Damnation Gallery – Enter the fog

La nebbia ha sempre suscitato grandi e contrastanti emozioni nell’uomo: curiosità, paura, senso di isolamento e straniamento. Con “Enter the Fog” (Black Tears Label) i Damnation Gallery hanno sfruttato questo archetipo per descrivere situazioni di abbandono, dolore e senso di perdizione, senza però dimenticare che in fondo alla “galleria” c’è una possibilità di rinascita e redenzione anche per i dannati.

Benvenuti, con “Enter the Fog” avete realizzato il vostro terzo disco, risultato che ha sempre un valore simbolico. Rispetto all’idea di band che avevate al momento della nascita dei Damnation Gallery, “Enter the Fog” quanto è vicino a quello che desideravate in qui primi giorni?
Lord of Plague: Ogni album ha un suo significato e soprattutto i pezzi sono composti in maniera diversa, a seconda dei sentimenti e del periodo che stiamo vivendo in quel momento. Cerchiamo di sentire come un pezzo possa esprimere al meglio noi stessi e diventare nostro a tutti gli effetti, senza dargli per forza una direzione per seguire un genere. Possiamo dire che noi cresciamo insieme alla nostra musica.

Siete partiti con un’idea di sound che comprendesse al proprio interno più genere, direi che dall’ascolto dell’album questo appare evidente. Non temete, però, che il non potervi catalogare in modo netto e preciso in una nicchia possa essere controproducente presso un’audience sempre più chiusa nelle proprio segmento stilistico di ascolti?
Low: Sinceramente siamo consci di un rischio di questo tipo ma non crediamo che possa accadere, sarebbe come sottovalutare chi ci ascolta e non ci permetteremmo mai. La realtà è che ognuno di noi ha tantissime influenze musicali diverse e, dato che tutti partecipiamo attivamente alla composizione in maniera molto democratica, senza che nessuno tenti di impuntarsi e far prevalere il proprio stile, non facciamo altro che assemblare tutti i nostri gusti fino a trovare un buon lavoro che soddisfi tutti. Inoltre, suonare sempre la stessa cosa alla lunga diventa noioso, non trovi?
Scarlet: Aggiungo che quando componiamo non cerchiamo soltanto un equilibrio tra i nostri gusti e influenze, ma anche tra i nostri sentimenti e mood del momento. E’ un modo di fare musica e contemporaneamente conoscerci nel nostro profondo e crescere insieme oltre che come band anche come persone. È come imparare costantemente gli uni dagli altri. La nostra miglior soddisfazione e anche il nostro obiettivo è che chi ci ascolta non senta “ soltanto” musica o un genere musicale, ma anche tutto ciò che siamo e che cerchiamo di esprimere di noi.

Altra scelta cardine è stata quella di interessarvi a tematiche horror. Alla luce degli ultimi anni, che hanno stravolto la vita di tutti, come è cambiato la vostra percezione dell’orrore e come questi fatti hanno influito sulla band?
Lord of Plague: Spesso e volentieri le tematiche horror vedono protagonisti demoni, possessioni, morte, sangue, ecc… però per quanto ci riguarda basta semplicemente guardare dentro noi stessi per trovare ansia, paranoia, malattia, cattiveria e tutti i sentimenti negativi che fanno parte di ogni essere umano. Sentimenti che si annidano, vengono covati e infine si schiudono anche per i più insignificanti motivi. E quando si arriva a quel punto, quando si sente che qualcosa è cambiato, si fa fatica a riconoscersi in quello che ai nostri occhi è diventato un mostro.
Scarlet: Questo è ciò che noi intendiamo con il vero “orrore”. Abbiamo voluto metterlo nella nostra musica cercando di farne qualcosa di costruttivo, accettando anche quella parte di noi che è socialmente sbagliata e di cui nessuno parla mai.

E’ arrivato il momento di addentrarci nella nebbia, quando e come è nato il disco?
Low: “Enter the Fog” ha iniziato a prendere forma una volta finito il periodo del lockdown, appena abbiamo potuto ricominciare a vederci con regolarità. Questo perchè noi come band componiamo in sala prove in diretta e non ci è mai piaciuta l’idea di essere un gruppo che compone “ via mail”… non fa proprio per noi. Sicuramente il fatto che sia nato dopo uno stop forzato lo ha portato a essere un lavoro più diretto dei precedenti perchè c’era molta voglia di ripartire e di creare qualcosa senza troppi “ fronzoli”. Dobbiamo segnalare che dopo le registrazioni Lord Edgard ha lasciato la band a causa di insanabili divergenze sia personali che stilistiche, ovviamente condivise da tutti noi. Essere rimasti in quattro ci ha resi ancora più forti, uniti e compatti come non mai.

Qual è il brano che, secondo voi, è maggiormente rappresentativo dell’opera?
Low: Citerei due brani, il primo è “Fog” perché rappresenta il nostro lato più anthemico e “accessibile”, mentre il secondo è “Old Cemetry” che rappresenta invece il nostro aspetto più oscuro e malefico.

Mentre, qual è quello in cui avete osato di più?
Scarlet: Direi assolutamente “Erased”. E’ una ballad, uno stile molto lontano dalle nostre influenze che abbiamo tentato per la prima volta in questo brano. E’ un pezzo che ha per me un significato molto profondo, è un’ accettazione di un periodo molto brutto che ho vissuto e che dovevo “urlare lentamente”. Devo dire che che gli altri hanno perfettamente colto quell’espressione, creando insieme un brano di cui personalmente vado molto fiera.

Nelle note promozionali viene ribadito che questo disco non è un concept, ma mi pare di capire che comunque ci sia un filo che lega tutti i brani, è così?
Scarlet: Sì, esatto! Non è una cosa che costruiamo a tavolino o ricerchiamo a tutti i costi, però in tutti i nostri album, incluso ovviamente “Enter the Fog”, abbiamo notato che c’ è sempre un filo conduttore che lega i brani e la nostra espressione e ne abbiamo fatto un tratto distintivo. In “Black Stains” abbiamo dato risalto al tema del dualismo dell’essere umano, secondo il nostro significato di horror di cui abbiamo parlato prima; in “Broken Time” il tema ricorrente era l’incubo, il sogno come catalizzatore delle nostre paure e nel nostro ultimo lavoro invece parliamo di abbandono, del dolore e del senso di perdizione che ne consegue ma che porta poi a una lenta rinascita che ci trasforma in qualcosa di diverso, non necessariamente migliore ma sicuramente più forte.

Per la copertina avete deciso utilizzare un’immagine molto scarna, quasi old school, in controtendenza rispetto a quelle iper-patinate che vanno per la maggiore ora: come mai?
Low: Proprio a proposito di ciò che dici nella tua domanda, ho notato che ultimamente si guarda solo il “pacchetto”, la produzione iper-patinata e pompata e così via… Invece, occupandomi io degli artwork della band, noi abbiamo cercato di andare in direzione opposta andando a parare su una copertina volutamente scarna e old school, a suo modo un omaggio ai lavori estremi dei primi anni 90, quando una cosa apparentemente semplice e handmade odorava seriamente di male. Come in tutti i lavori precedenti, anche qui la copertina e il booklet hanno molte simbologie e riferimenti nascosti, ma quelli lasciamo che vengano notati solo dai più attenti.

Avete programmato delle date a supporto del disco?
Lord of Plague: Abbiamo fatto il nostro concerto di release di Enter the Fog a Genova, all’ Angelo Azzurro. Saremo a Imperia, al Babilonia, il 14 di gennaio e stiamo lavorando per altre date in giro per l’Italia che verranno via via comunicate sui nostri canali. Vi ricordiamo che potete trovarci, seguirci e ricevere informazioni e aggiornamenti su Facebook, Instagram, Youtube, Bandcamp, dove potete trovare il disco e tutto il nostro merch!

Athlantis – The seventh wonder

L’avventura degli Athlantis di Steve Vawamas pare giunta al termine con il settimo sigillo, quel “Last But Not Least” da poco pubblicato dalla Diamond Prod. (Nadir Promotion). In attesa di scoprire se Atlantide sorgerà nuovamente dalle acque tra qualche anno, abbiamo discusso del disco d’addio con il leader della band.

Ciao Steve, possiamo definire gli Athlantis una sorta di all star band dell’heavy\power metal tricolore?
Ciao Giuseppe, prima di tutto grazie per avermi concesso questa intervista. Inizio con il dire che le all star band del panorama tricolore sono altre, noi siamo dei musicisti che nei vari progetti abbiamo dato anima e note per questo tipo di musica e abbiamo cercato sempre di dare il meglio in primis per noi stessi e poi per gli altri. Athlantis nasce come un mio side project e ho avuto la fortuna di condividere le mie idee con degli ottimi musicisti della scena italiana, ma più che altro degli amici che si sono offerti per la realizzazione dei miei sette album. E poi forse se dovessimo essere delle all star non sta me a dirlo ma al pubblico che ci ascolta e ci segue

Ormai siete attivi come Athlantis da quasi due decenni, come si superano gli ego personali per operare come una vera e propria band, nonostante individualmente abbiate tutti una storia prestigiosa?
Due decenni? Caxxo passa il tempo! A parte gli scherzi, gli Athlantis come dicevo prima nascono come un mio side project, non esistono ego personali. Le cose sono ben chiare dall’inizio, io tiro giù le stesure dei pezzi, poi c’è una telefonata in cui dico ai ragazzi che c’è da registrare un disco e, dopo la risposta degli altri subito affermativa, si inizia a registrare. Sono del parere che la band deve essere composta da un leader e gli altri collaboratori, a volte le idee dei collaboratori sono meglio delle idee del leader, e sta al leader essere umile ed accettare dei consigli. Poi se i consigli vengono da gente di un certo calibro ecco che il lavoro viene più semplice e senza menate di balle.

Ti andrebbe presentare l’attuale line-up?
Grazie per la domanda, lo faccio con grande piacere. Per questa mia ultima creatura mi sono avvalso del mio fidato chitarrista Pier Gonella, con lui tutte le cose diventano più semplici. Io e lui collaboriamo anche nei Mastercastle da anni e ha suonato in quasi tutti i dischi degli Athlantis. Alla voce il mitico Davide Dell’Orto, già cantante dei Verde Lauro e dei Drakkar. Lo trovo un grandissimo cantante professionale sempre sul pezzo e, ormai dopo tre dischi, siamo diventati amici: questo va oltre la musica e ci piace! Alla batteria ho avuto il piacere di avere uno dei migliori batteristi della scena metal italiana, cioè Mattia Stancioiu. Un sogno che si è realizzato: dal primo momento che lo ascoltai in una data nei Labyrinth nel lontano 98 ho sempre sognato di registrare con lui e il mio sogno si è realizzato. Grande musicista e professionista, una goduria suonare il basso sulle sue parti di batteria. A completare la line-up, c’è Stefano Molinari alle tastiere, un amico e un grande musicista che è entrato nelle fila degli Athlantis ben tre dischi fa. Voglio citare anche Stefano Galleano, il capo dei Ruxt che come nel precedente disco mi ha scritto un pezzo della madonna: la nostra collaborazione va avanti da anni nel suo progetto e ancora ne vedremo e sentiremo delle belle.

A fronte delle modifiche nella formazioni intercorse in questi anni, qual è l’elemento che non è mai mancato nei sette album finora pubblicati?
Io…… ahahahahahaha!!! A parte un disco, che è “Metalmorphosis”, dove le chitarre sono state registrate da Tommy Talamanca, tutti gli altri sono stati registrati da Pier Gonella. Sì, sono cambiati i batteristi, i cantanti, ma Pier è sempre stato l’elemento fondamentale.

Qual è la vera novità stilistica introdotta con “Last But Not Least”?
M guarda grandi novità non ce ne sono. Come dico sempre in ogni intervista, io sono un amante del power metal e cerco di tenermi su quella linea, ma poi mi rendo conto che le mie idee sono libere da etichette. Nella stesura dei pezzi è presente una sorta di tirare giù emozioni del momento, dipende molto da come mi sento emotivamente in quel periodo: in questo disco mi è venuta voglia di tirare giù argomenti anche sociali, purtroppo questo disco l’ho tirato giù nel periodo di pandemia, e cioè nel primo lockdown, quindi ti lascio immaginare il mio stato d’animo. Ma sono molto soddisfatto del lavoro svolto.

Immagino che il titolo, “Last But Not Least”, abbia anche un contenuto ironico, ma dovendolo porre all’interno di una ipotetica classifica di importanza dei vostri dischi, in quale posizione si piazzerebbe?
Ora ti spiego in poche parole perché quel titolo: ho deciso che, come settimo disco questo, dovrebbe essere l’ultimo per gli Athlantis. Come le meraviglie del mondo sono 7, anche le meraviglie degli Athlantis devono essere 7 (presunzione mia ahahahaha)! Ho deciso di fermarmi e continuare con i progetti che ho in piedi – Ruxt, Mastercastle, Bellathrix – e altre cose. Quindi essendo l’ultimo Athlantis, ho pensato bene di intitolarlo così, l’ultimo ma non di importanza. Forse questo è il disco più importante, ho raggiunto una maturità come musicista e adesso anche come produttore, anche perché questo disco è stato registrato mixato e masterizzato presso il mio studio Steve Vawamas Studio.

L’inizio del disco mi ha ricordato la manopola che gira, cercando una stazione radio decente, dell’EP degli Helloween (1985): si tratta di un tributo oppure è una cosa nata spontaneamente senza alcun riferimento coi tedeschi?
Ahahahhahah, io sono un vecchio e quella radio che girava e poi partiva il gingle di “Happy Halloween mi ha segnato! L’ho vissuta e me la porto dentro come un cameo della storia del power. Mitici Helloween! Invece, per quanto mi riguarda, essendo l’ultimo disco Athlantis, volevo ripercorrere in pochi minuti i sei dischi precedenti. Come ben noti nella copertina, nei quadri sono rappresentate le sei copertine degli album passati. Quando si chiude un capitolo, si guarda sempre quello che si è fatto dietro, e io l’ho voluto rappresentare, oltre che nella copertina, anche in audio. E quale elemento se non la manopola della radio che girando trova uno stralcio di un pezzo di ogni disco? Comunque, gli Helloween inconsciamente mi hanno influenzato…

Dal punto di vista lirico, mi sembri molto concentrati sul presente, come hai accennato prima: credi che l’artista possa estraniarsi dall’ambiente in cui vive o abbia la responsabilità di dire cosa non va nella società?
Quando scrivo i testi, in prima battuta butto giù le mie sensazioni del momento. In primis quello che regna sovrano in tutti i miei dischi è il bene e il male, questo contrasto che mi perseguita sin dal primo disco. In questo l’ho voluto esprimere in fatti che accadono attualmente, ho voluto descrivere l’amore sia fisico che spirituale e ho voluto esprime il male: uno stupro, la violenza sulle donne e anche l’abbandono del tuo amico più fidato, il cane. Argomenti che quando li sento mi fanno rabbrividire. Ci tengo a specificare che la voce del cane è di Willy BAUamas e cioè il mio ciuffi truffi bau (il mio cagnolone) e colgo l’occasione di dire che se abbandoni un cane meriti una vita di stenti e grandi sofferenze. Scusa, ma questo dovevo dirlo! Sono per la libertà di espressione, uno può dire quello che vuole nei suoi pezzi. Se gli argomenti sono a livello culturale o livello sociale basta che dia un buon messaggio e aiuti certa gente a capire cosa bisogna fare e cosa non bisogna fare! I testi sono stati scritti anche dalla mia compagna, Marcy, e da Barbara Galleano. Liriche che sposo in pieno, sia come contenuti che come bellezza!

A proposito di cose che non vanno: alla luce delle attuali limitazioni, riuscirete a presentare il disco dal vivo?
Athlantis è un progetto che non è mai uscito dal vivo e penso mai lo farà. Comunque, questo per la scena live è un momento difficile e io auguro con tutto il cuore alle band che vogliono suonare di tornare ai live più di prima con gente sotto il palco che ti da carica e ti fa dire: caxxo ho fatto mille sacrifici e ne è valsa la pena… Caro Giuseppe, ora ti saluto e volevo ringraziarti ancora per la possibilità che mi hai dato di fare questa intervista. Voglio ringraziare Diamonds Prod che ha sempre creduto in me in questi ultimi anni, ringraziare i mie compagni di viaggio sopracitati e ringraziare te lettore che sei stai leggendo questo vuol dire che hai superato la pappardella di roba che ho detto senza addormentarti! A tutti dico: Stay Metal… anche questo è rock and roll!!!!

Julia and The Roofers – La volontà del male

Trasformare un momento di crisi in opportunità, il più delle volte è uno slogan motivazionale che lascia il tempo che trova. Invece, i Julia and The Roofers hanno messo in pratica il consiglio, pubblicando il proprio esordio “The Will of Evil” (Diamonds Prod.  \ Nadir Promotion), un concentrato di sonorità anni 90, proprio durante la pandemia. Ma chi sono i Julia and The Roofers? Oltre a Julia (voce e basso), nel terzetto troviamo anche Peso dei Necrodeath (batteria) e Ranza (chitarra e sitar). Ed è proprio ai primi due che abbiamo posto le nostre domande.

Ciao Julia, dato che il monicker del progetto mette in evidenza il tuo nome, direi di partire da te: ti andrebbe di presentarti ai nostri lettori, raccontandoci le tue precedenti esperienze in ambito musicale?
Julia: Ciao a tutti e grazie mille per averci offerto questo spazio. Ho iniziato a studiare canto verso i 13 anni. Il mio primo gruppo è stata una band tutta femminile dove provavamo a fare del punk rock senza tante pretese. Dopo qualche anno ho avuto la possibilità di entrare come voce solista in un tributo ai Led Zeppelin e sicuramente questo è stato il momento più formativo, sia a livello vocale che come performer. Finita questa esperienza ho provato un po’ di tutto spaziando tra gruppi prog, heavy metal ma anche reggae e funky, fino all’arrivo dei Julia and The Roofers.

Peso, tu non hai bisogno di presentazioni, sei un monumento del metal estremo italiano, non credi che là fuori potrebbe esserci qualcuno pronto a storcere il muso per il tuo coinvolgimento in un progetto dalle sonorità più leggere?
Grazie per il monumento, ma non credo proprio… sono semplicemente uno che suona da tanti anni, tutto qui. Storcere il naso? Bho, io faccio il batterista di lavoro e di solito suono cose che mi piacciono e di julia ho una grandissima stima perché la considero una fuoriclasse, per cui per me è un privilegio essere il batterista di questo progetto…

Peso, durante l’attività dei Necrodeath hai preso parte a dei progetti “one shot” come Mondocane o Raza de Odio, dobbiamo considerare anche i Julia and the Roofers un gruppo “a termine” o c’è da parte tua la volontà di portare avanti questa avventura?
Peso: Desidero veramente che questa nuova avventura possa andare avanti per tanto tempo e ma non tanto per me, ma per Julia. Spero che arrivi il successo che merita

Il terzo membro della band è Ranza, vi andrebbe di presentarlo?
Julia: Ranza è uno degli insegnanti di chitarra della Musicart… ha studi che provengono dal blues al jazz al rock e una vastissima cultura musicale. Quando siamo in acustico suona il sitar presente anche nell’intro di “Summer”. Durante la fase di composizione si è avvicinato piacevolmente anche alle sonorità grunge mantenendo sempre un tocco molto originale e offrendo un grande contributo alla rifinitura dei pezzi.

Julia, in passato hai fatto parte di una tribute band dei Led Zeppelin e gli stessi Julia and the Roofers nascono come cover band: ti chiederei un parere sulla diatriba cover band\band inedite, ma davvero le prime rubano il pane alle seconde?
Julia: Non saprei, sicuramente non posso sputare nel piatto dove ho mangiato per anni! Diciamo che a buona parte del pubblico attuale piace andare sul sicuro. L’idea dell’andare a sentire un gruppo nuovo spesso incute timore ma se vogliamo creare un ricambio musicale, è necessario lasciare a casa l’orecchio pigro e dare una chance anche alle nuove voci.

La pandemia ha portato al blocco dei concerti, voi siete stati bravi a tramutare in un’opportunità questa disgrazia, andando a comporre i brani compresi nell’album. A chi è venuta l’idea e come si è svolto il processo compositivo?
Julia: E’ stato un processo abbastanza naturale. Era da un po’ che contemplavamo l’idea di scrivere un qualcosa di nostro, ma la routine ci impediva di attivare a pieno il flusso creativo. Questo periodo di calma mi ha permesso così di racimolare le idee e di dedicarmi totalmente alla stesura dei pezzi. La particolarità del disco è che i primi arrangiamenti sono stati fatti quasi completamente a distanza. Probabilmente abbiamo perso un po’ della magia che si crea in sala prove ma tutto ciò ci ha permesso di arrivare in studio convinti del nostro materiale.

Non nascondete che l’influenza maggiore per voi sono state le band grunge e il movimento riot girrrl: cosa avete voluto catturare di quel periodo e cosa invece avete inserito di vostro?
Julia: Ho trovato molta affinità tra il mood dei 90 e il mio modo di approcciarmi alla musica, e in un certo senso, anche alla vita. Ho cercato così di unire le mie idee e i miei gusti a quel sound cupo e diretto, che si sposa perfettamente con l’argomento del disco, cercando però di crearne una variante più personale. L’esperienza e le influenze di Peso e Ranza hanno rifinito l’intero lavoro facendo da collante tra le varie idee.

Peso, da metallaro a metallaro, nei 90 veramente il grunge ha quasi ammazzato il metal? Io ritengo che in fin dei conti sia stato un Cavallo di Troia, molti sono partiti dai Nirvana per scoprire poi band più “cattive”.
Peso: Sono d’accordo con te! Poi ognuno ha le sue preferenze. Per me gli Slayer rimarranno sempre il mio gruppo preferito in assoluto. Ma band come Soundgarden e Alice in Chains mi sono sempre piaciute. Io in realtà ai miei tempi son partito dai Kiss, dagli Ac/Dc, dagli Iron Maiden, ma quando arrivarono i Venom fu veramente un’esplosione. Oggi comunque da ultra cinquantenne ascolto di tutto e ho imparato ad apprezzare la musica a 360 gradi…. Beh fatta qualche eccezione ehehehe

Il disco avrà una versione fisicai?
Al momento la versione fisica del disco è disponibile solo su CD.

L’ultima domanda è sulla copertina, un chiaro riferimento all’“Ophelia” di John Everett Millais: come si collega al mood dei brani e, in generale, a quello della band?
Julia: Ho scelto di raffigurare il suicidio di Ophelia in una chiave un po’ gotica e moderna in quanto la sua storia si sposa perfettamente con l’argomento di tutto il disco. Questa immagine assume così una doppia valenza: da un lato Ophelia, che impazzita dal dolore per le pressioni e le sofferenze inflittele da chi credeva essere il suo unico amore, si toglie la vita. Dall’altro la voglia di “uccidere” quella parte di sé che si è lasciata distruggere e manipolare per poter così ricominciare a testa alta una vita più consapevole.

Ruxt – Labyrinth of pain

Neanche la pandemia ha fermato i Ruxt: il gruppo genovese da quando è stato fondato ha rilasciato dischi al ritmo di quasi uno all’anno. Il 2020 è stato contrassegnato dall’uscita di “Labyrinth of Pain” (Diamonds Prod. \ Nadir Promotion), che propone la consueta qualità sonora e una ghiotta novità: il nuovo cantante K-Cool.

Benvenuto Stefano (Galleano, chitarra), immagino che tra le poche cose positive di questo 2020, per voi ci sia la consapevolezza di aver pubblicato un ottimo disco, “Labyrinth of Pain”. Come mai un titolo così oscuro?
Nei nostri dischi abbiamo sempre cercato di trattare temi di un certo tipo. A volte decisamente introspettivi, altre volte di denuncia. L’album ha preso il titolo dal nostro singolo, un brano che tratta il tema del bullismo. Argomento forse scontato ma che non fa mai male menzionare quando è possibile. Abbiamo denunciato questa problematica attraverso un videoclip piuttosto esplicito. Abbiamo evidenziato che può sempre esistere una via di uscita dall’ inferno in cui può precipitare un ragazzo se il problema viene condiviso con genitori, professori ed insegnanti. Il simbolo del labirinto a rafforzare metaforicamente il significato di quanto un ragazzo possa perdersi nei meandri del dolore, dell’angoscia e della solitudine, da cui però può venire fuori attraverso il coraggio della denuncia.

La band è di relativa recente formazione, dato che è nata nel 2016. In questo lasso di tempo avete pubblicato quattro album, precisamente nel 2016, 2017, 2019 e 2020. Un ritmo non facile da sostenere, come alimentate la vostra vena creativa?
Mi rendo conto non sia facile mantenere un ritmo di questo tipo. Tuttavia, la vena creativa non è mai mancata e ritengo che nel tempo abbiamo mantenuto una certa qualità e abbiamo migliorato decisamente il nostro songwriting. Mentre nei primi due dischi sono stato l’unico firmatario dei brani, negli ultimi due ho condiviso alcuni pezzi con l’altro chitarrista Andrea Raffaele proprio per dare un po’ di respiro agli album ed alleggerirli in alcuni tratti. Penso che alla lunga la scrittura di una singola persona possa sentirsi e da qui la necessità di allargare il songwriting ad altri. Gli arrangiamenti sono sempre fatti insieme con Steve Vawamas ed in questo caso anche con il nuovo cantante K-Cool. Oserei direi che abbiamo materiale per altri quattro/5cinque dischi senza alcun problema e non a discapito della qualità.

La scelta di pubblicare un disco quasi ogni anno va in controtendenza rispetto ai dettami dell’odierno mercato discografico, che tende a privilegiare il singolo brano all’album. Questa scelta di continuare alla vecchia maniera è più di natura istintiva o è un rischio ponderato?
Capisco. Siamo in controtendenza rispetto a molte cose. Tutti i membri della band sono cresciuti nei periodi in cui esistevano vinili e poi CD e chiaramente allontanarsi dal concetto di album diventa difficile. Crediamo, finché esiste creatività, che sia sempre piacevole per un ascoltatore immergersi nell’ascolto di un CD intero con brani che hanno varie sfumature proprio per percepire il senso della band, il senso dei brani e di quello che vogliamo veramente dire. Oggi in effetti va di moda il singolo con video e stop. Una pennellata buttata lì su una tela bianca. Io prediligo ancora un dipinto con tanti colori che rappresenti per intero il significato dei Ruxt e di quello che vogliono comunicare. Certamente sono ben conscio che in pochi ascolteranno attentamente l’intero album e che gli ascolti saranno forse distratti, ma preferisco pubblicare materiale e metterlo a disposizione piuttosto che preservarlo non si sa per quali tempi e audience.

“Labyrinth of Pain” segna l’ingresso del nuovo cantante K-Cool, ti va di presentarlo ai nostri lettori?
Certamente, con molto piacere. Si tratta di un cantante con un background decisamente heavy metal che nel tempo ha abbandonato l’approccio ‘metallaro’ alla musica per dedicarsi ad altri generi, forse più pop. Ho sentito una sua performance in duetto con chitarre acustiche ed ho capito che la sua voce avrebbe potuto essere messa al servizio dei Ruxt, in un certo modo cambiando completamente il sound del gruppo. Abituati alla voce di Matteo Bernardi non potevamo certo scegliere un cantante con stile simile che avrebbe solo potuto imitare Matt. Ho cosi pensato di rivoluzionare il tutto e di proporre a K-Cool di entrare a far parte di Ruxt. All’inizio devo dire che lo stesso K-Cool era dubbioso sulla riuscita dell’esperimento, ma abbiamo comunque provato e quello che sentite è il risultato!

I brani sono nati quando Matt Bernardi era ancora con voi o successivamente all’ingresso di K-Cool? Nel caso fossero stati scritti prima, sono stati modificati per adeguarli allo stile del nuovo cantante?
I brani non solo erano stati scritti per Matteo Bernardi ma erano già stati cantati da lui. Purtroppo, dopo aver completato le registrazioni, Matt ha deciso di lasciare la band. A quel punto avevo due opzioni: far uscire l’album con un cantante che già aveva abbandonato oppure trovare un voce nuova che potesse ricantare il disco e soprattutto re-interpretarlo a modo suo. Abbiamo prima provato un paio di pezzi con K-Cool e, quando ho capito che forse poteva funzionare, abbiamo ricantato tutto l’album. Non abbiamo avuto il tempo di modificare i brani per la voce di K-Cool. Abbiamo deciso di cambiare solo le parti vocali ed il risultato è stato soddisfacente. Certamente ci sarà qualcuno che farà raffronti, ma questi fanno parte del gioco.

Nella tracklist, in terza posizione, troviamo “November Rain”, brano che riporta alla mente la hit dei Guns. Come mai avete scelto di chiamare così il pezzo, nonostante l’illustre predecessore?
Non esiste alcuna relazione tra i due brani e non volevo dedicare nulla ai Guns. Diciamo che si tratta di una coincidenza. Il brano è nato come se si trattasse di una poesia in cui vengono evidenziate percezioni visive e olfattive (l’odore della pioggia, la nebbia, i colori dell’autunno) che si ripresentano nello stesso periodo dell’anno, novembre, facendo rivivere le sensazioni di una relazione finita.

Il disco si chiude con uno strumentale, “Butterflies”: che significato ha questo pezzo posto nel finale?
Come abbiamo riportato sul retro della copertina del CD: “siamo fragili ed effimeri proprio come le farfalle. Passiamo attraverso fasi difficili per crescere e diventare adulti, cambiamo forma, ma siamo sempre noi, che voliamo in giro mostrando i nostri colori. Non possiamo permetterci di sprecare tempo, viviamo la vita al massimo perché in un batter d’occhio la nostra alba si trasformerà in crepuscolo’’. Semplicemente ho metaforicamente messo in musica il concetto di nascita, crescita ed invecchiamento fino alla morte. E quanto sia breve ed effimero questo passaggio. Questo è il senso di “Butterflies”. Avrebbe potuto essere posto in una qualsiasi posizione del CD. Semplicemente per il fatto che è piuttosto lungo, ho preferito metterlo alla fine. Una sorta dedica mia a chi ha avuto la voglia di ascoltarsi tutto il CD.

Quale è stato il brano che vi ha creato più difficoltà durante la scrittura e quale invece quello su cui all’inizio non puntavate e che, a giochi fatti, invece è uscito meglio di ogni più rosea previsione?
Puntavo molto su “Labyrinth of Pain’’ ed in effetti, nonostante alcune perplessità iniziali, si è rivelato essere un buon brano ed è stato scelto come primo singolo anche per l’importanza del tema trattato. “Simply Strangers’’ era un altro pezzo a me molto caro, ma non sono certo che sia uscito proprio come lo avevo immaginato. Tuttavia, resta una buona canzone. Lo strumentale è stata una scommessa. Avevo ben in mente che cosa volevo dire e trasmettere ed ho provato. Strada facendo, confortato anche dal parere di Steve e di K-Cool, ho capito che poteva essere un bel pezzo strumentale e che anche se un po’ lungo poteva effettivamente trasmettere delle emozioni.

Alla ripresa dell’attività live, riproporrete fedelmente i nuovi pezzi sul palco oppure opterete per nuovi arrangiamenti?
Assolutamente, cercheremo di riproporre i pezzi come sono stati registrati così come abbiamo sempre fatto. Non abusiamo mai nelle registrazioni di suoni che poi non possiamo riproporre dal vivo. Siamo abbastanza vintage e reali da evitare basi o quant’altro. Più che altro speriamo vivamente di poter tornare a suonare dal vivo al più presto.

E’ tutto, grazie
Grazie a voi per l’opportunità. Colgo l’occasione per ringraziare i compagni di band per il lavoro che abbiamo fatto in così poco tempo. Ringrazio oltremodo tre ospiti che hanno suonato nel disco: Stefano Molinari alle tastiere, Francesco Russo alla chitarra e Marco Biggi alla batteria in due pezzi. Vorrei ricordare inoltre che il disco è stato questa volta registrato, mixato e masterizzato allo studio di Steve Vawamas: Steve Vawamas Studio.