodi diversi (2016 – 2021) della carriera degli Abysmal Grief, raccolti nell’antologia di inediti pubblicata di recente dall’Avantgarde Music,Despise the Living, Desecrate the Dead.

Ciao Regen, nelle note promozionali che accompagnano la vostra nuova raccolta, “Despise the Living, Desecrate the Dead”, ho trovato questa tua dichiarazione sul contenuto dell’album «canzoni registrate e mixate nel nostro studio negli ultimi anni, con diverse formazioni, che per una serie di ragioni non sono mai state incluse nelle uscite precedenti». Direi di iniziare proprio da questa “serie di ragioni”, che immagino che non siano di tenore qualitativo…
Il motivo per cui ci ritroviamo spesso con outtakes e “inediti” lasciati nel dimenticatoio è dato dal fatto che abbiamo un ritmo compositivo fortunatamente (ancora) piuttosto elevato, e quindi in occasione di ogni album si ripresenta la necessità di dover scegliere i brani che meglio si adattano ad un determinato concept, o che più banalmente stanno bene tra di loro a livello musicale. E dato che ormai da qualche anno abbiamo scelto di non pubblicare più singoli, mini-Lp o split, tutto questo materiale escluso va poi a confluire in un’unica release nel momento in cui esso raggiunge una durata sufficiente per un album. Non ti nego che dopo trent’anni di pubblicazioni, mi diverte assai di più assemblare un disco del genere, molto più eterogeneo e interessante, che non mettermi al lavoro su un album “ufficiale” dall’inizio alla fine, e ritengo che probabilmente in futuro sarà una direzione che continueremo a percorrere più marcatamente, sia che piaccia o no.

In generale, come fai a capire se un pezzo è pronto per finire in una vostra pubblicazione ufficiale?
Ovviamente, al momento della composizione tutti i brani hanno la stessa importanza, altrimenti finirebbero direttamente cestinati. Poi, però, a seconda del concept o del mood di ogni album viene fatta una scelta. Tutto qui.

Ti è mai capitato di pentirti anni dopo, magari riascoltando un vostro disco, di aver inserito nella tracklist un determinato brano?
No, per fortuna non mi sono mai pentito per aver incluso brani “brutti” o sbagliati, per il motivo di cui ti parlavo sopra. Semmai, mi è dispiaciuto non aver avuto sufficiente spazio in quel determinato album per includerne altri che avrebbero potuto starci assai bene.

Torniamo a “Despise the Living…”, i pezzi sono finiti nella compilation così come sono stati registrati all’epoca oppure ci hai messo nuovamente mano?
La maggior parte erano già stati completati e “chiusi” da tempo, mentre alcuni hanno necessitato solamente di piccole aggiunte qua e là, di qualche ripulita, e soprattutto di un mixaggio definitivo. In ultimo, è stato fatto un mastering non eccessivo, che potesse mettere per quanto possibile tutti i brani ad uno stesso livello sonoro.

Zess e The Black sono le due realtà a cui avete reso tributo in questo disco. Secondo te, la loro opera è servita a creare una vera e propria scena italiana o ci troviamo oggi innanzi a un nugolo di band, che pur avendo delle affinità stilistiche e concettuali, si muovono come entità isolate?
Gli Zess purtroppo sono stai una realtà praticamente sconosciuta a tutti, nel senso che il loro unico disco è uscito quando la band non esisteva più. Discorso diverso per Mario Di Donato, ovviamente, anche se è risaputo che tutti i grandi nomi del dark sound italiano hanno agito praticamente nell’ombra, soprattutto nei loro periodi migliori, e sono stati realmente scoperti e apprezzati solo successivamente, tranne rare eccezioni.

Di Vito Salvatore Monitto e della sua marcia funebre degli anni ’50, “Estremo Dolore”, cosa puoi dirmi?
Che era dai tempi di “Misfortune” che desideravamo trasporre in metal delle vere marce funebri della tradizione italiana (l’idea era addirittura quella di farne un album intero!) ma non ci siamo mai azzardati a intraprendere un lavoro del genere. Era semplicemente arrivato il momento di farlo, prima che ci pensasse qualcun altro meno titolato di noi.

Quello della Morte è il vostro tema per antonomasia, ma la tua percezione della stessa è cambiata nel corso del tempo? Magari, proprio in questi ultimi anni in cui abbiamo assistito a fenomeni di morte di massa quali pandemia e guerra nel nostro continente?
No, nell’era attuale i processi storici a cui assistiamo non credo possano influire più di tanto sul concetto proprio di Morte. Non ho ancora un’età tale da poter fare un confronto tra epoche vissute particolarmente distanti tra di loro o diverse, quindi per me, a livello personale, la percezione di essa come di tutti i fenomeni umani è rimasta pressochè inalterata. I fenomeni di pandemia e di guerra poi ci sono sempre stati, solo che erano lontani dal nostro felice mondo occidentale “civilizzato”, e quindi ipocritamente ce ne sbattevamo il cazzo e ne davamo una valutazione superficiale e “cinematografica”. Ora finalmente qualcosa è arrivato a smuovere, seppur di poco, anche le nostre confortevoli esistenze, e ai più sembra tutto così enormemente difficile da gestire a livello psicologico…

A proposito di morte, ma il formato CD è completamente defunto? La compilation esce in formato digitale e vinile, come avviene sempre più spesso anche per le release di altre band…
Questa release è solo su vinile poiché, in accordo con la Avantgarde Music, volevamo in qualche modo differenziarla dagli album “ufficiali”, ma presumo che il prossimo disco sarà pubblicato come sempre su CD, LP e cassetta. Mi piacerebbe che fosse il formato digitale a essere “defunto”, ma sono consapevole di dire una cosa fuori dal mondo ormai, quindi mi devo adattare alla realtà delle cose.

A breve dobbiamo aspettarci un nuovo disco di inediti, magari proprio l’Avantgarde Music?
Sicuramente non a breve, ma nel 2024 credo potremo parlare di un nuovo album. I brani nuovi ci sono, e ci stiamo lavorando proprio in questi mesi.

A Giant Echo – Resine

Sergio Todisco torna con il suo progetto A Giant Echo, non più un semplice alter ego musicale, ma una vera e propria band capace in “Resins 2” di eseguire sonorità ricche di sfaccettature e influenze che si “appiccicano” sin dal primo ascolto e non ti lasciano più…

Ciao Sergio, nel 2018 usciva “Songs By Ghosts And Machines”, cosa è accaduto da quel momento?
Ciao, piacere di conoscersi e scambiare due chiacchiere. Mi verrebbe da dire che nulla di straordinario è accaduto, rispetto al tempo che nella mia vita dedico a scrivere, comporre ed esercitarmi nella musica. Rispetto al progetto A Giant Echo, invece, è cambiato che finalmente ora c’è una band che può suonare i brani dal vivo, ci sono amici cari con cui condividere certe sensazioni suonando e, infine, le composizioni possono esulare dalla dimensione studio e prendere forma, con arrangiamenti diversi, su un palco, di fronte ad un pubblico.

Il presente si chiama “Resins 2”, un titolo che non è un semplice nome per l’album, ma quasi una dichiarazione d’intenti. Ti andrebbe di spiegare il concept che sta dietro questa seconda opera?
Sì, intendo l’album come un concept. Intanto il titolo, “Resins” (resine), è stato scelto come richiamo a qualcosa che si attacca, che ha la capacità di rimanere, che anche quando sembra essere andato via, ha lasciato traccia di sé, che si incolla quasi e non se ne va più, o non se ne va mai del tutto. Sono delle impressioni, dei sentimenti, dei sorrisi, o delle lacrime versate, legati a degli eventi, accaduti una volta, ma che in qualche modo rimangono incollati per sempre all’esistenza di chi li vive, legando in una forma particolare passato, presente e futuro dei cicli esistenziali. Così, diversi brani cominciano, hanno un’evoluzione, sembrano finire, ma poi ricominciano (un’evoluzione che si manifesta particolarmente in “Part Three”, che inizia con un’introduzione, poi si sviluppa in un altro modo, sembra finire, ma poi riprende suoni, impressioni e melodie dell’introduzione). Così anche l’arpeggio finale di “Part One”, che riemerge durante la coda di “Last Part”, a manifestare la ricomparsa di quanto è stato vissuto, ma dentro un altro contesto, sebbene quello generale (l’insieme, il contesto complessivo) sia il medesimo. Quello che si cerca di richiamare è una rievocazione di accadimenti, di sensazioni che hanno marcato la persona in dei momenti, modificandola nella sua costituzione nel tempo. I brani, allora, diventano le parti di un processo di costituzione in cui si forgia l’essenza di chi racconta, scrive e canta di questi pezzi di esistenza, dalla prima all’ultima, non necessariamente in ordine cronologico. Infatti, “Part Four” sembra non esserci, sul supporto fisico compare come sesta traccia, ma non è annoverata in copertina (qualcosa che sembra scomparsa, ma che in realtà ricompare dopo). Ecco perché le strutture hanno un ciclo che parte, cresce, muore, rinasce, finisce; o perché le melodie ritornano.

Quel “2” che appare nel disco come lo dobbiamo intendere: parte integrante del titolo oppure una semplice appendice a rappresentare che si tratta della seconda opera dei A Giant Echo?
Sicuramente è parte integrante del titolo dell’album, ed ha un significato: c’è stato un precedente di quest’album, si chiamava “Resins”, dove c’erano i prototipi di questi brani, fu la prima autoproduzione di A Giant Echo, nata da tanta ispirazione ma accompagnata da pochissime capacità e abilità e ancora meno esperienza. Nel tempo quei brani sono cresciuti, sono stati cambiati, riarrangiati, fino ad arrivare alla versione confluita in “Resins 2”.

A proposito, dobbiamo parla dei A Giant Echo oppure di A Giant Echo? Di un progetto tuo personale o vera e propria band?
Una definizione non per forza esclude l’altra, soprattutto se si guarda all’evoluzione nel tempo e ai modi di scrivere e poi di suonare live. I brani di “Songs by Ghosts and Machines”, come quelli di “Resins 2”, sono nati dalle idee di un singolo, ma poi quel singolo ha cercato persone con cui condividere e portare davanti a un pubblico le idee. Fortunatamente ho trovato delle persone e degli amici, musicisti bravissimi che hanno voluto partecipare al progetto A Giant Echo, dapprima Riccardo Bianchi alla batteria e Davide Pascarella al basso, e infine, ultimo ad unirsi, Marco Nardone alla chitarra e synth. Ora c’è una band che si chiama A Giant Echo e che può suonare i brani live; ma il songwriter singolo non è scomparso, e risponde sempre al nome A Giant Echo. Tutto quello che c’è stato e c’è, è sempre in evoluzione, e ciò che si potrà creare insieme, fra quattro musicisti, è sempre da considerarsi in evoluzione.

Torniamo al disco, pur essendo legati tra loro, i brani appaiono molto vari. Questa scelta di spaziare tra i generi e le influenze è stata una scelta nata a tavolino oppure un processo spontaneo?
Non ho studiato musica né, allargando il senso della domanda, mi sono mai posto obiettivi commerciali, quindi, tenderei a dire che le strutture dei brani non sono nate a tavolino; per altro, dal momento del concepimento a quello della sintesi finale, i brani sono cambiati. In sostanza direi che la base di partenza è assolutamente spontanea, lo sviluppo è frutto di un’esperienza di studio, ma inteso come studio ricco di istinti e influenze, e povero di nozioni. Credo che lo spaziare fra generi e influenze dipenda dalle variegate esperienze di ascolto.

I brani sono nati nell’ordine in cui appaiono in scaletta oppure hai assemblato la tracklist in un secondo momento?
All’interno del processo di creazione, credo di aver pensato in itinere all’ordine della scaletta.

“Part Four” perché hai deciso di utilizzarla come bonus e non come parte integrante del disco?
“Part Four” è decisamente diversa dalle altre, c’è molta più influenza di musica elettronica, più uso del computer e dei synth ed è nata da sensazioni più tetre rispetto ai vissuti che hanno ispirato le altre. Intendevo separarla dalle altre, e con essa ho voluto segnare la fine triste di un disegno, ma in qualche modo quella fine era prevista, immaginata in anticipo e solo dopo confermatasi come chiusura (ecco perché è segnata da un numero che la presupporrebbe in una posizione antecedente). Così come, invertendo la prospettiva, le parti del ciclo che nell’ascolto arrivano prima della fine prevista, possono rivivere ed essere immaginate anche dopo di essa.”Last Part” sarebbe la chiusura, reca con sé tracce di “Part One”, si pone in scaletta prima di “Part Four”, ma è marcata da un aggettivo che la presupporrebbe alla fine del ciclo. In sostanza, se non si capisce quale sia la fine tra “Part Four” e” Last Part”, il concetto è passato.

Proporrai le canzoni di “Resins 2” dal vivo?
Sì, e le abbiamo già proposte in due concerti, ma solo quelle cantate; per le strumentali si pone qualche difficoltà nel riadattarle in maniera soddisfacente con l’attuale formazione a quattro membri.

Le tue prossime mosse?
Scrivere, comporre, registrare, riarrangiare, suonare.

Bosco Sacro – Fountain of wealth

Il prossimo 10 febbraio uscirà per Avantgarde MusicGem“, il disco che sancisse l’esordio dei Bosco Sacro, band che vanta nelle proprie fila Paolo Monti (The Star Pillow, Daimon), Giulia Parin Zecchin (Julinko), Luca Scotti (Tristan da Cunha) e Francesco Vara (Tristan da Cunha, Altaj). Tutti e quattro membri della band hanno accettato di rispondere alle nostre domande…

Benvenuti ragazzi, direi di iniziare ripercorrendo i momenti che hanno portato alla costituzione dei Bosco Sacro…
Paolo: Quando Francesco, con cui ci conosciamo da molto tempo, mi ha proposto di contribuire a qualche traccia nata da lui e Luca, a cui si era già unita Giulia, ho accettato con la mia solita curiosità, ma ben deciso a non volermi coinvolgere in una band. Mi è bastato ascoltare i primi risultati per accettare di incontrarci in saletta in un giorno di estate 2021. Dopo questa giornata trascorsa a suonare è scattata una scintilla che ci ha portati pochi mesi dopo a chiuderci un weekend intero con Lorenzo Stecconi nello stesso studio in Versilia. Questo era il secondo nostro appuntamento e nasceva “Gem”.
Francesco: Io e Luca, il batterista, abbiamo un duo ambient/drone/post rock di nome Tristan da Cunha. Durante il lockdown abbiamo avuto modo di collaborare con Julinko, aggiungendo il suo cantato ad un nostro pezzo strumentale per una compilation di Electric Duo Project; il risultato ci ha entusiasmato a tal punto da voler iniziare un nuovo progetto che includesse Giulia e un quarto elemento che abbiamo individuato in Paolo, nostro amico con il quale abbiamo condiviso molte date e tour con il suo progetto solista The Star Pillow, e che ha prodotto il primo disco dei Tristan da Cunha, “Soçobrar”. Provenendo da posti diversi (io e Luca da Pavia, Giulia da Treviso e Paolo da Carrara) abbiamo iniziato mandandoci registrazioni e bozze a distanza. Nel Giugno del 2021 abbiamo finalmente avuto modo di trovarci a provare insieme ed il risultato è stato umanamente e artisticamente enorme, perché oltre ad una band è nata anche una fratellanza fra di noi.

La scelta del nome ha in qualche modo a che fare con quel posto ricco di fascino e mistero che è il Bosco Sacro di Bomarzo?
Paolo: Cercavamo un nome che richiamasse immediatamente tutti i connotati del progetto, la sacralità, circolarità, profondità, essere selvaggio, misticismo ed in generale la forte connessione con la Natura a cui, su diversi piani, ogni specie appartiene e ritorna, in un ciclo eterno. Il nome Bosco racchiudeva tutto questo e dopo diverse proposte ho suggerito un “Sacro”. Bosco Sacro descrive perfettamente la nostra essenza e la profondità del nostro suono.
Francesco: Inizialmente il Bosco Sacro era semplicemente il concetto attorno al quale fondare la nostra poetica, ma lo abbiamo mantenuto come nome definitivo dato che incarna in maniera precisa i connotati di circolarità, di scambio dei nostri linguaggi espressivi, di stupore e meraviglia, di una sacralità liquida e indefinita come un miraggio.

La band nasce nel 2020, il disco viene inciso nel 2021: come mai abbiamo dovuto attendere il 2023 per la sua pubblicazione?
Paolo: Nel 2021 nasce il nostro sodalizio scambiandoci tracce e molte molte suggestioni. Nella stessa estate ci incontriamo una prima volta per suonare tutto il giorno in uno studio. Poco dopo una seconda volta, per registrare l’album nello stesso studio. Quindi ad inizio 2022 con i mix dell’album in mano abbiamo iniziato la parte difficile, la ricerca di una label. Incontriamo ben due proposte e accettiamo quella di Avantgarde Music intorno a giugno 2022. Aggiungi i tempi tecnici e della label con le sue release già pianificate ed ecco che si arriva alla data di release il 10 Febbraio 2023.

Provenite tutti da band attive e con una certa storia alle spalle, ritenete che i Bosco Sacro siano un’entità che è la somma delle vostre esperienze musicali o che sia, invece, qualcosa che se ne distacca completamente per dar vita a un sound indipendente da ciò che avete fatto in passato?
Luca: Credo che il sound di Bosco Sacro si porti indiscutibilmente appresso qualcosa di Tristan da Cunha, Julinko e The Star Pillow perché sono ormai da anni i nostri progetti musicali individuali. Per Paolo e Giulia i loro alter ego, per me e Francesco “la nostra isola” in cui tutto sfogare e affidare a suon di drone: fanno parte di noi. Quindi per questo motivo penso che Bosco Sacro sia la somma di tutte queste esperienze vissute da noi, di tutte le nostre influenze che messe assieme danno vita a un qualcosa di nuovo mai sentito prima. Penso, infine, che la nostra musica non sia una naturale evoluzione da abbinare ai nostri singoli generi musicali ma una musica nata dalla semplice voglia di sperimentare all’interno di questo nuovo progetto/percorso che noi quattro abbiamo deciso di creare insieme, proprio per poter dar vita al “nuovo”.
Paolo: In Bosco Sacro sto esplorando e lavorando esclusivamente in un preciso range di frequenze (quelle più gravi) ed in una modalità / approccio compositiva ed esecutiva diametralmente opposta rispetto a quella degli altri miei progetti. Questo, sommato al lavoro di tutti gli altri, crea inevitabilmente un nuovo composto sonoro, pur portando in esso le nostre esperienze pregresse.
Francesco: Personalmente, come chitarrista, ho cercato di lavorare diversamente rispetto al solito, concentrandomi principalmente sull’arrangiamento melodico, dialogando e intrecciandomi con la voce di Giulia, cercando una fusione armonica. E’ un esercizio per me del tutto nuovo, provenendo da esperienze quasi esclusivamente strumentali. Il risultato generale di Bosco Sacro per me è un divenire.

Non ho i testi, ma mi par di capire che il disco sia permeato da un spirito panteista ed ecologista, è così?
Giulia: La nostra musica è contemplazione unita ad espressione, riflesso di qualcosa che sentiamo e vediamo. Non c’è una presa di posizione sul piano spirituale, sociale o politico che unisca i nostri intenti. L’istinto a cui rispondiamo è quello di liberare qualche scintilla della vastità che ci abita e ci percorre in ogni momento, legando il nostro spazio più intimo all’ ”altro”, all’ ”esterno”, agli altri corpi organici ed elementari che abitano questo mondo in cui viviamo, anche all’immateriale che non si può vedere. L’osservazione della natura e l’amore non sofisticato per quest’ultima, sono la base per questo movimento: i testi che ho scritto fanno riferimento ad esperienze vissute a stretto contatto con essa ed hanno origine dalla convinzione che l’uomo non sia una creatura qualitativamente e cognitivamente superiore a piante, pietre, acque. Dunque più che uno spirito panteista lo definirei pan-psichico, e più che uno spirito ecologista lo chiamerei semplicemente, naturalista.

Mi soffermerei sull’uso della lingua, per esempio la tracklist contiene titoli in inglese, italiano e francese, a cosa è dovuta questa scelta?
Giulia: Da tempo m’interrogo sulla possibilità di liberare il mio canto dal vincolo della parola, dalla logica del significato, per far fiorire il suo afflato più essenziale, quello di essere aria, suono e nient’altro: puro innalzamento, puro abbandono. Inizialmente per Bosco Sacro avevo pensato che potesse essere questa la via da percorrere, poi nella pratica mi sono ritrovata a muovere le labbra e i muscoli del diaframma anche per descrivere qualcosa, veicolare dei nuclei di immagini che potessero essere comprensibili ai molti. Tutti i testi sono scritti in inglese, tranne uno, “Les Arbres Rampants”, un brano nato e composto quasi ad impromptu che esigeva la musicalità del francese e non un’altra, un fattore che ha anche trasformato, per quell’episodio, il mio modo di cantare. Queste presenze linguistiche sommate al nome del gruppo ed omonima title-track “Bosco Sacro”, mi hanno riportata – seppur per via opposta – verso l’istinto iniziale che avevo avvertito, quello di sconfinare rispetto ad un codice linguistico fisso, andando verso la creazione di uno spazio che potesse ospitare una piccola fusione di impressioni e risonanze, provenienti da realtà metafisiche diverse.

Il titolo, “Gem”, a cosa fa riferimento?
Giulia: Avendo creato un ambiente linguistico misto (pur sempre umilmente restando nella nostra micro-area di ascendenza latino-greca), “Gem” è una parola che irradia due significati e due immagini diverse in lingue distinte. In inglese, il termine derivante dall’antico francese indica solamente la pietra preziosa, mentre sappiamo che in latino, come anche in italiano corrente, con “gemma” si indica il primo germoglio di una pianta, oltre che un prezioso oggetto minerale. Questa ambivalenza di allusione viene rappresentata dall’immagine di copertina creata da Carlo Veneziano, dove viene suggerito anche un legame simbolico ed alchemico tra i due: scavando ancora più a fondo, l’etimologia greca della radice della parola ci rimanda a significati come “essere pieno/a”, “generare”, “ produrre”… (ecc). Per noi, “Gem” è una pietra preziosa che si è materializzata nella nostra strada a partire da un piccolo germoglio, un’intuizione semplice e proliferante, che ci porta a viaggiare insieme in un percorso fatto di scie, gallerie, reticoli e riflessi… una dimensione sonora che equivale a quella dell’anima.

Porterete dal vivo “Gem”? E secondo voi quale sarebbe la location migliore per ospitare i vostri show?
Paolo: Quella del live è una dimensione sacra. Bosco Sacro trova in essa il suo habitat naturale e si sviluppa, anche su disco, proprio grazie all’intesa come live band. Sebbene di fatto non avessimo mai suonato insieme, è come se lo avessimo sempre fatto, e magari è proprio così. Anche se ognuno di noi proviene da rispettivi progetti ed esperienze, Bosco Sacro è di fatto una nuova band e come tale si è scontrata con la solita indifferenza degli “addetti ai lavori”, mentre ha ricevuto fin da subito grande supporto ed interesse dalla gente della nostra scena e questo non può che renderci veramente felici e motivati. Curo da sempre la gestione dei miei tour e concerti, e devo riconoscere che ho visto un imborghesimento ingiustificabile di molti booking: prima erano parte di uno stesso giro sopra, sotto, dietro il palco alimentandone curiosità, facendosi promotori di stimoli e contaminazioni, adesso hanno creato un divario, cedendo alla tentazione di lavorare con artisti di fama o di certi giri esclusivi. Stesso discorso vale anche per Festival e, peggio ancora, per molti promoter. Vorrei chiedere a questa gente cosa farebbe adesso se gli spazi di 10, 15 anni fa avessero ragionato allo stesso loro modo di adesso. Detto ciò, con non poca fatica, abbiamo chiuso in totale autonomia un primo tour italiano e, a seguire, un primo tour europeo. La location migliore è quella in cui riuscire ad esprimere pienamente il nostro suono insieme ad un pubblico disposto a lasciarsi andare completamente insieme a noi.

Cosa vi aspettate da questo 2023 segnato dal vostro esordio discografico?
Paolo: Ci auguriamo di poter suonare “Gem” ovunque sia possibile farlo. Ringraziamo la nostra label, Avantgarde Music, composta da grandi professionisti e persone coraggiose che amano quello che fanno e creano nuovi stimoli: esattamente l’opposto delle persone di cui parlavo prima.

Alldways – Segni sulla pelle

I tuoi abbracci segnano la pelle” (Scatti Vorticosi Records / Metaversus PR) è il titolo scelto dai torinesi Alldways per la raccolta brani rivisitati (più un inedito) uscita il 16 giugno. Un’opera che rilegge la ventennale storia dei piemontesi in modo ecclettico e che apre una finestra sul futuro del gruppo.

Benvenuti, è da poco fuori “I tuoi abbracci segnano la pelle”, una raccolta di nove brani del vostro repertorio ri-arrangiati e un inedito. Cosa vi ha spinto a pubblicare un album antologico?
Ciao a tutti! Dunque, abbiamo deciso di pubblicare questo album circa due anni fa. L’idea è nata dalla nostra voglia di voler dare ad alcune canzoni del passato, una nuova vita. Alcuni di questi brani, a nostro parere, non avevano avuto la giusta luce, la giusta prospettiva durante la composizione, ciò dovuto probabilmente alla nostra fretta, all’urgenza di espressione che era tipica della nostra giovane età, al tempo. Nonostante ciò i testi sono rimasti invariati perché anche a risuonarli, li troviamo tutt’ora contemporanei.

E’ stata dura individuare nove brani che riassumessero i vostri 20 anni di carriera?
Sì, ogni brano ha una storia e un ricordo legato ad essa. Ne avremmo potuti scegliere altri, ma alla fine, anche per una questione di coerenza con il percorso fin qui fatto, abbiamo voluto scegliere uno o due brani per disco, mantenendo così un filo conduttore cronologico.

Come vi siete mossi in fase di ri-arrangiamento?
Siamo partiti dalla scelta dei testi a cui siamo maggiormente legati e che volevamo riproporre, ci siamo poi concentrati sulla musica e sulle linee vocali. Per cause di forza maggiore, questo ha comportato lo stravolgimento di alcune canzoni anche perché per i primi otto anni, la voce del gruppo è stata una donna (Fede, ma poi anche Marta, Valentina, Monica).

Qual è il brano che, secondo voi, esce maggiormente rivoluzionato in questa nuova veste?
Probabilmente “I’m Ready to Go”, tratto da “R.evolution” del 2009. Il testo narra di temi attuali, come l’alienazione da social (al tempo c’era Myspace e il primo Facebook) e della voglia di evadere dalla città. La musica e le parti vocali sono state totalmente stravolte, per dare risalto alle parole e alla velocità del brano.

Mentre, qual è quello più fedele all’originale?
Forse “Senza lacrime”, che abbiamo cercato di rendere più diretta e compatta, scarnificando un po’ la durata e le parti strumentali. La struttura e la linea vocale, invece, sono abbastanza fedeli all’originale.

Passiamo ora alla traccia inedita, “Parassiti del benessere”: come è nata?
E’ nata ad inizio 2020, prima dell’inizio della pandemia, l’avevamo registrata nella nostra sala in qualità di demo, poi vedendoci tre-quattro mesi dopo, ha preso una forma definitiva trovando anche la strofa finale del testo, che ci era mancata nei mesi precedenti. L’essenza del testo è una dichiarazione d’amore, non ad una persona, ma a Torino, il posto in cui siamo cresciuti e a cui siamo profondamente legati. Nella seconda parte, abbiamo voluto portare l’attenzione a ciò che quotidianamente dimentichiamo e distruggiamo del mondo che ci circonda e della casa che abitiamo. Questa canzone è una lettera che scriviamo a noi stessi, ai giovani che siamo stati vent’anni fa.

Cosa presenta questa canzone di inedito rispetto al vostro repertorio classico?
La struttura è diversa, la scrittura “strofa-ritornello” non faceva molto parte di noi. Eravamo sfuggenti, in questo senso, il testo era sintetico e compatto e non c’era “respiro” nel brano, elemento che in quest’ultimo testo abbiamo invece voluto inserire. Le tematiche invece sono sempre le stesse, calate sul contesto che viviamo oggi, ciò che ci sta a cuore diventa spesso canzone.

Avete altri brani inediti, magari per un prossimo nuovo album?
Sì, in questo momento ce ne sono alcuni già pronti, ma prima di un nuovo disco vogliamo sicuramente suonare e rendere vivo quest’ultimo registrato.

Promuoverete il disco dal vivo oppure resterà un’esperienza da studio?
La volontà è quella di suonarlo dal vivo, compatibilmente con gli impegni di tutti noi. Prima dell’estate abbiamo fatto due date, ora nestiamo pianificando alcune per l’autunno. Speriamo di poterle fare tutte.

Lvtvm – Irrational numbers

Ragione o sentimento? I Lvtvm parrebbero propendere per un approccio alla musica più ragionato. Ma se persino i numeri possono essere irrazionali, figuramici le sette note. E la musica contenuta nel nuovo album, “Irrational Numbers”, è un fluire di emozioni che va dal musicista all’ascoltatore!

Benvenuti su Il Raglio del Mulo, dal 19 settembre è disponibile il vostro secondo
album “Irrational Numbers”, avete dichiarato che è stato suonato in modo differente dal
suo predecessore ma che comunque si muove nel solco della continuità. Quali sono le
differenze e le similitudini con “Adam”?

Carlo: Salve a voi e grazie per averci dato l’opportunità di parlare di noi. Le differenze stanno nell’aspetto compositivo, in realtà sono un’evoluzione dell’ultima parte del primo disco, dove già veniva intrapresa una forma compositiva più complessa, nelle ritmiche e nell’armonia. Anche Adam ha pezzi composti in due anni ed in questo arco di tempo la musica evolve così come fa ogni musicista, a maggior ragione un lavoro di 8 anni. Credo che “Irrational Numbers” sia il consolidamento di un’idea di musica cominciata nel primo disco.

Il disco esce dopo ben otto anni di attesa e grazie a un manipolo di etichette (Cave Canem DIY, Controcanti Produzioni, Drown Within Records, Vollmer Industries e Zero Produzioni). Come è nata la collaborazione con queste realtà?
Alessandro: Le partnership sono nate casualmente, conoscendo mano a mano i nostri collaboratori durante i vari live. Con Marco Gargiulo di Metaversus PR abbiamo un rapporto decennale e confrontandoci, ci consigliò di far sentire il disco a Cristian di Drown Within Records e Alberto di Vollmer Industries. Il primo ci consigliò a sua volta di scrivere anche a Davide di Zero Produzioni. Hanno tutti creduto nel nostro progetto alla fine. L’amicizia con Domenico di Controcanti Produzioni è abbastanza recente. Sono membro di un gruppo FaceBook di settore nel quale fin da subito ho legato con lui grazie alle nostre affinità sulle band underground, la collaborazione è nata naturalmente. Infine parliamo di Cave Canem, che è la nostra realtà! Associazione culturale dal 2008, abbiamo una sala prove/home studio allestita con le nostre mani grazie ad un fondo concessoci dal comune di Arcidosso. I gruppi che vogliono possono
venire a provare lì, dando un piccolo contributo, hanno tutto il materiale a disposizione. Ci autofinanziamo per permetterci di autoprodurci e di promuovere band dell’underground che reputiamo facciano musica interessante. Organizziamo un festival annuale dal nome Come le Mine, dove ospitiamo gruppi di ogni genere purché ci piacciano, è la nostra festa e col tempo, con una gestione attenta, siamo riusciti a crescere ed a creare un nome, tanto che nell’ultima edizione sono arrivate famiglie intere con camper e tende per partecipare alla serata. Siamo stati
molto soddisfatti.

A proposito di collaborazioni, ho letto un post sulla vostra pagina FaceBook in cui ringraziate Lorenzo Gonnelli e Damiano Magliozzi, quale è stato il loro apporto?
Carlo, Alessandro: Il quinto elemento del gruppo è il titolare di Gorilla Punch Much, Damiano Magliozzi, nostro fonico di fiducia (ormai canta ogni melodia meglio di noi), nonché colui che ha mixato il disco. Ci aiuta anche in fase di promozione, insomma c’è dentro fino al collo (poverino!). Siamo convinti che gli debbano dare una laurea ad honorem in psicologia per riuscire a farci stare calmi durante i tour. E’ una voce con un enorme peso, anche perché centellina ogni parola che dice, quando esprime un’opinione va assolutamente ascoltato con attenzione, ci fidiamo ciecamente di lui. Stessa cosa vale per Mike, ex tastierista del gruppo, colui che ha gettato le basi per la band e senza il quale mai saremmo partiti. Ogni suo consiglio è importante è come fosse una seconda coscienza. Per quanto riguarda Lorenzo, beh dovremmo scrivere un libro per elencare i suoi pregi, ma soprattutto ascolta la nostra musica e coglie subito le nostre intenzioni, una cosa incredibile. Ha un approccio così “sinestetico” che trasforma la musica in immagini, riesce a portarci dentro al suo mondo spiegandoci da dove nascono e perché nascono le sue idee. Conserviamo ancora il progetto del video di “Twalking” di “Adam”, un libretto rilegato e plastificato con una cura ed una professionalità altissime, quando lo vedemmo pensammo “alt d’ora in poi facciamo tutto con lui”, oltre al fatto che è di Arcidosso, un amiatino come noi e considerando il concept di “Adam”, dove abbiamo rimarcato più volte l’importanza delle nostre radici, beh con lui siamo siamo davvero in una botte di ferro.

Il vostro primo disco si intitola “Adam”, il primo uomo, il numero uno; questo secondo lavoro si chiama “Irrational Numbers”. C’è un collegamento tre i due titoli o si tratta solo di una mia sega mentale?
Isacco: ll collegamento tra i titoli ovviamente c’è e ricalca anche quella che è stata la nostra evoluzione musicale. “Adam” è l’uomo venuto dal fango che nasce cresce fino a confrontarsi col mondo e con la natura. Ma è lui stesso un essere naturale che viene dalla terra. Invece con con i numeri irrazionali abbiamo voluto rappresentare il mondo e la natura concepiti come altri da sé, cosicché l’uomo di fango debba confrontarsi con ciò che ha dentro per organizzare secondo le sue modalità quello che lo circonda. Quindi qui c’è un discorso di oggettivazione del mondo/natura avendo la certezza che non tutto può essere compreso e misurato.

Rimanendo in tema di musica, quanto c’è di matematico della vostra musica e quanto di istintivo? Si direbbe che la prima abbia la meglio sul secondo quando componete…
Carlo: L’elaborazione di questo materiale non prevede la creazione del pezzo alle prove perché richiederebbe uno sforzo davvero grande. Non è sufficiente elaborare un riff e farlo girare per fare un pezzo della nostra musica, poiché è richiesta la coesistenza di due strumenti che lavorano sulle stesse frequenze e la stratificazione delle stesse con le tastiere richiede una fase importante di scrittura in modo tale che non ci siano dei “buchi”. L’approccio è relativamente matematico se ti riferisci all’impossibilità di battere il piede per portarti i quarti, ci sono cambi di tempo e tempi composti, ma questa è una scelta compositiva per supportare le nostre idee o emozioni. Quindi direi che non c’è né matematica né istinto bensì composizione.

In “Holzwege” chiamate in causa Martin Heidegger, la cui opera si basa soprattutto sulla parola scritta. Voi invece avete fatto la scelta opposta, ovvero quello di non utilizzare la parole. Come avete lavorato per poter esprimere, utilizzando solo dei suoni, i concetti del filosofo tedesco?
Isacco: Nell’opera di Heidegger i sentieri interrotti rappresentano il linguaggio e il guardaboschi invece il poeta che sa districarsi tra questi sentieri. Il poeta usa la parola liberamente utilizzandola anche in maniera errata, la famosa licenza poetica, gli dona un senso diverso che può essere duplice, contraddittorio, rivoluzionario, ambiguo, evocativo… egli si arrischia nel linguaggio. Il nostro linguaggio è la musica e noi cerchiamo di non porci delle limitazioni in campo musicale, come il guardaboschi ci addentriamo in questi sentieri cercandone sempre di nuovi e facendoli nostri. Questa traccia è stata la prima composta dopo Adam, quando con noi era sempre presente Mike. Rappresenta un cambio di prospettiva, una svolta. Proprio come per Heidegger Holzwege rappresenta la svolta del linguaggio. Questa ricerca c’è in tutto il disco e cominciava già ad essere presente nella parte finale di “Adam”.

In generale, durante la composizione del disco avete mai avuto la tentazione di inserire delle parti cantate?
Alessandro: Il cantante polarizzerebbe troppo la musica secondo noi, a quel punto andrebbero scritti pezzi “su misura”. Alla fine abbiamo deciso che preferiamo il canto dei nostri strumenti.

La copertina, invece, cosa rappresenta?
Lorenzo: La copertina rappresenta un cambio di pelle rispetto all’album precedente. Si passa da una temporalità e assenza di spazio, presente in Adam, a una ricerca di un tempo e luogo per il riconoscimento di se stessi. L’architettura brutalista, tramite i suoi complessi schemi, va a creare lo sfondo su cui la sfera appoggia. Sfera che va a rappresentare la ricerca di perfezione a cui ogni individuo ambisce, ma allo stesso tempo riflette e distorce il percepito di noi stessi. Il bosco diventa città, gli alberi diventano palazzi che tendono verso il cielo come per elevarsi verso il metafisico e distaccarsi dal terreno, i sentieri diventano strade complesse dove districarsi. Città in continua espansione come lo spazio stesso, sempre più articolate nella propria ricerca dell’infinito. Il font utilizzato rimarca il concetto andando a utilizzare un tratto spesso e strutturato. Un passaggio dall’organico al sintentico.

In chiusura la domanda di rito, avete date in programma?
Matteo: Ovvio ci sono, ma non abbiamo fretta, nel senso che ci siamo resi conto di necessitare del luogo e del contesto adatti. In primo luogo vorremmo sempre Damiano con noi, senza di lui la nostra musica perde, perché si fonda su un equilibrio costante dei livelli dei singoli strumenti, se si perdono le sfumature si perde anche il nostro lavoro. Stiamo organizzando una release ufficiale in teatro ad Arcidosso, dove sono coinvolte molte persone tra cui 3 teatranti, che apriranno il concerto con un dialogo scritto da loro ispirato allo spazio ed al tempo e i visuals dei nostri fratellini Q2 Visuals con i quali abbiamo sempre collaborato. Vogliamo offrire uno spettacolo a 360 gradi.

Ataraxia – Aura magi

Tornano sulle colonne virtuali de Il Raglio del Mulo gli Ataraxia, che avevamo intervistato in occasione della pubblicazione di “Quasar”. “Pomegranate – The Chant of the Elementals” è l’ennesima riprova che, nonostante la band abbia alle proprie spalle una carriera più che trentennale, la vena creativa degli Ataraxia è ben lungi dall’esaurirsi.

Bentornati, ai tempi dell’uscita di “Quasar” nella nostra intervista definiste quel disco una “terapia in musica”: in parte o in toto descrivereste così anche il nuovo lavoro “Pomegranate”?
Ogni album che realizziamo e lasciamo fluire attraverso di noi è un atto terapeutico, la musica stessa può essere un deliberato o inconscio atto terapeutico sia perché le frequenze portano energie di qualità sia perché i contenuti sensoriali e spirituali ci aiutano a fare esperienza e conoscere meglio se stessi. “Pomegranate” è un abbraccio appassionato di elementi naturali, figure mitologiche e floreali, mondi e parole magiche e sensuali. Un “viaggio-terapia” in musica.

E’ azzardato affermare che “Pomegranate” è forse uno dei vostri dischi più istintivi?
E’ un album profondamento sentito e voluto, abbiamo vissuto i nove mesi della sua gestazione in profonda concentrazione e libertà espressiva. I brani sono nati come per magia uno dopo l’altro in studio e nel nostro rifugio alchemico, la sala prove. Tutto è fluito naturalmente, istintivamente. I nostri archetipi zodiacali e le nostre caratteristiche personali differenti ci hanno guidato a dipingere col suono, canalizzare o interpretare questo o quell’elemento e fra noi abbiamo vissuto una comunione creativa libera, profonda, condivisa. Insieme abbiamo potuto realizzare il tutto come tante gocce singole che si fondono in un solo mare. Purificati e nuovi, abbiamo avuto accesso a vari regni in un tripudio di prati fioriti, profumi, colori, sensuali sussurri, essenze, cori aurorali ed arie incantatorie. Ma poi l’entropia ed il chaos del mondo in cui stavamo vivendo ci ha spinto ad inanellare un nuovo ordine di purezza adamantina anche se per giungervi abbiamo dovuto attraversare la pelle di caverna del dio Dioniso, fino ad essere calamitati nel suo mondo minerale, animale, umano e divino. Certamente, è un disco istintivo ma un istinto filtrato da intuito, percezioni e sensazioni sottili.

Il disco ha un sottotitolo, “The Chant of the Elementals”, possiamo quindi definirlo un concept?
Certamente. E’ una corsa poetica attraverso i quattro elementi aria, acqua, terra e fuoco (ognuno dei brani ne porta le frequenze in musica) per arrivare alla Quinta Essenza, il quinto elemento che li incorpora tutti e li trascende. Il fuoco bianco di cielo ci ha portato alla fusione con” Hlara Aralh” (primo brano), portatore del coraggio del cuore (coraggio= agire col cuore). Il dispiegarsi delle note ci infonde un senso di libertà e leggerezza onnicomprensivi e pervadenti. Le lingue di fiamma cristallo che purificano senza bruciare ci avvolgono e ci portano al sentire più puro, istintivo e vivificante. Il viaggio alchemico dell’eroe, il viaggio di tutti noi, prosegue e si inoltra nell’elemento terra rappresentato dal profondo del bosco e dalla danza cosmica del cervo. “Oruphal” (secondo brano) ci conduce nell’underworld al cospetto della nostra ombra che è necessario guardare, accogliere ed integrare. Quali bestie sanguinanti e sfinite, ci troviamo in bilico tra un portale mistico ed uno strapiombo. Intorno a noi crepacci sulfurei, montagne e segrete spiagge. Poi irrompe il vento e ci trasforma in quarzo di luna. Un nuovo movimento alchemico ci accompagna dalla nigredo all’albedo dove ci accoglie “Ozoonhas” (terzo brano), spirito elementale che ci attraversa come aria per un passaggio in alto. Siamo antenne? Raggiungiamo ogni volta il punto più alto per farci canali di frequenza, ci eleviamo in spirale attorno al caduceo di Mercurio per risettare il nostro DNA e muoverci tra gli astri. In alto, nelle lunghe notti d’estate, contempliamo le stelle. Le silfidi, spiriti elementali dell’aria, ci ispirano insufflando in noi l’intelligenza sottile. Dalle altezze agli abissi uterini, tra spirito e materia, avvolti dalle correnti liquide di “Nevenhir” (quarto brano), spirito elementale dell’acqua. Nei fondi abissali seminiamo doni e facciamo crescere piante sonore, appariamo e spariamo con ali leggerissime ricamando sogni. Quali cellule stellari rimaniamo espansi e sospesi prendendo forme magiche e sorridendo dentro. Poi si accede all’ultima fase del viaggio, la Rubedo. Siamo nel campo mentale superiore, “Aura Magi” (settimo brano) In questo spazio l’etere dipinge distanze siderali, ci dà potere di visione, la capacità di comunicare con ogni cosa e con le forze divine degli intramondi. E’ un passaggio iniziatico di rinnovamento e pace intensa, una mistica carezza. Contempliamo i misteri, forme che si manifestano, e siamo fuoco sottile avvolto da carni mortali. Il viaggio sonoro si conclude con una outro che ci catapulta di nuovo nella materia delle origini come creature rinnovate.

Cosa simboleggia il melograno in questo contesto?
Il melograno è un simbolo potente, certi miti raccontano che sia nato dal sangue di Dioniso che feconda la terra (Dioniso è una delle due divinità a cui è dedicato un brano dell’album), inoltre è uno dei frutti sacri ad Afrodite insieme al melo (Afrodite è l’altra divinità a cui è dedicato un brano), Persephone, regina del mondo ctonio sotterraneo ed inconscio, il mondo dell’ombra ne mangia alcuni chicchi per diventare da fanciulla a donna consapevole grazie anche alla guida di Ade. Il melograno è un frutto afrodisiaco e le spose greche intrecciavano i capelli coi suoi rami. Il frutto è simbolo di prosperità e fortuna e rappresenta anche il micro ed il macrocosmo, dentro al globo del frutto tanti altri piccoli globi. Questa pianta era anche diffusa nei giardini dell’antico Egitto poiché resisteva alla siccità e quindi denotava forza. Era anche attributo della Grande Madre nel mondo mediterraneo, colei che da la vita, è fertile e colei che la toglie. Spesso si trova questo frutto nelle decorazioni pittoriche del rinascimento, anche nella Madonna con la Melagrana di Botticelli appartenente alla scuola neoplatonica fiorentina. Abbondanza, vita/morte, energia vitale, fecondità, la rappresentazione dell’universo stesso, del “così è in alto come in basso”. Abbiamo sentito forte questo richiamo.

Restando in termini di simboli, nella copertina risalta il rosso in un mare di luce: in qualche modo ha un significato recondito anche questa scelta?
E’ sorprendete come tutto sia legato da un fil rouge senza che neppure ce ne accorgiamo o lo pianifichiamo. Tutto avviene in un flusso incredibile di intenti inconsci e magici senza essere preventivato. Abbiamo scelto di realizzare il servizio fotografico in un giorno qualsiasi e quel giorno c’era la luce dorata perfetta nelle nostre colline e Francesca ha scelto il rosso apparentemente per caso e si è trovata immersa in dettagli dello stesso colore che punteggiavano la natura e alberi di melograni attorno a noi offrivano i loro frutti maturi. Ci siamo accorti di essere in un quadro che ha ispirato i brani prima che fossero scritti, abbiamo iniziato a comporli a novembre e in quel giorno di settembre tutto era già racchiuso negli scatti fotografici che poi sono diventati copertina e parte dei booklet. Il rosso vivace e variegato del melograno porta la vita, il codice del nostro sangue, della passione, del coraggio, vitalità che fluisce nella luce dell’equinozio, una luce di balance, equilibrio in cui 12 sono le ore diurne e 12 quelle notturne e 12 è un numero magico poiché dodici sono i mesi, gli archetipi zodiacali, etc. Abbiamo scattato le foto durante l’equinozio d’autunno 2021 e l’album esce a celebrare l’equinozio d’autunno del 2022. Inoltre l’oro è un colore alchemicamente importante, è la pietra filosofale, estrarre oro dal piombo, estrarre la Quintessenza della nostra dimensione animica dalle scorie della materia pesante. L’etichetta poi ha scelto di realizzare i vinili in colore oro e oro marmorizzato nero. Abbiamo il ciclo del sole ed ogni elemento che si sposa a questa creazione.

Ritenete che tutti i vostri ascoltatori siano in grado di decodificare la vostra arte per goderne al meglio oppure credete che ci siano più livelli di percezione di un vostro disco, ognuno diverso ma ognuno comunque soddisfacente allo stesso modo?
La tua domanda esprime intelligenza sottile e sensibilità. Esiste un inconscio collettivo, un mondo archetipale dove esistono elementi in comune a tutti gli esseri umani ma esiste anche l’individualità che riesce a volte a sganciarsi dalle norme culturali, dagli “stampi” emozionali e reattivi a cui siamo sottoposti e che ci hanno plasmato sin da pochi anni dopo la nostra nascita. L’arte e la musica in particolare riescono a bypassare tutto questo se ci si affida liberamente e consapevolmente a questo flusso. Credo i nostri ascoltatori siamo soliti abbandonare ratio e cultura dominante per accedere a quel mondo superconscio o spirituale in senso lato che porta ad un ascolto musicale che diviene un ascolto interiore, un viaggio alla scoperta di se, dei propri luoghi dell’interiorità a cui la musica e la natura da cui siamo ispirati fanno da specchio. Quindi, certo, chi entra in risonanza con la nostra arte trova e scopre sempre codici personali ed universali per assimilarla e viaggiare, ci sono più livelli di percezione e anche sensazioni differenti ma ognuna di queste è buona e giusta per la persona che la vive. Sono tanti i sentieri che portano ad un luogo speciale, alcuni più irti, altri delicati e plananti, altri scoscesi ed impervi, altri densi di dolcezza e colori anche se tutti arrivano alla stessa Sorgente.

Nel 2020 avete festeggiato il vostro trentennale in un momento storico molto particolare, in qualche modo gli avvenimenti legati alla pandemia hanno sancito un prima e un dopo oppure per voi le cose sono tornate più meno sui soliti binari dopo un periodo di assettamento?
In tutta sincerità niente torna mai sugli stessi binari, diciamo pure che i binari ci stanno stretti e che abbiamo sempre preferito aprire nuovi varchi e sentieri nei boschi sonori che ci hanno accolto e che abbiamo scoperto strada facendo. Inoltre, per la legge dell’ottava, ogni cosa che si ripete avviene sempre ad un’ottava diversa a seconda di ciò che abbiamo appreso, delle debolezze, dei punti di forza, delle scoperte, delle paure e del coraggio che abbiamo dimostrato ed esperito la volta precedente. Per confrontarci con esperienze così forti, stimolanti e sfidanti, per non rimanere annichiliti o passarci in mezzo da ciechi, sordi ed evitanti col rischio di finire in altre esperienze simili come in un loop di un girone dantesco, abbiamo scelto la creatività. Ad un certo punto ci siamo concentrati, aperti alle infinite vie della creazione ed abbiamo deciso di realizzare questo album. Immersi in un universo di idee, sensazioni, percezioni e stimoli artistici abbiamo dato un senso a tutto ciò che accadeva “originando” un mondo nostro di Bellezza, Armonia e Grazia che potesse essere condiviso e potesse essere un dono per noi e tutti coloro che ci ascoltano e ci ascolteranno.

Avete delle date in programma a supporto del disco?
Avevamo una serie di date in previsione (anche se non facciamo mai specifici tour legati ad un album, ogni nostro concerto è una “dimensione” a sé, preparato ad hoc a seconda del luogo che ci ospita, del nostro stato d’animo e di tanti altri fattori), purtroppo alcune sono saltate per problemi organizzativi dell’ultimo minuto, avremmo dovuto suonare in un grande festival in Romagna, un altro in Umbria e via dicendo. Saremo in Germania ad un festival legato al sole a fine novembre e faremo un concerto semiacustico nel giardino di una casa colonica in forma semi privata (ad invito) il 1 ottobre (per chi fosse interessato a prenotare un posto può scriverci via Facebook). E’ in preparazione un tour oltreoceano nel 2023 inoltrato dove spesso siamo richiesti e dove per questioni di forza maggiore abbiamo dovuto rimandare negli ultimi due anni. La dimensione dal vivo è un rituale, un atto magico profondamente condiviso tra noi ed il pubblico, un pubblico attivo con cui si scambiano correnti energetiche. Essendo stati molto impegnati nell’ultimo anno in studio di registrazione e con i vari artisti che hanno collaborato alla parte visiva di “Pomegranate”, abbiamo ora un po’ di tempo per preparare una performance ad hoc, provare i brani nella versione live e realizzare un video da proiettare ai concerti come supporto immaginativo.

Di solito siete molto prolifici, loro dimostra la vostra cospicua discografia. Mi incuriosisce sapere, in chiusura: nonostante abbiate rilasciato da poco un disco, state già lavorando a dei nuovi pezzi?
In questi mesi siamo stati molto impegnati con la realizzazione di alcuni video ed un video documentario ispirati a “Pomegranate”. Giovanni, il nostro tastierista, ama molto il lato visivo oltre che musicale di un nuovo concept e quindi ci siamo immersi nella natura selvaggia dei nostri Appennini per evocare i 4 elementi alchemici presenti nell’album tra fiumi, pareti rocciose, laghi, cascate e boschi. Ogni elemento che vediamo “fuori di noi” è anche dentro di noi, quindi frequenze sonore e frequenze cromatiche si mescolano per portarci ad aprire “portali” che ci permettono di cominciare e proseguire il viaggio. Questi sono i link dei primi due video, “Nevenhir”

e “Hlara Aralh”

Inoltre questo album esce in numerosi formati (due formati in vinile, due formati in CD) ed ognuno ha un proprio ricco booklet di immagini e scritti ed il vinile include anche un vero e proprio artbook 30×30 realizzato in collaborazione con Insetti Xilografi (visita la pagina instagram di insetti_xilografi) e Nicolas Ramain (il nostro grafico) che contiene numerose opere pittoriche ognuna a tema con un brano e gli scritti poetici di Francesca che hanno ispirato poi i testi ed il concept. Questo book è una piccola opera d’arte. Quindi siamo ancora pienamente immersi in questa atmosfera ed è un po’ prematuro gettare il seme per un nuovo concept album poiché è necessario fare un po’ di spazio come tra un respiro ed un altro, una stagione ed un’altra, una nota e la seguente. Siamo inoltre impegnati nella realizzazione di un brano esclusivo per una serie di un amico americano, The Sorrow, e Francesca ha cantato due brani del prossimo album di Autumn Tears sempre in uscita per The Circle Music nella primavera 2023. Ad ogni modo qualche suggestione è già presente, vediamo come si modulerà nei mesi e nel tempo a venire. Come diciamo spesso, ogni cosa è già scritta dobbiamo solo portarla sul piano della materia “condensando” ciò che per ora è sul piano energetico e sottile.


The Black Veils – Carneficina sonora

“Carnage” (Icy Cold Records / Audioglobe / Metaversus Pr) è il titolo scelto dai The Black Veils per il proprio terzo disco, un concept album che, muovendosi tra citazioni cinematografiche, si propone come ideale colonna sonora di questi strani anni di pandemia.

Ciao ragazzi, da qualche mese è fuori il vostro terzo lavoro, “Carnage”, vi andrebbe di fare un primo bilancio?
Gregor: Nella carneficina psicofisica e morale che hanno rappresentato gli ultimi due anni, direi che a uscirne fuori meglio forse è stato proprio il nostro album. Siamo sicuramente entusiasti dell’accoglienza che ha ricevuto, nonostante i concerti siano stati ridotti all’osso.
Mario: Bilancio positivo sia numerico (streaming digitali, vendite cd e vinili) sia di accoglienza: il disco precedente è uscito nel 2017, quindi si è venuta a creare un po’ di attesa che ci ha aiutati nel lancio di “Carnage. Per poter cavalcare quest’onda abbiamo concordato con la nostra etichetta di base francese, Icy Cold Records, di anticipare l’uscita del disco con il rilascio di alcuni singoli e i loro remix (prodotti da Geometric Vision, Hapax, The Foreign Resort) come b-side.

“Carnage” è il vostro terzo disco, quello che nella tradizione rock viene visto come il  più importante nel percorso di crescita di una band: credete di esservi giocati al meglio le vostre carte in vista di questo traguardo simbolico?
Gregor: Non c’è stata alcuna strategia se non quella di assecondare una certa sinergia, la volontà di convogliare le nostre energie, la nostra rabbia, il nostro spaesamento in un lavoro che è più degli altri album corale, partecipato.
Mario: “Carnage” è un disco decisamente diverso dai precedenti (“Blossom” e “Dealing With Demons”) per molti motivi: è il primo disco con il nostro batterista Leonardo, è il primo disco in cui le fasi di registrazione, mixaggio e mastering sono state distribuite su diversi professionisti del settore, è il primo nostro disco prodotto cercando di restituire l’impatto che possiamo avere suonando dal vivo su un palco. In definitiva sono personalmente soddisfatto del risultato ottenuto.
Leonardo: Fermo restando che non c’è mai un limite quando si parla di “giocare al meglio le carte”, credo in tutta onestà che “Carnage” sia un disco validissimo, di cui andiamo molto fieri, non per motivi di ego, ma per ragioni più profonde. Contiene una maturità nel linguaggio e nelle intenzioni che bastano perché possa affermarsi tra i precedenti. Con l’aggiunta delle batterie, la band, in quest’ultimo lavoro, penso possa affacciarsi ad un pubblico più variegato rispetto a “Blossom” e “Dealing With Demons”. Il sound nell’insieme presenta la band come qualcosa di crudo e feroce, ma ascoltando singolarmente i brani si possono notare molte più sfumature, come barocchismi vari, note vocali più romantiche, intenzioni meno cruente (nel caso di “Phantom Limb Syndrome” o “LamourLamort”) che si contrappongono a veri e propri scenari da guerriglia urbana (vedi “Hyenas”). Non so se si può considerare un traguardo, ma sicuramente un buon punto di partenza.
Filippo : Mi faceva decisamente paura questo terzo disco, lo ammetto. Sentivo la necessità di qualcosa di diverso, senza ovviamente snaturare ciò che siamo, ma il timore era che gli altri avessero idee inconciliabili con le mie. In realtà è venuto tutto in modo naturalissimo. In questo, ritengo, sia stato fondamentale l’apporto di Leonardo, in termini di concetti e di messa in atto. Da bassista, avere nella band un batterista (che pesta anche in modo considerevole) influenza e non poco la dinamica e l’intensità del suono. Non so poi se ci siamo giocati bene le nostre carte, di certo dalle differenze tra i vari brani viene fuori il nostro essere totalmente bipolar, eheh

“Carnage” è un titolo forte, me lo spiegate? 
Gregor: So solo che era l’unico titolo possibile, l’unico che rispecchiasse in una sola parola il concept del disco. È un album che parla di vittime e carnefici, del percepirsi e raccontarsi vittime ma dell’essere al contempo carnefici e viceversa. È il gioco al massacro delle relazioni e della cosiddetta società civile.
Filippo: E poi ci piace tanto Roman Polanski, era giusto omaggiarlo, eheh

Il disco è anche ammantato da una vena di black humor: dato il tema importante del disco, non temete di essere fraintesi in alcuni passaggi?
Gregor: Sono convinto che l’ironia e il dissacramento dei temi importanti non debbano essere temuti, ma accolti come la conferma dell’importanza degli stessi. Ogni grande dramma della Storia dell’uomo è stato vittima di un ridimensionamento comico o parodico: in questo caso non si tratta nemmeno di parodiare, ma di essere ancora più ferali, di cantare frustrazioni e turbamenti sociali e intimi davvero terribili prendendoli dannatamente sul serio, perché non c’è niente di più serio dell’ironia. In qualche modo è come se si danzasse sulla propria tomba. E a guardare la società che abbiamo costruito mi pare sia la cosa più seria da fare. Forse l’unica.

Il disco è stato scritto prima del lockdown, però la copertina in qualche modo mi sembra influenzata da quel periodo di cattività casalinga. Vedere quella abitazione sospesa nell’aria, così simile a una prigione…
Gregor: Eppure la copertina è stata ultimata da YURI (@mynameisyuri) nel dicembre 2019. Al massimo è un presagio! O forse ha portato semplicemente sfiga. Chiediamolo a lui!
Mario: La casa, le mura domestiche, la propria abitazione ha ora più che mai, una doppia valenza: da un lato un luogo conosciuto, familiare, confortevole e sicuro, dall’altro un luogo (letteralmente e allegoricamente) in cui restare imprigionati. Nel nostro concept la casa entra a far parte di quel senso del doppio ruolo che permea l’intero disco (vittima e carnefice, iene e conigli…).

Mentre il sound, al contrario, sembra muoversi nella direzione opposta, fatto per non essere ascoltato in casa ma su un palco… 
Gregor: Esatto. Abbiamo voluto restituire il nostro sound “live” senza fronzoli e senza orpelli di sorta, mantenendo volutamente intatte anche piccole imperfezioni. 
Mario: Come anticipavo è stata una scelta di impatto. Ci piace vedere il nostro pubblico ballare e divertirsi sotto il palco e ci piace immaginare che lo possano fare anche a casa, al mare, a lavoro, ascoltando “Carnage”.

In questo senso, avete già testato la resa live dell’album?
Gregor: Ancora troppo poco per i nostri gusti, date le chiusure varie ed eventuali. Ma il primo concerto al Covo dopo due anni davvero provanti, nella nostra città, Bologna, è stato memorabile. Almeno per noi.
Mario: Il momento storico è molto delicato un po’ per tutte le parti: da un lato locali, club, sale da concerto, con i loro format e organizzatori, dall’altro lato ci sono gli artisti, le band, i performer. La situazione sta ripartendo, seppur lentamente, ma bisogna ritrovare la fiducia di ricominciare!

“Carnage” è un disco fortemente “cinematografico” ricco di citazioni alla settima arte, vi andrebbe di ricapitolarne almeno quelle consce? 
Gregor: Sicuramente ci sono Bette Davis e Joan Crawford in “Lamourlamort”. E poi c’è Gian Maria Volonté in “This Is Going to Hurt”, citato un po’ a caso, ma mai a caso. Poi ci sono tante immagini e piccole citazioni che assorbo anche mio malgrado.
Filippo: Se posso, mi piace ribadire come anche nei dischi precedenti ci fossero diversi riferimenti cinematografici. Basti pensare al titolo di un brano, ”The Wicker Man”, tratto da “Dealing With Demons”. Il rimando all’omonimo capolavoro folk-horror di Robin Hardy è evidente, E badate bene, non è sfoggio gratuito o cosa! Siamo consumatori assidui di film e libri. Altro che sesso, droga e rock’n’roll.

Come detto, il disco, anche se è uscito lo scorso novembre, è pronto già da un po’ di tempo: non è che per caso avete già del nuovo materiale per il prossimo album?
Gregor: La questione è tanto tragica quanto semplice: durante la nuova ondata di contagi e l’ennesima chiusura dei club si trattava o di deprimersi mangiando chili di gelato davanti alla TV (che comunque, ci tengo a precisarlo, resta per me pratica nobilissima) o di cavalcare un po’ della carica, dell’energia e della sinergia che, fortunatamente, unisce tutti e quattro noi. Quindi, sì: siamo al lavoro su altri brani. Ma ce la stiamo prendendo molto comoda, perché l’intento è principalmente quello di tornare a suonare “Carnage” dal vivo. Che è stato il nostro intento fin dal principio. 
Mario: “Carnage” è per noi molto divertente da suonare e portare in giro su e giù dai palchi. Stiamo fremendo nel confermare le prossime date del tour promozionale e non vediamo l’ora di riprendere i live a pieno regime.
Filippo: Come ribadito dai ragazzi, al momento siamo concentratissimi sull’organizzazione del tour promozionale di “Carnage”. Fremiamo per tornare a suonare. Detto ciò, conoscendo i soggetti in questione da anni, sono sicuro che Greg abbia già scritto una quarantina di testi e Mario ha già composto, mixato e masterizzato i prossimi tre dischi! Sono dei vulcani attivi in continuo fermento.

Dana Plato – Citazioni sbagliate

Buona la prima per i Dana Plato! Il terzetto, che sbaglierà pure le citazioni, sa come si fa un buon disco, come dimostra “Wrong Quotes” (Metaversus Pr).

Ciao Fixx, da poco è uscito il vostro album di debutto, “Wrong Quotes”, prima di addentrarci nei dettagli del disco, ti andrebbe di ripercorre le tappe che hanno portato a questa uscita?
Il seme di “Wrong Quotes” viene piantato nel 2020, in pieno lockdown pandemico, quando Alessandro Calzavara sta registrando “Lie/Ability”, il suo 20° disco col moniker Humpty Dumpty. Per una serie di circostanze, tanto fortuite quanto (oggi possiamo dirlo) fortunate, conosce me, Gianluca Ficca, che nel disco sono Fixx, e Giovanni Mastrangelo, in arte Monster Joe, e gli si affida per la genesi, rispettivamente, dei testi in inglese e delle linee di basso/contrabbasso. Quella collaborazione si rivela così fruttifera e piacevole che l’evoluzione naturale, l’estate successiva, è partorire il progetto Dana Plato e registrare un disco a “tre teste e sei mani”.

Il disco come è nato?
In estrema sintesi, diciamo che per ogni traccia il metodo è consistito nell’integrare suggestioni ad uno spunto iniziale di uno di noi, quasi sempre Alessandro (che è musicista prolifico e con straordinari momenti di vera e propria frenesia compositiva), con Giovanni a fornire tutte le tracce di basso e contrabbasso e Gianluca a proporre, oltre ai testi, ulteriori linee chitarristiche e vocali. Queste integrazioni avvenivano nel chiuso dei nostri piccoli “home studios”, mandando le tracce avanti e indietro e trovandole di volta in volta trasformate da idee aggiunte molto liberamente e senza autolimitarsi. In altri termini, un metodo di lavoro “per addizione”.

Quanto è vicino “Wrong Quotes” al risultato che avevate in mente quando avete iniziato a lavorarci su?
In realtà, non avevamo in partenza alcuna idea prefissata. La forma delle singole tracce si è appunto delineata man mano che ci si allontanava dagli spunti di partenza. Tuttavia siamo fiduciosi sul fatto che il risultato finale, nonostante la deliberata varietà delle ispirazioni e la scelta di non sacrificarne alcuna sull’altare dell’omogeneità stilistica, appaia comunque abbastanza unitario. Quello che con certezza possiamo dire è che si tratta di un esito di cui siamo contentissimi e da cui ci sentiamo, tutti e tre, assolutamente rispecchiati.

Cosa sono le citazioni sbagliate richiamate nel titolo?
Nella title-track c’è un verso che dice “Datemi il fascino della star cinematografica che riesce a sintetizzare il senso della vita in uno sguardo figo e in una battuta di meno di 50 caratteri”. Ecco, noi non riusciremmo mai a essere così, faremmo o diremmo sempre qualcosa fuori luogo. Sbaglieremmo sempre qualche citazione. Le citazioni sbagliate indicano metaforicamente il sentirsi – anche con un certo orgoglio identitario – più o meno eccentrici e inadeguati in qualsiasi contesto.

Rimanendo in ambito di citazioni, ritenete che il vostro sound in qualche modo “cita” altre band e, se sì, quali sono queste influenze?
E’ inevitabile. Tutti e tre ascoltiamo da sempre, e amiamo, moltissima musica, dei generi più vari. Sarebbe impossibile che questi ascolti non venissero fuori, sebbene non ci sia alcuna esplicita intenzionalità, in questo. Forse le influenze che emergono di più sono quelle che maggiormente condividiamo (il post-punk a cavallo tra anni ’70 e ’80, le varie manifestazioni della psichedelia, le suggestioni elettroniche di Bowie e certo avant-pop), ma le anime presenti nel disco sono tantissime e la speranza è che si si siano combinate armonicamente.

Al di là delle vostre influenze, secondo te qual è l’aspetto che maggiormente vi caratterizza come band?
Se parliamo della nostra esperienza soggettiva, esiste tra di noi una profonda amicizia, stima e sintonia di gusti. Un clima umano così caldo in un gruppo è realmente difficile da trovare. Giacché ciò che gli altri propongono è per ciascuno di noi quasi sempre fonte di uno stupore ammirato, il risultato concreto è quel metodo “per addizione” che ti descrivevamo prima e che fa sì che molti dei brani siano caratterizzati da numerosi – come potremmo definirli? – “strati sonori”. Alcuni esempi nel disco sono “Little Genius”, “Majesty”, interamente strumentale, la stessa “Wrong Quotes”. Ci piace immaginare che chi ascolti i brani la prima volta ne venga tanto incuriosito da risentirli e possa individuarvi, di volta in volta, gli elementi che vi si sovrappongono e interagiscono reciprocamente.

Sicuramente una cosa particolare è l’aver fatto ricorso a più voci nel disco: come è nata questa decisione?
La composizione della linea vocale diverte molto sia Humpty che me, per cui nel “palleggiarci” le tracce è risultato abbastanza naturale far cantare il brano a quello dei due che l’avesse proposta all’inizio. Ne è nata una varietà di registri che ci è parsa arricchente, ed a quel punto abbiamo pensato di invitare come “special guest”, in “Nothing Left But Speak” e “ Strained”, due cantanti che sono anche persone a noi assai care, rispettivamente Mary Grace degli Eau de Jazz e Gregorsamsaéstmort dei Black Veils.

Avete optato per un’auto-produzione, oggi non è più necessario avere un’etichetta alle spalle?
Sul piano creativo e della mera realizzazione di un disco, evidentemente no. Anche su quello della produzione, crediamo convinti alla spontaneità dell’ispirazione e alla forza comunicativa di una buona idea, indipendente dal suo successivo “confezionamento” (peraltro capiamo benissimo che altri musicisti possano non condividere questa attitudine e ritengano necessaria la maggiore attenzione produttiva assicurata da un’etichetta classica). L’ambito in cui ovviamente l’autoproduzione è penalizzante è quello distributivo, in cui ci si deve affidare alle sole piattaforme di streaming e a una pubblicizzazione/vendita “porta a porta”. Per noi si tratta, com’è ovvio, di un problema assai relativo. Un piccolo manipolo di ascoltatori affezionati che apprezzano quello che abbiamo fatto è di per sé una bella gratificazione. Ad ogni modo, l’autoproduzione è un percorso sempre più diffuso. La label Sub-Terra, che compare nel nostro cd, rappresenta la casa simbolica di alcuni musicisti (La Guerra delle Formiche, ad esempio, lo stesso Humpty) che da tempo portano avanti questa scelta, spesso con risultati tutt’altro che disprezzabili.

Prossime mosse dal vivo?
Dana Plato è un progetto che non prevede attività live, almeno per ora. Viviamo in città diverse, sarebbe pressoché impossibile provare. D’altra parte, quando capita di trascorrere del tempo insieme, c’è un clima di tale armonia e piacere che la tentazione sarebbe forte.

Arctic Plateau – Songs of shame

La vergogna come propellente, come detonatore per la creatività. Gli Arctic Plateau di Gianluca Divirgilio, partendo da questo sentimento, hanno scritto un album, “Songs of Shame” (Shunu Records / Metaversus Pr), dal fascino introspettivo, capace di catturare l’ascoltatore in un vortice nero sin dal primo ascolto…

Benvenuto Gianluca, “Songs of Shame”, il nome del tuo nuovo album, è sicuramente un titolo forte. Quando parli di vergogna ti riferisci a un sentimento personale o generale, magari una sorta di vergogna collettiva della società odierna?
Ciao ai ragazzi de Il Raglio del Mulo e a tutti i lettori; per indole personale e non amando i ruoli di primo piano, nella vita mi sono spesso ritrovato a schierarmi dalla parte delle marginalizzazioni, cercando di essere diretto e meno diplomatico possibile. Nelle mie canzoni cerco di raccontare esperienze dirette anche se la tavolozza dei sentimenti umani è così vasta che credo che ognuno si sia trovato prima o poi a scontrarsi emotivamente con i disagi suscitati dagli stati della propria coscienza, in relazione alle innumerevoli contraddizioni che contraddistinguono l’era che stiamo vivendo. Contraddizioni che spesso rischiano di trasformarsi in convenzioni negative. Una delle armi di manipolazione di massa maggiormente utilizzate dal medioevo ai giorni nostri è quella della vergogna; una convenzione ormai così forte che può ancora rappresentare un modo per controllare, espiare, reindirizzare il pensiero di interi strati sociali. Crescendo infatti in un sistema in cui “ti dovresti vergognare”, dai la possibilità alla tua mente di creare una scissione all’interno di te stesso. un veicolo di inibizione di cui nessuno però sembra preoccuparsi troppo. Penso ora ai ruoli e ai meriti che la scuola, la chiesa, o la famiglia stessa non sono stati in grado di attribuire al singolo; incoerenze sulle quali un giovane più che mai si interroga, sempre, puntualmente, di generazione in generazione. Se una società evita puntualmente di porsi delle domande non potrà mai dare neanche delle risposte. Ci tengo a precisare comunque, al di là del lato filosofico e personale che l’album “Songs of Shame”, a differenza dei precedenti miei album, non è un concept e che tali miei pensieri si riferiscono esclusivamente al singolo che porta il nome dell’album.

Come è possibile tirar fuori da quello che uno dei sentimenti più intimi, che per definizione si tende a mantenere privato, un’opera che invece per sua natura è destinata a diventare pubblica?
Parlandone. Quando scrivo di certi argomenti cerco di andare talmente a fondo che il significato delle cose, anche il più doloroso, assurga a connotato artistico tale da sublimarne gli aspetti più drammatici. Questo mi aiuta a scrivere di cose anche molto dure prendendo la giusta distanza. Scrivere in questo modo credo sia rispettoso nei confronti della vita, che di suo ti restituisce tutto. Qualche giorno fa un ragazzo dell’Est Europeo mi ringraziava per la musica che scrivo, come se io l’avessi commissionata per lui, come una colonna sonora della sua intera vita. Quando succedono queste cose il tuo lavoro diventa un dato impagabile ed è in sostanza la vera e propria ricompensa, il vero carburante per questo mestiere, non certo il denaro o la vendita, fine a se stessa.

Dovendo mettere sui due piatti della bilancia il dolore della vergogna e il sollievo della confessione pubblica, oggi, a qualche mese dalla pubblicazione di “Songs of Shame” l’ago da che parte pende?
Sento di avere ancora tanto da dire, non ho bisogno di confessare niente della mia vita per sentirmi libero; dolore e sollievo sono facce della stessa medaglia. A volte provo imbarazzo per l’arrivismo che vedo attorno a me nel mondo della musica, non soltanto nel mainstream. Provo sempre molto dispiacere per chi sostiene di fare arte ma farebbe carte false per firmare un contratto discografico con questa o quell’altra label perché spesso alla base di certe prerogative non c’è neanche la conoscenza dello stato delle cose. La morte della Musica non è stato l’avvento del digitale ma l’involuzione creata dall’ esibizionismo del costume, dove è più importante la marca del contenuto, dove si confonde il fine con il mezzo. Di questo ed altro ci si potrebbe tranquillamente “vergognare”, senza temere alcuna controindicazione.

Il disco, nella sua oscurità, è un compendio di vari generi, il post-punk, la new wawe e una certa tradizione più intimistica che fa riferimento ai grandi poeti del rock. Di volta in volta come hai capito quale fosse il suono più adatto per ogni singolo passaggio della tua espiazione musicale?
“Songs of Shame” è il primo album di Arctic Plateau in cui oltre ad essere autore dei testi e compositore delle musiche ricopro anche il ruolo di produttore. Da questo punto di vista è stato molto semplice per me rapportarmi a quel tipo di linguaggio perché il genere di dischi che hai citato mi hanno accompagnato sin da quando ero bambino. Avevo in mente questo suono già dalle pre produzioni quindi tutto è andato definendosi in modo molto naturale nel mio studio mentre realizzavo i missaggi dell’intera produzione. In particolar modo ho amato prendermela piuttosto comoda nel realizzare i bilanciamenti e gli spazi sonori senza avere la preoccupazione del calcolo sul tempo investito in studio, che era invece il dato che mi aveva infastidito di più per le precedenti sessioni di missaggio dei vecchi dischi. Questa libertà di produrre e modellare il suono che ho nella testa e soprattutto il poterlo fare liberamente ad ogni ora del giorno o della notte in uno studio di mia proprietà, mi rendono particolarmente felice e creativo e pur non essendo un fan di quei progetti musicali che sfornano un disco all’anno, mi aiutano a stare al passo con i tempi sull’ampliamento del repertorio discografico di Arctic Plateau. Tecnicamente a livello compositivo per questo album ho cercato di inserire elementi del post rock nella forma canzone o se vuoi puoi vedere questa sorta di “formula” viceversa. Volevo realizzare un disco di canzoni senza un fil rouge; uno dei ricordi più belli è di quando ho scritto il tema centrale di “Venezia” con una chitarra classica un pomeriggio di primavera di tanti anni fa mentre alloggiavo dalle parti del sestiere di Cannaregio… indimenticabile.

All’interno di questo tuo autodafé, questo tuo mettere in piazza i tuoi sentimenti, come si inseriscono gli altri musicisti coinvolti negli Arctic Plateau? Che ruolo hanno avuto?
Molti di loro appaiono nei miei dischi sin dagli esordi. Fabio Fraschini suona come turnista in studio con il sottoscritto sin dal 2006 e tutti sono amici miei oltre ad essere ottimi professionisti del settore. Per quanto mi riguarda sono abbastanza diretto, conosco bene e considero importanti le conflittualità che si trovano alla base della natura umana così come conosco i miei limiti, per cui non riesco ad interagire in studio e nei live con persone che non stimo a livello umano; al di là del lato tecnico sullo strumento quindi ho necessità di instaurare da subito un rapporto umano autentico con i turnisti che mi seguono, a partire dalla sala prove. Per questo e altro non è una cosa semplice per me suonare con altri che non siano loro.

Ti andrebbe di presentarli?
Oltre al già citato Fabio Fraschini che non ha certo bisogno di presentazioni c’è Massimiliano Chiapperi alla batteria, che considero un fenomeno. Molto metodico, molto preparato tecnicamente; affidare le parti di batteria in studio a lui significa avere un valore aggiunto sul suono finale. Live è preciso e puntuale. Simpatico, mai avido e molto estroso nella vita reale. Carlo Di Tore Tosti alla chitarra è un nuovo ingresso; nasce come bassista nel 2012 (suona il basso elettrico nel brano “The Bat”) e cresce come chitarrista in Arctic Plateau nel 2021. Carlo mette tutto se stesso nel progetto ed è il mio braccio destro sul palco. Nell’album “Songs of Shame” la metà delle chitarre sono state suonate in studio da Dario Vero, compositore moderno di grande talento e confidente con il quale in passato mi sono intrattenuto in piacevoli chiacchierate a base di musica classica. Ci terrei poi a precisare il ruolo di Andrea Sperduti dell’agenzia Area Design Agency di Roma che è il regista dei video dei singoli (“Song of Shame” e “Chlorine”) che accompagnano l’album e che ritengo sia un vero e proprio elemento di estensione del progetto Arctic Plateau perché in grado di trasformare le mie visioni in idee vere e proprie. Andrea, che è oltretutto il batterista dei Modern Stars, band Italiana che adoro (http://themodernstars.com/) ha creduto nelle mie idee sin da subito ed ha saputo interpretarle con generosa passione, dedizione ed intenzione.

Sinora abbiamo parlato di vergogna, ma vorrei ribaltare le cose chiedendoti: cosa ti rende orgoglioso?
La dignità nell’essere riuscito a crescere pur in mezzo a tante, spesso troppe difficoltà, senza provare più alcun sentimento di vergogna per le ingiustizie che ho dovuto affrontare durante il mio percorso artistico.

Siete riusciti a portare dal vivo “Songs of Shame”?
Il disco è stato presentato il 3 Dicembre 2021 a Roma e pur con le dovute limitazioni del covid il pubblico ha accolto molto bene questo terzo album in una location intima ed accogliente.

Avete delle date in programma o preferite aspettare tempi migliori?
Arctic Plateau nasce come progetto in studio; ogni data live è da prendere al volo….