Lou Mornero – Pace ombrosa

“Grilli” (Cabezon, 2021 \ Fleisch Agency), album d’esordio ed evoluzione naturale del primo EP di Lou Mornero, è un lavoro che cresce ad ogni ascolto, ma anche ogni volta che un passaggio strumentale o un verso riaffiora in mente mentre si è sovrappensiero. Il polistrumentista Andrea Mottadelli ha partecipato alla realizzazione del disco, le cui sonorità spaziano agevolmente dal folk alla dub, dal blues al trip hop. Ecco la nostra intervista.

La canzone “Grilli” apre l’album e ne rappresenta bene le atmosfere, però potrebbe risultare di difficile approccio per le orecchie meno avvezze alla musica d’autore. Perché non hai scelto un brano introduttivo più diretto come “Happy Birthday Songwriter” o “Due”?
Di base perché certe decisioni competono, nel bene e nel male, esclusivamente alle mie sensazioni che, in quanto tali, possono eludere la percezione altrui finanche nell’ipotesi di risultare, come dici, ostiche per alcuni, ma non vedo alternative. In secondo luogo perché “Grilli” ha un mood e un’atmosfera secondo me adatte ad introdurre un discorso musicale, atmosfera che avverto meno negli altri due brani che hai citato, pur non mancando di pathos, ma differente, da discorso già avviato, per così dire. E’ proprio una questione di gusto personale e nulla più.

Hai prodotto l’album “Grilli” insieme ad Andrea Mottadelli, che ha dato un tocco d’elettronica al tuo stile prevalentemente acustico. Avete registrato quasi tutte le canzoni lontani l’uno dall’altro, ognuno nella propria città. Il risultato finale corrisponde alle aspettative iniziali o, lavorando a distanza, avete preso direzioni musicali impreviste in corso d’opera?
Tra me e Andrea, distanti solo per questioni geografiche, c’è sempre stata un’interazione e un confronto talmente fitti che nulla, in fase di produzione, è stato lasciato nell’esclusivo palmo dell’uno piuttosto che dell’altro, perciò ogni canzone ha una veste al cui ricamo abbiamo contribuito entrambi. La premessa non toglie il fatto che lavorare con Andrea sottintenda l’apertura a sorprese e soluzioni inaspettate poiché lui ne è una fonte inesauribile e ti confesso che se stravolgere mi è risultato in alcuni casi inizialmente complicato da digerire, in altri è stato una rivelazione. “Piccolo Tormento” è un esempio calzante dell’intuizione di uno e dell’apertura dell’altro: io l’ho sempre considerato un blues acustico e sporco, così lo suonavo tra me e me, mentre Andrea l’ha trasformato in un brano quasi industrial, accendendo la mia curiosità e trovando il mio appoggio nonché compiacimento finale. Questo per dire che il risultato ha talvolta trasformato e superato le aspettative iniziali.

Ho letto da una tua una intervista che, se fossero persone, alcune canzoni di questo album sarebbero già “adolescenti”, nel senso che tu le hai concepite parecchi anni fa. Una di queste è proprio il singolo “Happy Birthday Songwriter”, che hai affidato all’esecuzione vocale di Paolo Saporiti. Daniele Paoletta canta invece in “La Cosa Vuota”. Come è stato distaccarsi da questi brani, che sono cresciuti insieme a te per così tanto tempo?
Non penso ci si possa distaccare mai da qualcosa che ti è nato dentro e attraverso te ha trovato il modo di arrivare ad altri e nel contempo mi fa molto piacere che queste canzoni non siano più solo mie, d’altronde non posso trovare un senso nello scriverle che non preveda la loro pubblicazione e condivisione. Il fatto di ospitare altre ugole ad affiancare la mia è fonte di pura gioia poiché, oltre a significare che quello che faccio ha un senso, mi riempie d’orgoglio personale e mi alleggerisce in qualche modo. Le collaborazioni in questo album, ma più in generale collaborare con artisti che stimi e rispetti aggiunge sapori al piatto, sfumature nuove e mi vengono in mente diversi dischi propriamente collaborativi che occupano posti fissi nel mio juke box personale.

Un lungo piano sequenza all’interno di un bar occupa i primi due minuti del video di “Happy birthday songwriter”. Tu sei al contempo il protagonista della storia ed uno spettatore, complice il fatto che a cantare davanti a te c’è proprio Paolo Saporiti. Mi sembra anche che a suonare la chitarra ci sia Andrea Mottadelli. Come è stato registrare tutti insieme questo video?
Uno spasso! Prima di tutto eravamo tra amici e, oltre a Paolo e Andrea, includo chi era dietro la camera, davanti la camera e dietro al bancone e poi è stato divertente perché abbiamo girato in un locale che frequentiamo tutti più o meno abitualmente, il Bar Bah, quindi non si è percepita la differenza tra lo stare su un set di un video e il trovarsi in una qualsiasi serata, se non per il fatto che ero costretto a buttar giù whiskey e birra a ogni ripresa, in genere non ho bisogno di un regista per ripetere certe azioni. E poi c’è l’aneddoto, ossia che alla mezzanotte di quel giorno era davvero il mio compleanno, puoi quindi immaginare i giri di brindisi che son partiti nonostante fosse solo lunedì…

Finito di guardare “Happy Birthday Songwriter”, YouTube mi propone una selezione “slow rock”, con tanto di Kurt Cobain in versione unplugged come anteprima. Secondo te, che orientamento stanno prendendo le tendenze musicali attuali? Si sta andando, come successe nella seconda metà degli anni ‘90 dopo il frastuono dell’era grunge, verso sonorità meno chiassose?
Mah, non saprei dirti. Ascolto un sacco di musica nuova, diversa e di qualità e ce n’è per tutti i gusti. Da quella più energica a quella più chill, basta curiosare un po’. Sicuramente le contaminazioni hanno preso il sopravvento negli ultimi anni e la cosa mi garba parecchio. Se parli più in generale di mainstream mi viene naturale girarci un po’ alla larga pur essendo abbastanza informato sui fatti ma credo che si debba fare un doveroso distinguo, in Italia soprattutto, tra il mainstream spesso facilotto e senz’anima, spremuto e propinato in tutte le salse e il sottobosco che vive nell’ombra e nell’ombra resta. Da noi in particolare ci sono distanze importanti tra i due mondi, quello che frequento abitualmente offre sempre spunti interessanti mentre l’altro tende a perplimermi un po’.

“Ouverture”, traccia conclusiva di “Grilli”, è l’unica canzone dell’album registrata dal vivo in studio, e che studio! Che emozioni hai provato ad entrare in un tempio della musica come lo Strongroom studio, dove hanno inciso nomi del calibro di Nick Cave e Prodigy?
Purtroppo io non l’ho visto neppure da lontano lo Strongroom poiché non mi è stato possibile andare a Londra a causa delle restrizioni dovute alla pandemia. Solo Andrea, londinese da qualche anno, si è recato a registrare e per l’esattezza al Bella Studion che si trova all’interno del complesso degli Strongroom.
Pertanto la parola passa direttamente a lui: “Avevo già avuto in precedenza l’opportunità di lavorare lì per un mix di un altro progetto, ma non nascondo che entrare in una struttura così importante che ha contribuito a tanti dischi che ho ascoltato un’infinità di volte non lasci certo indifferente. Sicuramente una bella sensazione. La cosa positiva è che mi sono trovato a mio agio in un’atmosfera creativa e rilassata al tempo stesso. Credo che questa cosa possa emergere nel lavoro fatto su “Ouverture” in cui sono partito nello sviluppare un’idea di arrangiamento che già avevo in testa, per poi sfruttare l’ispirazione del momento e degli strumenti che ho trovato a disposizione.”

Nella copertina dell’album luci al neon ed alberi fioriti fanno da cornice ad una figura nascosta sotto un ombrello. Come mai hai scelto questa immagine?
La risposta è molto semplice: è l’unica scattata durante una session apposita organizzata col mio vecchio amico nonché fotografo sopraffino Luca Tombolini. Ci eravamo dati appuntamento una sera all’indomani della fine del primo lockdown, armati di buoni propositi per fare qualche fotografia in città ma dopo qualche sopralluogo e un solo scatto, appunto, si è messo a piovere per bene e questo ha mandato all’aria tutti i piani per quella sera. Dopo di allora non siamo più riusciti a organizzare un’altra sessione per i vari impegni di Luca che lo portano spesso all’estero e quindi l’unica immagine che avevo era quella che poi è finita sulla copertina del disco. Detta così potrebbe sembrare che non avessi altra scelta ma in realtà non mi sono neppure affannato a cercare un’alternativa, quell’unico scatto aveva qualcosa che mi appartiene molto, una sorta di solitudine pacifica che non smetto mai di cercare, ed è in qualche modo silenziosa, che pare una contraddizione parlando di musica ma evidentemente alludo alla frenesia del mondo che lì dentro è messa a tacere. E poi c’è la sera, il buio, il mio momento preferito. La mia compagna si è poi adoperata nel ritoccare e accendere i colori nonché realizzare la grafica che a breve troverà la giusta collocazione nelle copie fisiche del disco.

Dopo aver apprezzato “Grilli”, sono andato ad ascoltare il tuo lavoro precedente. Seppur arrangiati e prodotti diversamente, alcuni brani del tuo EP di debutto e di “Grilli” hanno un elemento comune, cioè le lunghe code strumentali. Che valore dai tu a queste appendici? Sono digressioni verso nuovi orizzonti o hanno un significato diverso?
Ottima osservazione di cui ti ringrazio! La verità è che amo i viaggi musicali, mi ci abbandono con estrema facilità e molto gusto, mi coccolano la mente e mi ci perdo. Fosse per me ogni momento della giornata potrebbe essere scandito al tempo di lunghe code strumentali. In realtà non gli si deve dare per forza un significato, io non ce lo vedo, è puro piacere che asseconda il gusto di chi le compone e in questo senso includo anche Andrea che, come me, adora perdersi nel suono. Scavando nel passato mi vengono in mente certe jam sessions da saletta, quelle un po’ erbacee, che potevano superare tranquillamente i dieci minuti ininterrotti senza la presenza di una singola nota vocale, bei tempi quelli.

Nell’intervista a cui mi riferivo prima, hai dichiarato anche di voler continuare a creare “senza l’obbligo di fare qualcosa che piaccia per forza o che debba andar bene a qualcuno in particolare, che non sia io stesso”. “Grilli”, naturale evoluzione del tuo primo EP, conferma le tue parole. Ti stai già dedicando al prossimo capitolo?
Nella mia testa “Grilli” fa già parte di un passato lontano e sento fisso il bisogno di aggrapparmi a qualcosa di nuovo che prenderà forma in maniera spontanea nel tempo. Non smetto mai di abbozzare idee musicali, a fasi alterne ma costantemente, e qualche cosa che mi stuzzica già c’è. Mi piacerebbe dare sfogo alle mie diverse anime musicali e approfondire suoni che ancora non ho avvicinato ma che esercitano un forte fascino.

Viadellironia – Realtà parallele

A due anni dal promettente EP d’esordio arriva il primo album di Viadellironia, quartetto rock di ragazze dalle idee chiare e dai testi eleganti. “Le Radici sul Soffitto” (Hukapan, 2020 \ Fleisch Agency) vanta anche la partecipazione di Cesareo (produzione e chitarra) e Mangoni (prezioso inserto) degli EELST, nonché un duetto alla voce con Edda nel primo singolo estratto dal disco. Ecco la nostra intervista.

Il nome del gruppo rappresenta un luogo immaginario ed il titolo del vostro primo album ne esalta la dimensione fantastica, facendo crescere delle radici sottosopra. Quando è nata in voi questa voglia di creare realtà parallele?
Maria: Ci sono delle immagini che spostano il significato ordinario delle cose, o il loro collocamento nel tempo o nello spazio. E così creano delle allegorie. Le radici sul soffitto, ad esempio, rappresentano un’inversione spaziale, che sottintende anche il senso del tempo. L’arte a cui sono più affezionata è quella che utilizza questi scarti. Spesso si colora di un contenuto politico. Succede da sempre, uno dei casi più straordinari è quello di Galileo che, con un linguaggio non artistico, ma scientifico, ha suggerito che la realtà non fosse ordinata come voleva il potere dominante. Uno dei testi a cui sono più legata, per questi motivi, è la Vita di Galileo di Brecht. È una lezione di ribaltamento artistico.

Ho letto che i gusti musicali di ogni componente della band sono a volte molto diversi fra loro. Come riuscite ad armonizzare così tante sfaccettature sonore?
Maria: Il fatto di avere una consapevolezza del modo in cui ci piace suonare crea una grande unità. Intendo che ciascuna di noi riconosce con facilità quale impatto possa dare una propria scelta musicale all’insieme, è un contributo che si innesta in modo naturale. Forse dipende dal fatto che suoniamo da tempo insieme, e che sia diventato scorrevole avere un amalgama istintivo ed empatico.
Greta: Ci piace molto il fatto di giocare con le sonorità personali e di trovare il modo di farle coesistere nel sound finale. Il nostro amore per il “puttan pop” è sicuramente uno dei nostri punti in comune e probabilmente il meno intuibile da come suonano poi i pezzi, ma di certo presente nello spirito.
Laura: D’altra parte ci sono molti artisti che apprezziamo all’unanimità, e anche certe sonorità e certi timbri. Le cose che ci accomunano sono quelle a cui ci riferiamo maggiormente e consapevolmente. I gusti più personali, invece, influiscono nella genealogia del nostro modo di suonare.
Giada: Come dicono le ragazze, ci legano molti artisti. Suoniamo insieme da più di quattro anni e tra prove, discussioni e improvvisazioni abbiamo imparato a far convergere le nostre idee. La nostra musica è una sorta di ibrido: mescola stili, periodi musicali lontani, ma sempre compatibili con i gusti di tutte e quattro.

Tra il primo EP “Blu Moderno” e questo album sono trascorsi due anni. Se nel primo lavoro il trait d’union fra le canzoni è principalmente il timbro vocale di Maria, “Le Radici sul Soffitto” si distingue anche per una maggiore uniformità musicale. Qual è stato l’apporto di Cesareo nella costruzione del sound che cercavate?
Maria: Sono contenta che tu abbia notato questa differenza! Davide ha avuto molta cura degli equilibri interni alla musica, ma anche del rapporto che questa intesse con la voce. Non mi ha mai detto di modificare alcunché dei testi, ma ci ha aiutate a creare dei ponti tra questi e la musica. Non risulta scollata, e nemmeno ancillare.

Prestando attenzione ai vostri testi graffianti, non stupisce la collaborazione con Edda, che di liriche sardoniche ne ha scritte tante e molto belle. Che emozioni vi ha trasmesso al primo ascolto la sua interpretazione della vostra canzone “Ho la febbre”?
Maria: È stato fantastico. Ci ha colpite la naturalezza con cui ha acquisito quel testo. Nel momento in cui lo ha letto, lo ha subito restituito con un livello di autorialità e di espressività pazzesco.

Mi piace quando nel processo creativo un musicista coinvolge i propri amici, soprattutto se talentuosi come il vostro concittadino noto con lo pseudonimo di Dorothy Bahwl, che ha realizzato l’enigmatica copertina per “Le Radici sul Soffitto”. Avete ideato insieme questa immagine oppure è un’ispirazione tutta dell’artista?
Maria: Abbiamo fatto un solo incontro per parlare del concept del disco. Abbiamo spiegato a Dorothy che cosa intendessimo con questa immagine delle radici sul soffitto, aggiungendo altri elementi a quello, più esplicito, della sepoltura. Ha capito subito quale fosse il nostro immaginario e l’ha tradotto perfettamente. Ha fatto tutto Dorothy! Ci piace davvero tanto la nostra cover, lo ringraziamo di cuore.

Un argomento presente nelle canzoni, così come sulla copertina dell’album, è il dualismo tra fioritura ed appassimento, che sia fisico, spirituale o relazionale. L’immersione in queste tematiche vi ha aiutato ad affrontare il periodo attuale di stravolgimento del mondo come lo conoscevamo?
Maria: Il disco era pronto per l’uscita prima che entrassimo in questo periodo terrificante, ma le assonanze di mood che i brani (e l’artwork di Dorothy) istituiscono con il 2020 sono tante. È un disco che parla della volontà di uscire dalla stasi, del fallimento che ne consegue (“come poi ci resto male quando affondo”). È un disco ossessionato da una nostalgia retrospettiva – da cui l’immagine di noi stese a osservare, catatoniche, le radici. Ci ha aiutate nella misura in cui, nel congelamento di questo 2020, abbiamo vissuto la grande felicità di far uscire il nostro primo disco che, neanche a farlo apposta, sembra una didascalia del periodo. Penso che si dispieghino tematiche valide, però, per qualsiasi fase. Facile parlare del bronzo nell’età del bronzo! È più interessante parlare del fallimento nell’età dell’oro, sicuramente. Non vedo l’ora arrivi l’età dell’oro per continuare a parlare della tristezza.
Greta: Come dice Maria, il disco era pronto molto prima di questo periodo orribile. Ma il fatto che le tematiche presenti ci si rispecchino così tanto è stato quasi un sollievo: oltre all’avere qualcosa da fare (cosa non da poco) mi ha consentito di esorcizzare un po’ le difficoltà di queste lunghe giornate.
Laura: Personalmente, per quanto i testi guardino alla morte, la chiave di lettura che più mi appartiene è quella della fioritura, della rigenerazione, e dell’esorcizzazione del campo semantico della morte. Come se il disco fosse un rito stagionale antico, che disinnesca l’inverno. Quindi sì, ti direi che questo disco mi ha aiutata.

Ho notato con piacere riferimenti rococò nei testi e negli arrangiamenti del nuovo album, ma anche nella scenografia del video per la canzone “Blu Moderno”. Da dove proviene questa passione per la Francia del Settecento?
Laura: Dal delizioso salottino della nonna Neris! Non è una scenografia, è proprio il salotto che ho ereditato da mia nonna. Ma io e Maria (viviamo insieme) lo usiamo solo  per tenerci la cacciagione e gli arazzi. Volpi e madonne.
Giada: Per coniugare l’ammirazione per Bach e il fascino verso il mondo settecentesco abbiamo deciso di utilizzare quella location come scenografia di uno dei nostri pezzi più antichi.

Non vi ho ancora visto in concerto di persona, però già dallo schermo del pc si percepisce come sapete stare bene su un palco. Perché non avete posticipato l’uscita del disco, in modo da poterlo promuovere anche dal vivo?
Maria: Sai, era lì pronto da tempo, anche lui congelato. Non avrebbe avuto senso attendere oltre, sarebbe stato in qualche modo artificioso. Siamo contente sia uscito a novembre ma, come dici, non nego sia frustrante non poterlo promuovere dal vivo. Per ora, ovviamente; se non si è capito siamo un concentrato di ottimismo e speriamo nello scongelamento estivo.
Greta: Scalpitavamo perché uscisse. Poterlo finalmente vedere stampato e ricevere i primi feedback è stato bellissimo. Feedback sicuramente meno potenti di quelli che può dare la promozione live, dal punto di vista del calore umano e soprattutto del sudore! Ma è comunque stato vitale, sempre in relazione alla pesantezza e alla staticità di questo periodo, vedere il disco esistere davvero, e progettare in vista di tempi meno bui di poterlo finalmente suonare davanti ad un pubblico.

Qualcosa di nuovo bolle già in pentola?
Greta: Sì, stiamo cominciando a pensare a cose nuove. Così il nostro primo tour promuoverà almeno due dischi! (scherzo). Farebbe sicuramente ridere passare da 45 minuti di concerto a 2 ore e mezza.
Giada: Abbiamo in cantiere qualche pezzo nuovo, ma la situazione attuale, che tutti conosciamo, non ci consente di vederci per provare. Anche noi come tanti lavoriamo comodamente da casa, ma per una band risulta molto difficile.

Moltheni – Nessun lascito

A undici anni di distanza dalla raccolta finale “Ingrediente novus” Moltheni – al secolo Umberto Maria Giardini, cantautore dalla scrittura trasversale e sempre riconoscibile –  ha pubblicato lo scorso Dicembre un nuovo album. “Senza Eredità” (La Tempesta Dischi / Fleisch Agency) rappresenta la chiusura di un cerchio, nonché l’ultimo capitolo di uno dei progetti più importanti del panorama indipendente italiano.

Ciao Umberto, benvenuto su Il Raglio del Mulo, premetto che è un grande piacere per me poter parlare di musica con te. “Senza Eredità” il disco del (non) ritorno di Moltheni è uscito da oltre un mese, che tipo di aspettative avevi a dieci anni dalla chiusura di quel capitolo?
Non avevo nessun tipo di aspettativa, speravo fosse un disco semplice apprezzato dal popolo di tanti affezionati al progetto Moltheni. I risultati, nonostante non abbiamo ancora ufficializzato ne un videoclip ne un tour, sono positivissimi sia in termini di critica degli addetti ai lavori che nei numeri riferiti alle vendite. Quando si lavora bene e con un esperienza acquisita che mette a fuoco il valore delle cose, è difficile produrre cose brutte.

“Ingrediente Novus” si chiudeva con il brano inedito “Per Carità di Stato” – personalmente lo considero tra i grandi capolavori della musica italiana – che fotografava perfettamente la situazione di quel periodo ma che trovo ancora tremendamente attuale, come la riscriveresti oggi?
Francamente non ne ho idea, poiché è una domanda che non riesco a pormi. Sono stato sempre attento alla vita di tutti noi e alle sue sfaccettature che inevitabilmente la complicano. Probabilmente oggi la scriverei diversa nella forma, ma non nei contenuti, che ahimè sono rimasti uguali se non peggiorati.

Da batterista, quando quel ragazzino che vediamo in copertina ha deciso che poteva anche essere un cantautore?
Quando mi sono reso conto che era molto difficile far capire agli altri come andavano scritte le canzoni che intendevo io. Ho sempre avuto una visione molto personale del modus operandi che applico al lavoro, per questo motivo le collaborazioni mi sono sempre andate strette. Detesto suonare la chitarra, ma sono stato obbligato ad imparare perché nessuno scriveva per me quello che volevo. Oggi avendo un giro di musicisti attorno a me molto in gamba, fatto di persone affidabili, tendo sempre di più a cantare e basta. Scrivo sempre tutto io usando la chitarra, ma poi delego lo strumento poiché sono annoiato.

Ricordo che l’ultima volta che abbiamo avuto modo di scambiare due parole (dopo un concerto all’Eremo Club di Molfetta) avevi con te “Badmotorfinger” dei Soundgarden – era da pochissimo morto Chris Cornell – secondo te che cosa è andato storto dopo gli anni ’90? E’ stato davvero l’ultimo periodo dove la musica era determinante nella società – all’estero ma anche in Italia – o è solo l’effetto nostalgia di chi ha ormai varcato la soglia dei quarant’anni?
La musica intesa come necessità e come costume integrante dell’ascoltatore giovane e meno giovane, ha smesso di esistere attorno al 2006. La colpa dell’annullamento è assolutamente dovuto alla rete. Le chitarre e gli strumenti che suonano veramente, sono passati sempre di più inosservati, e la tecnologia becera ha materializzato la possibilità di creare dischi senza la necessità reale di suonare. Di fatto (in Italia il fenomeno è dilagato) sono usciti miliardi di gruppi, cantautori, performer, la maggior parte ultra-scadenti che per ovvi motivi e di riflesso alla società affamata, sono diventati straconosciuti e adorati. Il saper suonare, cantare e scrivere testi applicati alla musica di spessore è diventato un valore aggiunto trascurabile. Tutto ciò che è scadente oggi piace. E’ accaduto questo…

Quanto è importante per te la psichedelia?
La psichedelia è stata per me fondamentale, anche dal fatto che me ne sono invaghito da giovane. E’ stata una porta che aprendosi mi ha dato la possibilità di vedere tutto sotto una prospettiva allargata e benevola. L’uso di droghe pesanti ha accentuato questa fase, ma graziato dalla sorte, frenando proprio nel momento in cui mi son trovato a scegliere se darci dentro o venirne fuori, ho scelto la vita frenando quel processo di autodistruzione che precludeva anche il plasmarmi con la musica psichedelica, che oramai era dentro di me.

In quasi tutti i tuoi dischi – di Moltheni ma anche UMG – c’è sempre stato spazio per un brano strumentale, cosa che ho sempre molto apprezzato e trovato caratterizzante (ho amato il progetto Pineda) in questo disco non ce ne sono, come mai?
In “Senza Eredità” non compaiono episodi strumentali solamente per la coincidenza che, nel materiale recuperato non vi erano brani senza testo. Ho sempre amato scrivere musica indipendentemente dalla voce cantata, questo perché suscita in me immagini straordinarie, che spesso vengono rovinate dalla parte vocale. Qualsiasi mio brano nasce strumentale, spesso mi capita di non sentir la necessità di scriverci un testo ed è così che lo lascio senza voce evitando di snaturarlo.

Ho sempre seguito con interesse il tuo approccio “vintage” nella strumentazione e nell’approccio alle registrazioni, hai mai pensato di dare un “vestito” più contaminato dall’elettronica alle tue composizioni?
Sì, ci ho pensato spesso, ma bisogna trovare anche persone capaci, e in Italia il gusto riferito alla musica elettronica è un po’ latitante.

Cosa stai ascoltando in questo periodo?
Ascolto dischi classici perlopiù di jazz. Chet Baker, Miles Davis, Coltrane, Thelonious Monk, Evans. Ascolto rock soprattutto mentre guido, spazio anche lì tra i miei amori che non abbandonerei nemmeno sotto tortura; Smiths, Echo & the Bunnymen, Lotus Eaters, Lloyd Cole and the Commotions, Housemartins, Roy Orbison, Elvis.

Negli ultimi anni sei passato dalle sonorità mature ed elettriche di UMG al disco con la band Stella Maris per tornare alle atmosfere più folk oriented di Moltheni, cosa dobbiamo aspettarci nell’immediato futuro?
Sto ultimando le registrazioni del nuovo album di Stella Maris che considero qualcosa di straordinario. Presumo che nella primavera inoltrata inizierò la pre-produzione del nuovo album di UMG, ma occorrerà ancora un po’ di tempo per regalargli vita vera. Nel frattempo produco cantautori sconosciuti e la cosa mi diverte molto.

Foto originale di copertina di Avida Dollars (@nsfilmphoto)