Apogod Project – A prog Bible

Ospiti di Mirella CatenaOverthewallgli Apogod Project Patrick Fisichella e Giovanni Puliafito – per parlare dell’album “A Prog Bible”.

Grazie di essere qui su Overthewall, vi chiedo subito come è iniziata la vostra carriera musicale?
Giovanni: Innanzitutto vi ringrazio per l’opportunità che ci avete dato, di presentare il nostro disco e di spiegarne la genesi e lo sviluppo. Sia io che Patrick abbiamo iniziato la nostra carriera da molto prima rispetto al concepimento di questo album e la formazione di questo duo. Ho iniziato all’età di nove 9 lo studio del pianoforte, conseguendo il Diploma in Conservatorio. A 18 anni ho iniziato anche a studiare Composizione sempre in Conservatorio, conseguendo anche il Diploma. Mi sono avvicinato al mondo della musica per film, studiando con il Maestro Luis Bacalov all’Accademia Chigiana di Siena. Sono attualmente Docente di Teoria Analisi e Composizione presso il Liceo Musicale di Messina, ho anche insegnato Composizione in Conservatorio sempre a Messina, la mia città. Da diversi anni mi occupo di composizione di colonne sonore, con diverse collaborazioni con produzioni indipendenti. Prodotti che hanno vinto concorsi, andati in onda su canali anche internazionali. Mi occupo anche di arrangiamenti per diversi generi musicali e quasi sempre in collaborazione con Patrick. Io e Patrick coltiviamo da oltre venti anni un’ amicizia fraterna, fatta di stima e affetto, che poi è scaturita anche nella nostra prima importante collaborazione, ApoGod Project – A Prog Bible.
Patrick: Mi unisco al “grazie” di Giovanni. Io ho iniziato studiando chitarra, prima da autodidatta e poi seguendo lezioni da privato ed in alcune delle scuole più note in giro per l’Italia. dal 1999 insegno chitarra per varie strutture ed istituzioni private e dal 2009 per i corsi Yamaha Music, per i quali sono esaminatore internazionale dal 2013. Da tre anni insegno chitarra e produzione audio anche per i corsi RSL Rockschool Of London. In ambito audio e registrazione la passione è nata da piccolissimo. Nel biennio 2001/02 ho conseguito il Diploma Tecnico Superiore come “Esperto in Tecnologie Multimediali” presso la facoltà di Ingegneria di Messina, con una tesi sull’audio digitale. Mi sono occupato negli anni di tanti spettacoli teatrali, anche di rilievo nazionale, per i quali ho curato la scrittura delle musiche, il sound design, la fonica e l’esecuzione dal vivo anche in tournée in giro per lo stivale. Ho prodotto album di artisti in ambito pop, rock, metal, orchestre sinfoniche, gruppi corali, spesso lavorando, come già lui anticipava, proprio insieme a Giovanni.

Siete autori di una delle più interessanti produzioni musicali degli ultimi anni, com’è nata l’idea del progetto Apogod?
Giovanni: L’idea nasce nel lontano 2003 da Patrick che è da sempre appassionato di storia delle religioni. Una sera mi disse che il suo desiderio era quello di musicare la storia più appassionante e cruenta di tutti i tempi: l’Antico Testamento. Iniziammo a parlarne ma purtroppo per tanti impegni a cui la vita ci sottopone, ritardammo la lavorazione dell’album per tanti anni fino al 2018. Quella sera del 4 luglio 2018, alla festa del mio compleanno, un nostro caro amico (Marco Giliberto, il nostro fotografo) ci disse: “Avete musicato tanta roba, scritto tanti brani per altri musicisti, avete tutto il necessario e tutte le potenzialità, perché non lavorate a qualcosa di completamente vostro”? Quella notte stessa iniziammo seriamente a lavorare a quella vecchia idea conservata nel cassetto. Dopo 4 anni, il 28 luglio 2022 lo abbiamo presentato ufficialmente, appoggiati dalla casa discografica Metalzone Italia che ci supporta egregiamente in questa nostra impresa.
Patrick: Aggiungo che l’idea è dovuta anche al fatto che Giovanni aveva già messo in musica all’inizio del 2000 (insieme all’amico chitarrista Giorgio Napolitani) la “Divina Commedia” ed aveva musicato anche molti passi dell'”Odissea” ( qualche anno dopo si sarebbe cimentato anche con l'”Eneide”). Io venivo da lunghe letture su Zarathustra ed il mazdeismo ed avevo preso spunto da alcuni passi dell’Avesta (libro sacro del mazdeismo) per comporre svariati brani. Mettere in musica i racconti sul dio di Abramo sarebbe stata la naturale prosecuzione…

Quali sono stati i tempi di realizzazione di A Prog Bible e come si è svolto il processo di composizione?
Giovanni: Il processo di scrittura è stato complesso e lungo 4 anni. Abbiamo iniziato delineando una struttura dell’album, formato da 10 brani, inizialmente strumentali, ma in corso d’opera abbiamo ritenuto di inserire un cantante in 5 brani. Abbiamo scritto tutto noi due, Patrick ha curato oltre alla composizione dei brani, i testi, le chitarre e i bassi che lui stesso ha registrato e tutta la produzione audio, nei suoi Gargamella’s Studios. Io oltre alla composizione, ho curato l tastiere, synth, tutte le orchestrazioni e la programmazione della batteria che poi abbiamo affidato al nostro batterista che ha registrato. Insieme io e Patrick abbiamo scritto le melodie vocali. Un processo lungo, impegnativo, ma anche emozionante, abbiamo creato la musica che a noi piace, con cui siamo cresciuti. Insieme ai miei studi classici in conservatorio, dall’età di circa 13 anni ho sempre ascoltato metal, con tutte le sue ramificazioni e sottogeneri. Ci siamo lasciati ispirare, emozionare ed anche turbare dalla lettura del testo stesso, immaginando la nostra musica come se fosse la colonna sonora di questa grande storia.
Patrick: Vorrei però puntualizzare che nel momento in cui ci accingevamo alla scrittura di un brano avevamo
già in mente l’argomento che avremmo trattato, tanto che quasi tutti i titoli che sarebbero poi diventati quelli definitivi erano già presenti e pronti anche a brani appena iniziati. Po la fase di editing, mix e master è stata un incubo. La massa strumentale era così imponente che sono dovuto scendere spesso a compromessi per tentare di far sentire ogni linea. In alcuni brani mi sono trovato a lavorare su oltre cento tracce.

L’opera vanta la partecipazione di musicisti che hanno contribuito alla sua realizzazione. Ci parlate di queste collaborazioni?
Giovanni: Con noi hanno collaborato numerosi musicisti, di cui siamo estremamente soddisfatti perché hanno sposato la nostra causa, appassionandosi fortemente a questo ambizioso progetto. Salvo Cappellano, ha cantato sui brani “Cyber Abraham and the Massacre of Sodom”, “Egyptian Plagues”, “Promised Land (A prayer of Moses)” e “The Divine Code”. Il “misterioso” Azathoth ha cantato invece “The Great Flood of Blood”. Salvo Pennisi ha registrato tutte le batterie, Silvia Bruccini ha realizzato i cori sul brano Promised Land, Francesco Aiello ha suonato le percussioni nell’intro di “Egyptian Plagues” e “Gabriels” ci ha regalato un bellissimo assolo nel brano “The Divine Code”. Tutti musicisti che hanno un passato musicale alle spalle di un certo rilievo, fra studi, collaborazioni ed esperienze sia live che incisioni. Alcuni di loro provengono anche da generi musicali diversi, come Silvia Bruccini, cantante jazz, pop, fusion e Francesco Aiello, specializzato in percussioni latine e ritmi sudamericani.


L’Artwork della copertina è stato affidato all’artista messinese Domenico Puzzolo, cosa rappresenta?
Giovanni: Domenico Puzzolo è un fantastico artista messinese, anche nostro caro amico. Quando iniziammo a scrivere i brani, ancora in fase embrionale, inviammo alcune demo insieme ad una spiegazione dell’album a Domenico, lasciandolo assolutamente libero di ispirarsi e rappresentare le sue idee ed emozioni. Dopo pochissimo tempo ci ha consegnato la copertina, realizzata a mano con la tecnica della china su un foglio formato A3 circa, ed il nostro logo. Eravamo entusiasti! La copertina rappresenta Salomè con la testa di San Giovanni, un’idea scaturita dall’artista che simboleggia le proprie emozioni derivate dalla narrazione, dalla nostra musica e (forse) un collegamento tra questo album ed una futura continuazione…
Patrick: Domenico è un grandissimo amico ed uno straordinario artista. Ci ha fatto un regalo dal valore incommensurabile per “A Prog Bible”!

Siete già al lavoro su altre opere che riguardano gli Apogod? Qualche anticipazione per i nostri ascoltatori?
Giovanni: Gli Apogod Project avranno sicuramente un seguito. Io e Patrick stiamo già lavorando al nuovo disco, che non riguarderà la “Bibbia” (almeno per il momento), posso solo dire che sarà sempre ispirato da argomenti culturali e letterari.
Patrick: Shhh! Non dire troppo, non dire troppo che scema l’hype!

Dove i nostri ascoltatori possono seguirvi?
Giovanni: Potete seguirci sulla nostra pagina Facebook ed instagram e ascoltarci praticamente ovunque, Spotify, Youtube e tutti i social cercando ApoGod Project – A prog Bible.

Grazie di essere intervenuti su Overthewall!
Giovanni: Grazie a tutti voi!
Patrick: Grazie a te Mirella ed a tutti gli amici di Overthewall!

Ascolta qui l’audio completo dell’intervista andata in onda il giorno 23 Gennaio 2023.

Lvtvm – Irrational numbers

Ragione o sentimento? I Lvtvm parrebbero propendere per un approccio alla musica più ragionato. Ma se persino i numeri possono essere irrazionali, figuramici le sette note. E la musica contenuta nel nuovo album, “Irrational Numbers”, è un fluire di emozioni che va dal musicista all’ascoltatore!

Benvenuti su Il Raglio del Mulo, dal 19 settembre è disponibile il vostro secondo
album “Irrational Numbers”, avete dichiarato che è stato suonato in modo differente dal
suo predecessore ma che comunque si muove nel solco della continuità. Quali sono le
differenze e le similitudini con “Adam”?

Carlo: Salve a voi e grazie per averci dato l’opportunità di parlare di noi. Le differenze stanno nell’aspetto compositivo, in realtà sono un’evoluzione dell’ultima parte del primo disco, dove già veniva intrapresa una forma compositiva più complessa, nelle ritmiche e nell’armonia. Anche Adam ha pezzi composti in due anni ed in questo arco di tempo la musica evolve così come fa ogni musicista, a maggior ragione un lavoro di 8 anni. Credo che “Irrational Numbers” sia il consolidamento di un’idea di musica cominciata nel primo disco.

Il disco esce dopo ben otto anni di attesa e grazie a un manipolo di etichette (Cave Canem DIY, Controcanti Produzioni, Drown Within Records, Vollmer Industries e Zero Produzioni). Come è nata la collaborazione con queste realtà?
Alessandro: Le partnership sono nate casualmente, conoscendo mano a mano i nostri collaboratori durante i vari live. Con Marco Gargiulo di Metaversus PR abbiamo un rapporto decennale e confrontandoci, ci consigliò di far sentire il disco a Cristian di Drown Within Records e Alberto di Vollmer Industries. Il primo ci consigliò a sua volta di scrivere anche a Davide di Zero Produzioni. Hanno tutti creduto nel nostro progetto alla fine. L’amicizia con Domenico di Controcanti Produzioni è abbastanza recente. Sono membro di un gruppo FaceBook di settore nel quale fin da subito ho legato con lui grazie alle nostre affinità sulle band underground, la collaborazione è nata naturalmente. Infine parliamo di Cave Canem, che è la nostra realtà! Associazione culturale dal 2008, abbiamo una sala prove/home studio allestita con le nostre mani grazie ad un fondo concessoci dal comune di Arcidosso. I gruppi che vogliono possono
venire a provare lì, dando un piccolo contributo, hanno tutto il materiale a disposizione. Ci autofinanziamo per permetterci di autoprodurci e di promuovere band dell’underground che reputiamo facciano musica interessante. Organizziamo un festival annuale dal nome Come le Mine, dove ospitiamo gruppi di ogni genere purché ci piacciano, è la nostra festa e col tempo, con una gestione attenta, siamo riusciti a crescere ed a creare un nome, tanto che nell’ultima edizione sono arrivate famiglie intere con camper e tende per partecipare alla serata. Siamo stati
molto soddisfatti.

A proposito di collaborazioni, ho letto un post sulla vostra pagina FaceBook in cui ringraziate Lorenzo Gonnelli e Damiano Magliozzi, quale è stato il loro apporto?
Carlo, Alessandro: Il quinto elemento del gruppo è il titolare di Gorilla Punch Much, Damiano Magliozzi, nostro fonico di fiducia (ormai canta ogni melodia meglio di noi), nonché colui che ha mixato il disco. Ci aiuta anche in fase di promozione, insomma c’è dentro fino al collo (poverino!). Siamo convinti che gli debbano dare una laurea ad honorem in psicologia per riuscire a farci stare calmi durante i tour. E’ una voce con un enorme peso, anche perché centellina ogni parola che dice, quando esprime un’opinione va assolutamente ascoltato con attenzione, ci fidiamo ciecamente di lui. Stessa cosa vale per Mike, ex tastierista del gruppo, colui che ha gettato le basi per la band e senza il quale mai saremmo partiti. Ogni suo consiglio è importante è come fosse una seconda coscienza. Per quanto riguarda Lorenzo, beh dovremmo scrivere un libro per elencare i suoi pregi, ma soprattutto ascolta la nostra musica e coglie subito le nostre intenzioni, una cosa incredibile. Ha un approccio così “sinestetico” che trasforma la musica in immagini, riesce a portarci dentro al suo mondo spiegandoci da dove nascono e perché nascono le sue idee. Conserviamo ancora il progetto del video di “Twalking” di “Adam”, un libretto rilegato e plastificato con una cura ed una professionalità altissime, quando lo vedemmo pensammo “alt d’ora in poi facciamo tutto con lui”, oltre al fatto che è di Arcidosso, un amiatino come noi e considerando il concept di “Adam”, dove abbiamo rimarcato più volte l’importanza delle nostre radici, beh con lui siamo siamo davvero in una botte di ferro.

Il vostro primo disco si intitola “Adam”, il primo uomo, il numero uno; questo secondo lavoro si chiama “Irrational Numbers”. C’è un collegamento tre i due titoli o si tratta solo di una mia sega mentale?
Isacco: ll collegamento tra i titoli ovviamente c’è e ricalca anche quella che è stata la nostra evoluzione musicale. “Adam” è l’uomo venuto dal fango che nasce cresce fino a confrontarsi col mondo e con la natura. Ma è lui stesso un essere naturale che viene dalla terra. Invece con con i numeri irrazionali abbiamo voluto rappresentare il mondo e la natura concepiti come altri da sé, cosicché l’uomo di fango debba confrontarsi con ciò che ha dentro per organizzare secondo le sue modalità quello che lo circonda. Quindi qui c’è un discorso di oggettivazione del mondo/natura avendo la certezza che non tutto può essere compreso e misurato.

Rimanendo in tema di musica, quanto c’è di matematico della vostra musica e quanto di istintivo? Si direbbe che la prima abbia la meglio sul secondo quando componete…
Carlo: L’elaborazione di questo materiale non prevede la creazione del pezzo alle prove perché richiederebbe uno sforzo davvero grande. Non è sufficiente elaborare un riff e farlo girare per fare un pezzo della nostra musica, poiché è richiesta la coesistenza di due strumenti che lavorano sulle stesse frequenze e la stratificazione delle stesse con le tastiere richiede una fase importante di scrittura in modo tale che non ci siano dei “buchi”. L’approccio è relativamente matematico se ti riferisci all’impossibilità di battere il piede per portarti i quarti, ci sono cambi di tempo e tempi composti, ma questa è una scelta compositiva per supportare le nostre idee o emozioni. Quindi direi che non c’è né matematica né istinto bensì composizione.

In “Holzwege” chiamate in causa Martin Heidegger, la cui opera si basa soprattutto sulla parola scritta. Voi invece avete fatto la scelta opposta, ovvero quello di non utilizzare la parole. Come avete lavorato per poter esprimere, utilizzando solo dei suoni, i concetti del filosofo tedesco?
Isacco: Nell’opera di Heidegger i sentieri interrotti rappresentano il linguaggio e il guardaboschi invece il poeta che sa districarsi tra questi sentieri. Il poeta usa la parola liberamente utilizzandola anche in maniera errata, la famosa licenza poetica, gli dona un senso diverso che può essere duplice, contraddittorio, rivoluzionario, ambiguo, evocativo… egli si arrischia nel linguaggio. Il nostro linguaggio è la musica e noi cerchiamo di non porci delle limitazioni in campo musicale, come il guardaboschi ci addentriamo in questi sentieri cercandone sempre di nuovi e facendoli nostri. Questa traccia è stata la prima composta dopo Adam, quando con noi era sempre presente Mike. Rappresenta un cambio di prospettiva, una svolta. Proprio come per Heidegger Holzwege rappresenta la svolta del linguaggio. Questa ricerca c’è in tutto il disco e cominciava già ad essere presente nella parte finale di “Adam”.

In generale, durante la composizione del disco avete mai avuto la tentazione di inserire delle parti cantate?
Alessandro: Il cantante polarizzerebbe troppo la musica secondo noi, a quel punto andrebbero scritti pezzi “su misura”. Alla fine abbiamo deciso che preferiamo il canto dei nostri strumenti.

La copertina, invece, cosa rappresenta?
Lorenzo: La copertina rappresenta un cambio di pelle rispetto all’album precedente. Si passa da una temporalità e assenza di spazio, presente in Adam, a una ricerca di un tempo e luogo per il riconoscimento di se stessi. L’architettura brutalista, tramite i suoi complessi schemi, va a creare lo sfondo su cui la sfera appoggia. Sfera che va a rappresentare la ricerca di perfezione a cui ogni individuo ambisce, ma allo stesso tempo riflette e distorce il percepito di noi stessi. Il bosco diventa città, gli alberi diventano palazzi che tendono verso il cielo come per elevarsi verso il metafisico e distaccarsi dal terreno, i sentieri diventano strade complesse dove districarsi. Città in continua espansione come lo spazio stesso, sempre più articolate nella propria ricerca dell’infinito. Il font utilizzato rimarca il concetto andando a utilizzare un tratto spesso e strutturato. Un passaggio dall’organico al sintentico.

In chiusura la domanda di rito, avete date in programma?
Matteo: Ovvio ci sono, ma non abbiamo fretta, nel senso che ci siamo resi conto di necessitare del luogo e del contesto adatti. In primo luogo vorremmo sempre Damiano con noi, senza di lui la nostra musica perde, perché si fonda su un equilibrio costante dei livelli dei singoli strumenti, se si perdono le sfumature si perde anche il nostro lavoro. Stiamo organizzando una release ufficiale in teatro ad Arcidosso, dove sono coinvolte molte persone tra cui 3 teatranti, che apriranno il concerto con un dialogo scritto da loro ispirato allo spazio ed al tempo e i visuals dei nostri fratellini Q2 Visuals con i quali abbiamo sempre collaborato. Vogliamo offrire uno spettacolo a 360 gradi.

Caravaggio – Chiaroscuri musicali

I Caravaggio si contraddistinguono per la presenza nella propria line-up di membri degli Adramelch, band che ha legato indissolubilmente il proprio nome alla storia del metal tricolore. Pur se con alcuni elementi in comune con la storica realtà che ha dato le stampe “Irae Melanox”, i Caravaggio si presentano come una realtà molto variegata che, partendo da una matrice hard-prog, assimila nel proprio disco omonimo di esordio le sonorità più disparate del bacino mediterraneo.

Benvenuti, direi di partire ripercorrendo le tappe che vi hanno portato dagli Adramelch alla creazione dei Caravaggio…
Vittorio: Adramelch e Caravaggio sono due storie molto diverse tra di loro. Conosco Fabio da quando fui cantante ospite sul demo degli Anathema, band milanese, di cui Fabio faceva parte, fine anni 80, primi 90. E stimandolo come persona e come musicista, quando si riformarono gli Adramelch agli inizi del millennio, nonostante soprattutto all’epoca il “chitarrista metal” non fosse un esemplare raro, lui fu il primo che invitai a provare, e le cose effettivamente andarono subito benissimo, sia umanamente che musicalmente. I Caravaggio nascono prima della fine degli Adramelch, anche se con nomi diversi, inizialmente come progetto a due, poi allargato a quattro. E’ da allora che lavoriamo insieme e i primi brani nascevano proprio in quei giorni, anche se la versione che ascoltate oggi è davvero molto lontana da quella degli inizi.

Come mai avete scelto proprio Caravaggio come nome per la band?
Fabio: Spesso si ha l’impressione che le band italiane che si affacciano all’estero cerchino di emulare i colleghi americani e europei. Noi vorremmo ribaltare questa prospettiva. Invece di nascondere la nostra provenienza mediterranea, la evidenziamo facendone un elemento distintivo. Anche a partire dalla scelta del nome! Caravaggio è stato un artista incredibile, talentuoso e irrequieto, come una rockstar ante-litteram. E, in quanto milanese, rappresenta anche la nostra collocazione geografica.
Vittorio: E la musica risente come è naturale, molto pesantemente di questa scelta. I suoni le melodie e la strumentazione utilizzata richiamano proprio la mediterraneità che desideriamo ostentare.

Quali sono gli elementi tipicamente Adramelch presenti nel sound dei Caravaggio?
Vittorio: Questa è una domanda difficile, Giuseppe, ma forse la risposta più onesta è quella più immediata: gli elementi Adramelch siamo proprio noi. Capisco che suoni un po’ come una auto incensazione ma che la voce, con il suo timbro, la sua pronuncia, la sua estensione siano un tratto distintivo di una band credo sia un’affermazione condivisibile anche dai non cantanti, no? Ascoltando un brano nuovo, riconosciamo con certezza la band, quando entra la voce – bella o brutta che sia. Quanto a Fabio, beh, le differenze tra Adramelch Mark I (“Irae Melanox”) ed Adramelch Mark II (da “Broken History” in poi) credo siano dovute in larga parte al suo apporto in fase di arrangiamento. Il marchio di fabbrica degli Adramelch, resta il songwriting di Gianluca, ma la crescita netta che si ascolta nel Mark II, è merito della mano di Fabio e quel talento, quella vena, nei Caravaggio trova piena realizzazione in quanto si applica a (bellissime) song create da lui stesso  – e poi arricchite dalla band, naturalmente

Viceversa, quali sono gli elementi che contraddistinguono in modo univoco questa nuova creatura?
Fabio: Dal punto di vista della scrittura dei brani ne individuo due. Prima di tutto credo che i Caravaggio siano contraddistinti dalla predominanza della melodia. Anche se utilizziamo tempi dispari o cambi di tempo, oppure accordi inconsueti, tutto è al servizio delle linee melodiche, soprattutto della voce. L’attenzione dell’ascoltatore non viene catturata dal fatto che stiamo suonando in 5/4 o in 7/8, perché la melodia scorre in maniera naturale, senza sbalzi. L’altro importante elemento è la presenza di suoni che non ti aspetti da una rock band: fisarmonica, mandolino, bouzouki, nacchere, scacciapensieri, flauto, tante percussioni diverse… La mia speranza è che, col tempo, i Caravaggio possano essere riconosciuti anche per lo stile dei singoli musicisti, a partire dal timbro unico della voce di Vittorio.

Nei Caravaggio troviamo, oltre ai due ex Adramelch anche altri due musicisti, vi andrebbe di presentarli?
Vittorio: Molto volentieri. Andiamo in ordine temporale: Marco, il bassista, è amico di Fabio da moltissimi anni ed è stato suo sodale in diverse band, suonando i generi più diversi. Fabio negli anni mi ha parlato di Marco innumerevoli volte, lodandone tecnica e sensibilità, ma prima dei Caravaggio non c’era mai stata occasione di suonare insieme, ma neanche di vederlo all’opera. In questo senso devo dire cha la prima sala prova con Marco è stata davvero mindblowing, ma quello che Marco è riuscito a costruire poi sui nostri brani, l’apporto che ha dato ad ogni singolo brano è andato ancora oltre. Marco ha una tecnica davvero notevole, ma di musicisti tecnicamente preparati ce ne sono molti, lui invece alla tecnica unisce una sensibilità ed una capacità di mettersi al servizio della musica, davvero rarissime. Sono convinto che musicalmente Marco abbia pochi “competitor”. Sono davvero molto felice di poter cantare con lui. Alessio è il più giovane della band. Suonava in un gruppo metal di un amico a cui ho chiesto “il permesso” di contattarlo. Alessio ha una testa pazzesca. Proviene dal metal più estremo, ma ascolta e suona di tutto dal jazz al prog passando per blues, rock… è un didatta appassionato, che si dedica anima e corpo al suo lavoro e che desidera più di ogni altra cosa trasmettere la passione per la musica ai suoi allievi. Nella band si è inserito – nonostante il gap generazionale – perfettamente, proprio grazie a questo approccio aperto ad ogni possibile contaminazione. E’ propositivo e proattivo ma sa anche ascoltare e come tutti noi mette la riuscita della musica al primo posto, tralasciando ogni vuoto personalismo. Che dire? Siamo davvero molto fortunati! E se sulla formazione posso aggiungere una cosa, dico che un fisarmonicista fisso in organico sarebbe una gran cosa. Per la registrazione del nostro album abbiamo avuto la fortuna e l’onore di avere tre ospiti di alto lignaggio (Nadio Marenco, Carmine Turilli e Mauro Poeda) che hanno impreziosito i nostri brani con la loro arte… ma un musicista che entra in organico e che collabora anche alla creazione dei brani e al loro arrangiamento è un’altra cosa. Fino ad oggi le ricerche sono state vane ma se tra i vostri lettori dovesse esserci qualche candidato, saremo felicissimi di incontrarlo!

Il booklet del disco è molto curato ed è arricchito da delle meravigliose illustrazioni, chi è l’autore e cosa rappresentano?
Fabio: Abbiamo avuto la fortuna di poter utilizzare, fin dai primi singoli, le opere del pittore Gianfranco Ferlazzo, amico di lunga data di Vittorio. Da subito il suo stile, così dinamico, colorato e moderno, ci è sembrato perfetto per rappresentare la nostra musica. All’interno del corposo booklet del cd abbiamo abbinato una sua opera ad ogni canzone, in base al significato del testo. Porteremo avanti questa collaborazione anche per gli album futuri. Personalmente ho sempre apprezzato la scelta di band come Yes, Molly Hatchet o Iron Maiden di collaborare in maniera continuativa con lo stesso artista, così da avere una certa coerenza estetica.

Il disco è ricco di suggestioni mediterranee, in particolare spagnole, a cosa sono dovute queste particolari sonorità?
Fabio: Sono da sempre attratto dalla musica tradizionale di tante aree geografiche. Allo stesso tempo sono molto deluso quando il rock diventa prevedibile, quando utilizza dei cliché. Quindi per me è molto naturale contaminare la musica rock con elementi di tradizioni apparentemente lontane. L’influenza spagnola a cui ti riferisci è presente soprattutto nel brano Guernica. Una buona parte della storia raccontata in Guernica si svolge in Spagna durante la guerra civile del 1936-39, quindi ho cercato fin dall’inizio di comporre pensando al flamenco o al celebre “Bolero” di Maurice Ravel. Il successivo inserimento della fisarmonica e delle nacchere ha esaltato le suggestioni iberiche…
Vittorio: Trovo davvero che queste contaminazioni, che come a me pare del tutto evidente sono nate insieme alla musica stessa, contribuiscano in maniera importante alla riconoscibilità del sound. Trovo straniante e coinvolgente ad esempio che l’opener “Before My Eyes”, che pur ospitando fin dall’inizio percussioni e suoni poco consueti nel rock, dopo un break di atmosfera veda l’ingresso della fisarmonica che piazza un solo stellare che poi conduce a un bridge decisamente hard rock (che a me ricorda molto un brano degli Anathema, presente nel demo che menzionavo all’inizio)… Una caratteristica di molti brani del nostro album è probabilmente proprio l’imprevedibilità. Mica poco per una band che fa musica rock, no?

In generale, come descrivereste il vostro sound?
Fabio: Vediamo… Oltre al progressive storico e al neo-prog, c’è sicuramente l’hard rock classico, ma anche influenze che derivano dal pop degli anni 80 e dalla musica tradizionale italiana, spagnola e nord-africana. La sintesi più efficace può essere questa: mediterranean-progressive-rock!

In chiusura, avete già delle date in programma?
Vittorio: Purtroppo ancora no. Abbiamo diversi contatti con festival internazionali specializzati in Progressive, ma inevitabilmente si tratta di possibili partecipazioni alle edizioni future… Siamo davvero entusiasti del fatto che i primi riscontri della stampa di settore siano stati così buoni e ci auguriamo che questo porti qualche data e soprattutto interesse per la nostra musica.

Marco Mattei – Fuori controllo

Marco Mattei ha pubblicato da poco il suo primo album solista, un lavoro in grado di coinvolgere, grazie al livello altissimo del suo songwriting, personaggi di spicco della scena internazionale, progressive e non, come Tony Levin (King Crimson, Peter Gabriel), Fabio Trentini (Le Orme, Markus Reuter), Jerry Marotta (Peter Gabriel, Hall & Oates), Pat Mastelotto (King Crimson, XTC), Chad Wackerman (Frank Zappa, Allan Holdsworth), Clive Deamer (Portishead, Radiohead, Robert Plant). Ecco come Marco ci ha presentato “Out Of Control” (Synpress44).

Ciao Marco, complimenti per il tuo primo album da solista: cosa si prova a vedere il proprio nome su una copertina?
Una sensazione un po’ strana a dire il vero. Quando ho deciso di realizzare questo progetto ho valutato la possibilità di utilizzare il nome di una band fittizia ma alla fine ho deciso di pubblicare il disco a mio nome. Ho pensato che se credevo nei miei brani avrei dovuto metterci la faccia, per così dire, piuttosto che nascondermi dietro uno pseudonimo.

Questa esperienza da solista credi ti abbia fatto crescere come musicista e aggiunto altro rispetto a quanto maturato nelle precedenti esperienze come membro di una band? Sicuramente. Essere parte di una band consente di dividere i compiti concentrandosi idealmente sui nostri punti di forza e, in generale, sugli aspetti che ci consentono di contribuire al meglio. Un progetto solista comporta una responsabilità completa, dall’inizio alla fine, su tutti gli aspetti che vanno dalla composizione alla registrazione, alla scelta dei musicisti con cui collaborare; produzione, missaggio, grafica, pubblicazione e promozione. Penso la crescita maggiore sia venuta, oltre che dalla collaborazione con i grandissimi musicisti che hanno partecipato al progetto, dal confrontarsi con tutti questi aspetti in prima persona, cercando di prendere decisioni consistenti con la visione che avevo per il disco e di trovare gli equilibri giusti per la sua riuscita.

Prima di passare alla musica, ti andrebbe di spiegarci il concept del disco?
“Out Of Control” è un concept album sulle cose che non possiamo controllare. L’intuizione chiave è la realizzazione che molti aspetti di ciò che percepiamo definire la nostra identità, come il colore della nostra pelle, il luogo e il momento storico in cui siamo nati, le nostre condizioni di salute, e anche le persone che incontriamo nel nostro percorso, non sono sotto il nostro controllo. E il messaggio principale è che questa realizzazione dovrebbe portare a un cambiamento di prospettiva: quando ci mettiamo nei panni degli altri, ci permettiamo di diventare più aperti ed empatici. L’altro aspetto è che non possiamo controllare la mano che ci viene data, ma possiamo sicuramente decidere come giocarla. Oltre alla mia passione per la musica, diffondere questo messaggio di empatia e inclusione è una delle cose che mi motiva.

Il momento creativo è uno di quelli “out of control”? E se sì, quanto è necessario poi passare a una fase di razionalizzazione prima di rendere pubblica un’opera?
Il momento creativo è sicuramente un’esperienza diversa per diversi musicisti. Nel mio caso non c’è una sola modalità. A volte ci sono brani che arrivano velocemente non si sa bene da dove, con musica e testo. A volte l’approccio è molto più ragionato e consapevole, partendo da un’idea di un sound, un’emozione che si vuole esprimere in musica o un messaggio che si vuole comunicare e sperimentando soluzioni diverse fino a raggiungere un risultato soddisfacente o ad accantonare l’idea stessa. La realizzazione, almeno nel mio caso, è invece consistentemente più elaborata. Di solito creo una demo, suonando tutti gli strumenti e cantando una voce guida, per poi rimpiazzare le tracce differenti ad una ad una con le registrazioni dei musicisti coinvolti, incluse, potenzialmente quelle degli strumenti che suono io stesso nei diversi brani. A quel punto si tratta di trovare gli equilibri giusti in fase di missaggio e di mastering. Il missaggio è una fase per me particolarmente importante, creativa al pari di quella di composizione e registrazione e della quale mi sono occupato personalmente in questo disco.

Nel disco spiccano i nomi di Tony Levin (King Crimson, Peter Gabriel), Fabio Trentini (Le Orme, Markus Reuter), Jerry Marotta (Peter Gabriel, Hall & Oates), Pat Mastelotto (King Crimson, XTC), Chad Wackerman (Frank Zappa, Allan Holdsworth), Clive Deamer (Portishead, Radiohead, Robert Plant), come sei riuscito a coinvolgere questi grandi artisti nel tuo progetto?
Dopo aver scritto musica e testi ho iniziato a collaborare con una serie di ottimi musicisti per registrarlo, per la maggior parte amici e collaboratori di lunga data. Per un paio di brani, “Would I Be Me” e “On Your Side”, avevo in mente un suono ed un groove specifico. Ho chiesto a diversi batteristi di suonare nello stile di Jerry Marotta ma nessuno riusciva a farlo in maniera soddisfacente. Da lì ho avuto l’idea di provare a contattare Jerry. Dopotutto chi meglio di lui avrebbe potuto suonare nel suo stile? Dopo aver ascoltato i brani, Jerry ha molto gentilmente accettato di suonare. Poi mi ha detto: «Secondo me dovresti far suonare il basso a Tony Levin su questi brani». «Stai scherzando?» gli ho detto. «Certamente!» Jerry Marotta e Tony Levin, la sezione ritmica di Peter Gabriel dei primi dieci anni della sua carriera solista, una combinazione fantastica. Da li con una serie di referenze sono riuscito a coinvolgere anche gli altri “grandi” che hai citato. La chiave per me è comunque stata quella di coinvolgerli in maniera funzionale alle necessità dei vari brani, scegliendo di volta in volta il musicista più adatto allo scopo e chiedendogli di essere sé stesso. Ovviamente per me è stata una soddisfazione particolare non solo vedere come siano riusciti a realizzare in maniera brillante e personale la mia visione musicale ma anche aver collaborato con alcuni dei miei punti di riferimento come musicista.

Per la tua storia e per gli ospiti coinvolti, viene facile classificare “Out of Control” come un disco progressive. Ma lo è veramente? Per me è un album che affonda le sue radici negli anni 60 e in tutti i risvolti sonori di quell’epoca, dal pop al progressive.
Concordo con te sul fatto che questo disco non sia progressive nella forma ma, dal mio punto di vista, lo è nello spirito e nelle intenzioni, per cosi dire. In comune col progressive c’è una ricerca del suono che in questo caso si traduce nell’utilizzo di un’ampia gamma di strumenti, da quelli più tipici del rock (basso, batteria, chitarra), a quelli di ispirazione prog (moog, mellotron) a quelli etnici (sitar, bozouki, foschietto irlandese, mandolino). Sempre nello spirito prog, negli arrangiamenti c’è la ricerca di una profondità che si realizza attraverso variazioni continue e stratificazione sonora. Ne derivano una complessità ed una diversità che hanno l’obiettivo di far risultare i brani più interessanti e che consente ad ogni ascolto di scoprire nuovi particolari. Gli anni sessanta, soprattutto la seconda parte, sono stati un’epoca rivoluzionaria che ha influenzato la musica per decenni a seguire. Sono un grande fan della musica di quel periodo, in particolare dei Beatles, Simon and Garfunkel, CSNY, Pink Floyd, Hendrix, King Crimson e molti altri. Non mi sorprende che tu senta quelle influenze nel disco.

Possiamo definirlo, nonostante la sua complessità e la sua varietà, un disco chitarra oriented? Questo strumento, trova ampio spazio anche sotto forme diverse (chitarra elettrica, acustica, bouzouki e resofonica).
Mah, non saprei. Essendo un chitarrista penso sia naturale aspettarsi che il mio strumento possa trovare ampio spazio. La mia intenzione è stata comunque quella di privilegiare le composizioni. L’utilizzo di diversi strumenti a corda è stato guidato dalla voglia di sperimentare e di ampliare la paletta timbrica.

Il disco è arricchito da tutta una serie di strumenti atipici in ambito rock, come il fischietto irlandese, il flauto, il violino, il mandolino, la pedal steel guitar, il sitar e la tambura. Credi che questa scelta sia una sorta di retaggio della tua vita da giramondo?
Sicuramente. Come dicevo c’è nel disco una ricerca e sperimentazione timbrica, tesa a diversificare e rendere più interessanti le sonorità. In questa ricerca è più che possibile che i tanti viaggi e l’opportunità che ho avuto di vivere in sei paesi di tre diversi continenti abbia influenzato le mie scelte.

Ora vivi in America, qual è la situazione della scena musicale da quelle parti dopo un paio di anni d’emergenza pandemica? Ci sono segnali di ripresa?
L’America è un paese enorme e i diversi stati hanno reagito in maniera diversa all’emergenza. I grossi tour sono stati cancellati come in Europa ma in stati come il Texas dove vivo attualmente, non ci sono mai stati veri e propri lockdown. Dall’estate scorsa la musica dal vivo è ripresa in maniera sostanziale. Non siamo ancora alla situazione pre-Covid ma sicuramente ad un buon punto nella strada della ripresa.

Luca Di Gennaro – Il secondo avvento

Luca Di Gennaro ha legato il proprio nome a quello dei progster nostrani Soul Secret e ha collaborato con svariate band – Subsignal, Seven Steps To The Green Door e TDW – durante tutto l’arco della propria carriera. Dopo questo cammino, che è stato particolarmente formativo, ha deciso di compiere il fatidico passo dell’album solista, rilasciando nei primissimi giorni del 2022 per la finlandese Lion Music Records il lavoro autografo “The 2nd Coming”.

Ciao Luca, dopo diversi album con svariate band arrivi al tuo esordio solista con “The 2nd Coming”. Cosa ti ha spinto a questo passo?
Ciao Giuseppe e grazie innanzitutto per lo spazio dedicatomi. Mi è sempre piaciuto scrivere musica: lo trovo stimolante, divertente e gratificante. L’idea di creare un disco solista risale quasi all’inizio del mio percorso musicale, ma la spinta a pubblicarne uno – e quindi a formalizzare il progetto – è stata del mio amico Davide Guidone, manager della mia band Soul Secret. Composi “Chasing Next” e gliela feci sentire. Lui mi chiese quanti brani di questo tipo avessi a disposizione ed io risposi che al momento era l’unico. La sua risposta fu: “Fanne altri 6 o 7 e li pubblichiamo”. Aggiungici il fatto che amo le sfide, ed ecco qui “The 2nd Coming”.

I brani che sono entrati nel disco provengono da registrazioni e bozze precedenti, accumulate negli anni, o sono abbastanza recenti?
Sono quasi tutti brani i cui primi provini risalgono al 2008/2009. Quello di “Into the Rainfall” risale a qualche anno prima, non ricordo di preciso ma forse addirittura ai primi anni del 2000. Il perché ci siano voluti anni e anni è presto detto: volevo occuparmi personalmente dell’intera catena di produzione del disco ed inizialmente tutto suonava come una demo. Capii che per acquisire le competenze che mi permettessero di far suonare i brani così come desideravo ci sarebbero voluti tempo ed esperienza. Ho quindi studiato passo dopo passo tutti gli aspetti che ritenevo opportuni, come ad esempio missaggio e mastering, ed ho immagazzinato svariate esperienze durante questi anni, tra cui la collaborazione con Moog Music, i lavori con band straniere, la produzione di 5 dischi della mia band e di colonne sonore per videogiochi. Oltretutto, la musica non è il mio lavoro principale ma la mia più grande passione, quindi i tempi sono stati più lunghi. Alcuni brani hanno subìto modifiche anche importanti nel corso degli anni e, alla fine, solo oggi li sento così come volevo all’inizio. È stato un percorso lungo e soddisfacente che mi ha arricchito moltissimo.

Come cambia il tuo modo di comporre ed eseguire i brani quando lavori “in proprio” e quando lo fai in una band?
Nella scrittura solista si ha il vantaggio principale di avere una sola linea guida dettata dal proprio gusto, dovendo avere a che fare soltanto con la persona che dovremmo conoscere meglio e cioè noi stessi. Ovviamente hai più libertà ma anche più responsabilità perché tutto è sulle tue spalle. Nella scrittura di gruppo, invece, interagisci con altre persone che hanno le loro ispirazioni, i loro momenti e le loro convinzioni. Se tutti questi venti soffiano nella stessa direzione, il prodotto finale è più ricco, e l’ascolto critico di più persone aiuta la scrematura.

Quali musicisti hanno collaborato con te nel disco?
Li cito in ordine di apparizione. Alfonso Mocerino, batterista fenomenale dei Temperance e Starbynary, ha registrato tutte le parti di batteria acustica in sei degli otto brani. Sapevo che affidargli il compito sarebbe stata una mossa vincente, conoscendolo da tanti anni, ma non potevo immaginare che addirittura avrebbe fatto tutto in due giorni! Un vero professionista. David Wise, straordinario compositore inglese di fama mondiale per i suoi contributi nell’ambito dei videogiochi (Donkey Kong Country, Starfox Adventure, Battletoads etc.), ha registrato un assolo di sassofono contralto sul brano “Into the Rainfall”. Ogni volta che lo ascolto ho la pelle d’oca, pensando a quanto la sua musica abbia influenzato i miei gusti ed il mio stile. Nella title-track del disco sono presenti tre fantastici assoli di chitarra da parte di Maria Barbieri, chitarrista eccezionale che vanta citazioni da parte di capisaldi del genere come Robert Fripp, Franco Mussida e Steven Wilson, Stefano Festinese, chitarrista dei The A-renella Team e mio grandissimo amico, e Frank Cavezza, chitarrista dei Soul Secret, compagno di avventura e musicista di primissimo livello.

Facciamo un gioco: immaginando, un secondo disco solista e potendo contare su un budget illimitato, quali musicisti ti piacerebbe avere sul tuo album?
Devo necessariamente aggiungere una regola al gioco: escludo dalla lista i musicisti con cui suono attualmente nei Soul Secret perché sono tra i miei preferiti in assoluto e le risposte sarebbero troppo ovvie (ride, ndr)! Detto questo, vediamo… alla batteria chiamerei Gavin Harrison, al basso Tony Levin, alla chitarra Marco Sfogli, alla voce Russel Allen e, ovviamente, l’intera Orchestra Sinfonica di Londra!

Domanda a bruciapelo: ti consideri un virtuoso?
No, perché lo considero un punto di arrivo. Ho ancora un’infinità di cose da scoprire e imparare. Al momento, possedere la tecnica per eseguire ciò che di volta in volta ho in mente e canalizzare il resto delle forze nella creatività e nella scoperta di nuova musica è ciò a cui mi sto dedicando.

Il disco è molto vario, questo risultato è una scelta voluta o è il frutto dell’istinto?
Frutto dell’istinto, in quanto mi piace suonare ed ascoltare di tutto. Come dicevo prima parlando di David Wise, i videogiochi hanno avuto una grande influenza sui miei gusti musicali. Quelle colonne sonore contengono davvero di tutto, poiché devono adattarsi a miriadi di situazioni diverse, e questa ricchezza di ascolto nella mia “adolescenza musicale” mi ha permesso l’ascolto dei generi più disparati senza alcun pregiudizio.

Mi incuriosisce il titolo “The 2nd Coming”, lascia più pensare a un secondo disco che a un esordio (anche se da solista). Mi spiegheresti questa scelta?
Il titolo fa riferimento al mio approccio alla musica. A casa c’erano vari strumenti musicali ed un giorno per scherzo imbracciai la chitarra classica. I miei genitori mi incoraggiarono a prendere lezioni, che però non portarono a risultati immediati. Mi avvicinai allora al pianoforte, ma persi l’interesse dopo un anno. Con il senno di poi ho capito che queste due esperienze erano dei semi giusti che non attecchivano perché il terreno era sbagliato. Fu quando un amico del liceo mi prestò un album strumentale prog metal che ebbi la rivelazione: ecco dove mi sarebbe piaciuto applicare tutte quelle conoscenze acquisite! Ripresi lezioni di pianoforte e mi interessai da autodidatta allo studio degli altri strumenti. Il mio ingresso nel mondo della musica è quindi riconducibile ad un primo tentativo blando e poi ad un “secondo avvento”: la chitarra e poi il pianoforte, la musica classica e poi la musica rock. La copertina del disco e la title-track giocano su metafore attinenti a questa storia personale.

Hai intenzione di proporre questi brani dal vivo o resta un progetto da studio?
Non ci ho ancora pensato, sicuramente dipenderà dall’interesse che ci sarà attorno al disco. Di sicuro posso dirti che i brani non sono stati pensati per un’esecuzione fedele dal vivo e ci sono talmente tante tastiere in contemporanea che la gente chiamata a suonare sul palco sarebbe davvero troppa (ride, ndr). Vedremo! Spero innanzitutto di poter tornare sul palco quanto prima: come diceva il mio maestro di pianoforte, “suonare significa suonare dal vivo”.

Paolo Tofani – Indicazioni

A 44 anni di distanza dalla pubblicazione di “Indicazioni”, album studio sulla chitarra edito dalla Cramps, Paolo Tofani torna con “Indicazioni Vol. 2” (Aventino Music / ufficio stampa Qalt). Il nuovo album raccoglie delle improvvisazioni  registrate con la Shyama Trikanta, una speciale chitarra progettata dallo stesso chitarrista degli Area.

Ciao Paolo, ai tempi della pubblicazione di “Indicazioni” nel 1977 avresti mai immaginato di dare un seguito a quel disco dopo ben 44 anni?
Il passare del tempo è soltanto una espressione della dualità in cui viviamo. Il principio che io seguo è quello dell’Utilità, quindi, fino a quando potrò continuare a stimolare i giovani musicisti a sviluppare una visione più ampia fuori dalla banalità della cultura musicale dominante, potrò considerarmi soddisfatto.

I fattori che ti hanno spinto a pubblicare solo oggi il volume due sono di natura endogena o esogena? Mi spiego meglio: hai avvertito dentro di te che hai acquisito una nuova conoscenza del tuo strumento tale da poter dare nuove indicazioni oppure hai sentito che il mondo esterno era così cambiato che era necessario dare delle nuove indicazioni più vicine a quelli che sono i canoni odierni?
L’esperienza della vita ti regala grandi spostamenti di coscienza. Di conseguenza, la consapevolezza acquisita modifica il tuo piano di intervento creativo, lo arricchisce e l’espande (grazie anche alle nuove tecnologie), e il desiderio di condividere diventa forte. Ovviamente, c’è da considerare lo squallore creativo del presente, e quindi i due aspetti da te menzionati sono presenti in eguale misura.

I brani nascono tutti da improvvisazioni, ma come hai capito quale di queste improvvisazioni inserire nel disco e quali no?
La musica spontanea nasce, cresce e muore in maniera naturale; occorre, soltanto, un raffinato udito e una grande umiltà.

Hai del materiale scartato che in futuro potrebbe finire in un “Indicazioni Vol. 3”?
Ho realizzato moltissimo materiale, che può essere ascoltato su https://paolotofani.bandcamp.com/, da potere regalare centinaia di indicazioni.

Il mercato musicale dagli anni 70 ad oggi è molto cambiato, così come anche l’approccio allo strumento. Credi che l’impatto che il volume 2 possa avere sull’ascoltare sia in qualche modo paragonabile a quello avuto a suo tempo dal volume 1 o ci troviamo innanzi a due tipologie di pubblico con sensibilità e interessi totalmente diversi?
Questa indicazione, paradossalmente, è meno tecnologica, e la chitarra è la vera protagonista; ma dipende sempre dall’interesse dell’uomo.

Il disco è stato registrato con una chitarra ideata da te, Shyama Trikanta. Quanto tempo ti ha portato via la progettazione di questo strumento e quali sono le caratteristiche che lo rendono unico?
La Shyama trikanta soddisfa li mie esigenze sonore più aggressive. È uno strumento molto tecnico, con soluzioni stimolanti e insolite. I tre manici producono suoni molto diversi fra loro (questo è il significo della definizione Trikanta, tre voci). Si passa dall’arpa a 20 corde, con accordature custom, alle 7 corde del manico centrale e 3 corde sul terzo manico senza tasti, quindi interessanti opzioni per scivolare in fraseggi atonali, e una coppia di corde doppie (tipo bouzouki), anche esse con accordature custom. Ci sono resonator speciali e pickup esafonici, per controllare synths via computer, ecc… Essendo uno strumento elettrico, si possono generare feedback molto interessanti e giocare con armonici di grande ampiezza. Senza dubbio uno strumento fantastico, unico al mondo, molto stimolante da utilizzare.

Quanto tempo dedichi ancora allo studio della chitarra giornalmente?
Nessun tempo.

Con gli Area vi fregiavate del titolo di POPular Group, ma si può ancora parlare di musica popolare e musica colta? Il confine è veramente così netto?
La musica, oggi (a parte alcune anime libere), non è più popolare, ma commerciale di basso livello e, francamente, non ho nessun interesse per essa.

Quali progetti hai in serbo per il futuro?
Continuare a essere utile, se Krsna vuole. Hare Krsna.

Stefano Panunzi – Oltre l’illusione

“Beyond the Illusion” è il nuovo lavoro del tastierista Stefano Panunzi, musicista romano attivo in proprio ormai da più di un decennio. Nel suo terzo album solista (distribuito da Burning Shed / Metaversus PR) è accompagnato da artisti di fama internazionale tra cui spiccano i nomi di Tim Bowness (No-Man) e Gavin Harrison (Porcupine Tree, King Crimson e tanti altri). “Beyond the Illusion” è un collage lunatico di influenze progressive: un’opera che affonda le sue radici tra l’art rock (con una dedica al compianto Mick Karn dei Japan che suonò nei primi due album solisti di Panunzi), l’ambient jazz e l’alternative rock.

Salve Stefano, i miei complimenti per il tuo nuovo disco. In “Beyond the Illusion” sei circondato da numerosi – e direi prestigiosi – ospiti, è stato difficile riuscire a coinvolgerli e soprattutto a coordinare il tutto nella lavorazione dell’album?
Non ho avuto difficoltà a coinvolgere gli artisti presenti nell’album, anzi, devo dire che c’è stata una bella coesione e un grande entusiasmo da parte loro. Inizialmente pensavo che Tim Bowness potesse cantare in tutti i brani scritti in forma canzone, ma per una serie di sue ragioni personali, alla fine, ha cantato solo su “I Go Deeper” però mi ha proposto alcuni cantanti in alternativa, tra cui Grice, che contattato, ha aderito al mio progetto e alla scrittura di tre tracce. A parte Grice, conoscenza dell’ultimo momento, tutti gli artisti partecipanti sono conoscenze di lunga data, Tim Bowness e Gavin Harrison, tanto per citarne un paio, appaiono già sui miei album dal 2005!

Ho trovato molte affinità nel sound con i primi lavori dei Porcupine Tree (soprattutto nei brani strumentali) e No Man, quali sono le tue influenze?
Probabilmente ci sono atmosfere dei Porcupine Tree, nelle quali mi ci ritrovo, ma non ho mai pensato a loro quando le ho composte, ci sono delle strade che si intraprendono, e che in molti prendiamo perché è il genere che ci piace, è l’uso degli strumenti e delle ritmiche che ci esaltano, che ci intrigano, a volte si creano delle somiglianze, a volte no. Se somiglianze ci sono, sono casualità. Anche per quanto riguarda i No Man, ho letto un commento lasciatomi su YouTube in merito al video “The Portrait”, dove appunto si alludeva alla somiglianza con la band del duo Bowness/Wilson, ebbene, a me sembrano di più i Talk Talk!

Ci sarà modo – a emergenza pandemica conclusa – di vederti dal vivo magari accompagnato da qualche ospite del disco?
Non credo. Fino ad oggi, i miei progetti e i miei orientamenti sono stati rivolti solo alla realizzazione di album, e credo che questa sarà la strada anche per il futuro.

Nei tuoi lavori ci sono sia brani strumentali che cantati, è una decisione che prendi a priori quando componi un brano o è un qualcosa che viene sviluppato più avanti nella composizione?
La nascita di un brano strumentale o di una canzone non è sempre programmata, a volte è casuale. Parto con un’idea, una serie di accordi, una ritmica e pian piano che cresce realizzo se può tramutarsi in una canzone o rimanere strumentale, cerco di percepire il mood del fluido musicale, se l’atmosfera si adatta ad un cantante, se il giro d’accordi può essere funzionale ad un cantato, mi immagino un po’ il suo futuro…

Ho notato una particolare cura nelle grafiche (e nel packaging), ce ne vuoi parlare?
Trovo importante “incorniciare” le musiche e i testi in un packaging “giusto”, fatto di immagini, di colori e di trame grafiche adatte allo spirito e al sentimento dell’album. Per quanto riguarda “Beyond The Illusion”, ho avuto la collaborazione e il contributo artistico dell’inglese Stephen Dean Wells. Casualmente vidi delle elaborazioni grafico-digitali da lui fatte e mi impressionò perché rispecchiavano quel modo di vedere un po’ velato della realtà che sento mio, quella visione e percezione tra il sogno e la realtà. Mi piace quando l’arte è bellezza, non solo per la sua essenza, la sua intrinsecità, ma perché permette di aggiungere a chi la fruisce qualcosa di proprio, e apre porte su mondi infiniti di sensazioni e creatività.

La traccia “I Go Deeper” è cantata da Tim Bowness dei No Man, in che maniera sei venuto a contatto con lui e come mai la scelta di inserire il brano in versioni differenti dei vostri rispettivi album?
Conosco Tim da più di quindici anni, con lui ho avuto diverse collaborazioni, sia per i miei album come solista e sia per i progetti Fjieri, ma con lui anche anche altri grandi musicisti come Richard Barbieri, Gavin Harrison, Mick Karn (r.i.p.), Theo Travis, Robby Aceto, ecc. ecc. Lo contattai proprio per proporgli questo brano perché lo scrissi su invito della produzione del cortometraggio “Deep”, poi vincitore del 73esimo Film Festival Internazionale di Salerno. Tim fu entusiasta di partecipare e colse l’occasione di utilizzarlo, sotto altro arrangiamento, perché sentiva che mancava qualcosa di “fresco” all’album che stava realizzando in quel momento, cioè “Flowers At Scene”, così lo riarrangiò, lo fece missare da Steven Wilson e concluse felicemente quel suo progetto discografico. 

I tuoi lavori sono frutto di una ricerca musicale che raramente troviamo nella musica attuale, in che maniera pensi di collocarti nella scena odierna e c’è un futuro per il pop (per dare una definizione il più ampia possibile) di qualità?
Amo utilizzare quelle sonorità che già ascoltandole aprono praterie di sensazioni (ricordi il discorso sopra che feci sull’arte e della sua importanza a coinvolgerti con l’immaginazione?). Devo dire che crescendo con pane e Japan, british band del (mio) passato, qualche semino è stato depositato nella mia sfera creativa ed emozionale, e ringrazio di buon cuore Richard Barbieri (con lui ho una conoscenza personale quasi trentennale) per la ricerca di sonorità che sempre lo ha contraddistinto. Credo oramai che in un ambito musicale di nicchia un mio posticino, dopo 15 anni, lo abbia conquistato, non mi sento di appartenere ad un genere vero e proprio, spazio in quelle latitudini dove il senso estetico, la ricerca del suono, la melodia e lo schivare la banalità provano ad affacciarsi e a coesistere. Mi chiedi del futuro del pop? Io mi autoproduco, con sforzi porto vanti il mio mo(n)do di pensare e di creare, non devo rendere conto a nessuno. Più che altro, in una visione generale e di prospettiva, ci sarà il futuro per la musica indipendente? Non schiava di contest televisivi che alla fine creano cloni e schiavi di target mercificati e di edonismo?

A quali progetti stai lavorando in questo momento?
Ho messo in cantiere già diversi brani per il mio prossimo (quarto) album, sto contattando gli artisti ai quali affidare alcune sezioni strumentali e sto valutando quali cantanti coinvolgere nel progetto. Vorrei inserire nel futuro album anche dei piccoli racconti che accompagneranno l’ascoltatore nel nuovo percorso musicale. Insomma c’è da lavorare, ma sono molto fiducioso nella buona realizzazione di qualcosa di piacevole.

Marcello Capra – Note di bambù

Ospite di Mirella Catena ad Overthewall, uno dei protagonisti della scena musicale italiana già negli anni 70: il grande Marcello Capra!

E’ un piacere riaverti come ospite, Marcello. Per prima cosa ti chiedo di ripercorrere brevemente il tuo percorso musicale iniziando dagli storici Procession.
Il piacere è anche mio di essere nuovamente intervistato da te… già prima dei Procession ho iniziato a salire sui palchi con i miei Flash, poi il grande periodo del progressive italiano e tanti festival oltre ai dischi con i Procession. Dopo la pausa forzata del militare, ho iniziato a collaborare con Raffaella De Vita, Enzo Maolucci e Tito Schipa Jr. Nel frattempo ho maturato il mio primo lavoro solista “Aria Mediterranea” nel ’78, e da lì sono nati ancora una decina di lavori in guitar solo, partecipazioni a festival chitarristici internazionali, collaborazione con la grande Silvana Aliotta ex Circus 2000, concerti, tanti, ovunque.

Veniamo ai giorni nostri, come nasce il progetto Glad Tree?
Nasce una sera del 2013 ad un concerto di musica tradizionale indiana, incontro Lanfranco Costanza flautista che conoscevo da tempo e decidiamo di fondare insieme la band, pensando ad un ponte Occidente/Oriente insieme ad un valente percussionista indiano, Kamod Raj. Nel 2015 esce il nostro primo lavoro “Onda Luminosa” che riscuote notevoli apprezzamenti sia del pubblico che della critica. Nel 2017 un altro capitolo della nostra intensa attività “Ostinatoblu” con la partecipazione di una caro vecchio amico che già suonava on me l’organo Hammond nei Procession, Mario Bruno, cornista per decenni dell’orchestra del Maggio Musicale Fiorentino. Questo album invece risente maggiormente delle nostre esperienze nel blues e nelle musiche colte e popolari.

Da chi è composta la line up attuale?
Da me alle chitarre acustiche, Lanfranco Costanza flauti, armonica e voce e Massimiliano Andreo (Max) alle percussioni.

“Viaggio all’Isola di Tinder”, è un brano tratto dal vostro ultimo lavoro discografico “Bambù”. Come nasce questo pezzo?
E’ una mia “antica” composizione che ho anche inciso prima insieme a Silvana Aliotta nel mio album “Fili del Tempo” dal titolo “Dreaming of Tinder”, è un viaggio immaginario verso un’isola che non c’è, il desiderio di veleggiare sull’oceano della ricerca interiore.

Marcello, la copertina del cd è un vero gioiello. Chi l’ha ideata?
Non poteva che essere il nostro Lanfranco Costanza, chiamato anche Lanflauto, che ha realizzato tutte le copertine dei nostri tre lavori.

Dove i nostri ascoltatori possono tenersi aggiornati sui vostri prossimi concerti dal vivo?
Abbiamo la nostra pagina su FB, le nostre personali, ora siamo nella fase di preparazione al concerto per “Bambù”, la nostra tanto desiderata opera che siamo riusciti a registrare nel pieno della pandemia sempre nello stesso studio di registrazione dove abbiamo anche inciso i nostri lavori precedenti: Sound Sistemi di Paolo Guercio. Voglio citare anche l’etichetta discografica Radici Music Records che insieme a noi “alberi felici” ha saputo creare una splendida confezione intorno. Siamo distribuiti in ogni parte del globo anche su 23 piattaforme digitali per 240 paesi, oltre naturalmente la distribuzione italiana ed estera del CD.

Per concludere ci parli del brano che dà il titolo all’album, “Bambù”?
Un pensiero flessibile che ondeggia nell’aria, cerchi nell’acqua, lento ma incessante, un tema arioso che si snoda nella foresta…

Dove i nostri ascoltatori possono seguire i Glad Tree?
Potete seguirci sulle nostre pagine, sui siti di Radici Music e Youtube per ascoltare il video promo di Bambù.
Grazie di essere stato con noi! Grazie a Te Mirella, che sei una grande conduttrice radiofonica e una bella persona, un caro saluto a tutti a nome dei Glad Tree!

Ascolta qui l’audio completo dell’intervista andata in onda il giorno 19 Luglio 2021

Mess Excess – Musica da un altro mondo

Ospiti di Mirella Catena ad Overthewall, i Mess Excess, autori dell’album “From Another World Part 2” (Qua’Rock Records)…

Vi chiedo subito le origini della band, come nasce e avete iniziato da subito a fare musica inedita?
La band nasce a fine 2009 e per circa due anni e mezzo fu dedita solo all’esecuzione di cover di vari generi con l’intento di affinare l’intesa musicale e di trovare la giusta line-up. Raggiunto l’obiettivo decidemmo di imbarcarci nell’attuale progetto di musica inedita progressive, sia nella declinazione rock che metal.

Quali sono le vostre esperienze musicali precedenti a questo progetto musicale?
Abbiamo storie molto differenti, ciascuno di noi ha maturato il proprio background in base alle proprie esperienze personali. Abbiamo tutti alle spalle esperienze molto eterogenee in band e situazioni anche lontanissime. Questo caleidoscopio di influenze è la nostra ricchezza.

Da chi è formata la line up attuale?
L’attuale line-up, ormai stabile da oltre un anno, è costituita da Martina Barreca (Voce solista principale), Helene Costa (Seconda voce e Cori), Lorenzo Meoni (Chitarra), Fulvio Carraro (Tastiera), Andrea Giarracco (Basso) e Michel Agostini (Batteria).

Come definireste il vostro genere musicale e cosa portate di nuovo alla musica underground?
Come già accennato il nostro genere musicale è il progressive concepito a 360°, quindi sia in ambito rock che metal. L’ascoltatore attento potrà trovare nella nostra musica riferimenti evidenti ai grandi maestri del rock progressivo di fine anni ‘60-primi ‘70 come King Crimson, Yes, Rush, Genesis, Pink Floyd ecc… sia alle prime band che sdoganarono il genere in ambito metal negli anni ‘80 come Queensryche, Fates Warning, Dream Theater ecc… In quanto all’elemento innovativo lo possiamo trovare sicuramente nella voce femminile che nel genere è del tutto inusuale. Decidemmo di percorrere questa strada proprio per cercare un elemento distintivo tant’è che successivamente affiancammo alla voce solista un’altra voce femminile, principalmente dedita ai cori, che andasse a cucire, insieme alla voce principale, le trame vocali delle nostre composizioni caratterizzate da intrecci armonici che rappresentano il nostro marchio di fabbrica. Tanto per chiarire non abbiamo nulla a che vedere con le female-fronted band gothic metal che rappresentano il principale ambito in cui operano le voci femminili.

“From Another World Part 2” è il vostro nuovo concept pubblicato nel 2020 ed ha una continuità dell’album precedente. Come mai la scelta di pubblicarli in tempi diversi e non fare un doppio album?
“From Another World” è un concept che si estrinseca in due capitoli, appunto la parte 1 e la parte 2, perché sia la storia narrata che la musica che la descrive sono troppo estese per essere contenute in un solo album. Un album unico di quasi 100 minuti, con le tendenze contemporanee, se lo possono permettere solo le band affermate, pertanto decidemmo di comune accordo con la ns. etichetta, la Qua’Rock Records, di dividere il lavoro in due capitoli per facilitarne la fruizione ed anche per creare un po’ di suspense… il primo capitolo si chiude con un cellulare che squilla, lasciando del tutto irrisolte le trame del concept.

Parliamo del concept. Quali sono i temi che affrontate?
“From Another World” è un concept che trae origine dal contesto socio-politico mondiale del periodo in cui è stato scritto, cioè il 2015, per narrare la storia di un insegnante trentacinquenne americano di origine russa che un giorno, per caso, scopre dell’uccisione di un vecchio compagno di università tramite un notiziario televisivo. L’amico viene descritto come un terrorista, cosa che ai suoi occhi è del tutto inverosimile, i dubbi assalgono il protagonista che inizia a dubitare e decide di indagare per conto proprio sulla vicenda. La storia trova il suo sviluppo nell’eterna dicotomia interiore che affligge il protagonista: da una parte la ricerca della verità dettata dal dubbio sulla versione ufficiale e dall’altra la necessità culturale di non mettere in dubbio la reputazione del proprio paese. Quale delle due prevarrà?

Ho letto che la pubblicazione della seconda parte era prevista già nel 2018, come mai è slittata al 2020, anno difficile soprattutto per le promozioni dal vivo…
Purtroppo abbiamo attraversato un periodo caratterizzato da gravi problemi personali che hanno messo a dura prova la continuità del progetto musicale. Siamo ancora qui, più forti e determinati di prima.

Siete già a lavoro su qualcosa di nuovo?
Non possiamo anticipare granché in merito, di sicuro qualcosa sta bollendo in pentola, l’arrivo dei due nuovi membri che sono con noi da oltre un anno (Martina Barreca e Lorenzo Meoni) ha portato tanti elementi di novità anche a livello compositivo, quindi non vediamo l’ora di poterli condividere con voi. Continuate a seguirci e vedrete…

La riapertura dei locali, quelli che hanno fieramente resistito, vi daranno la possibilità di promuovere il disco dal vivo. Ci sono date imminenti?
Il nostro management è al lavoro in questo senso, ma fino a quando non ci saranno regole certe in merito alla situazione attuale è difficile fare programmi. Speriamo che molto presto ci possano essere novità, non vediamo l’ora di risalire sul palco.

Date dei riferimenti per i nostri ascoltatori per seguirvi sul web?
Potete seguirci sulla nostra pagina Facebook https://www.facebook.com/messexcess/ ci trovare sulle principale piattaforme musicali e per chi volesse i nostri CD è sufficiente che ci contatti tramite FB Messenger sulla pagina, se date un’occhiata ci sono interessanti offerte e pacchetti esclusivi.

Grazie di essere intervenuti, vi saluto e vi lascio l’ultima parola…
Grazie a tutti per l’interesse e l’ospitalità, speriamo di vederci presto ad un nostro concerto!!!

Ascolta qui l’audio completo dell’intervista andata in onda il giorno 21 Giugno 2021

Ago Tambone – Musica libera

Ospite di Mirella Catena ad Overthewall, Ago Tambone autore dell’album “Libera” 

Ciao Ago e benvenuto su Overthewall, tu hai iniziato ad interessarti di musica già da giovanissimo con pianoforte e tastiere ma ad un certo punto molli le tastiere per la chitarra. Ci racconti com’è avvenuto questo cambiamento?
E’ stato abbastanza semplice: l’approccio alle tastiere è avvenuto naturalmente, intorno ai cinque o sei anni, con le prime tastierine elettroniche, un po’ per gioco. Crescendo, ho “curiosato” più seriamente, studiando pianoforte classico e tastiere per due anni circa; però qualche tempo dopo, la curiosità si è spostata sulla chitarra (strumento che strimpellava mio padre, per accompagnarsi quando cantava). E così c’è stato un vero e proprio innamoramento per questo strumento, che mi ha spinto a studiare ed approfondire i suoni e le tecniche relative. Studio che naturalmente, si è esteso al basso e saltuariamente al mandolino… non tralasciando, ovviamente le tastiere.

Ci sono stati dei chitarristi storici a cui ti sei inizialmente ispirato?
Non essendo io un chitarrista di formazione classica, ho avuto dei riferimenti chitarristici in artisti moderni, anche se amo il mondo della chitarra classica. Quindi nella mia formazione chitarristica, ci sono stati chitarristi – giusto per citarne alcuni – come Eric Clapton, Carlos Santana, Richie Blackmore, David Gilmour, Mark Knopfler, Pat Metheney, Van Halen, Yngwie Malmsteen, Kee Marcello, Richie Sambora, Gary Moore, George Benson… anche Chuck Berry! Ognuno di questi artisti, ha rappresentato un riferimento molto importante per me, tanto dal punto di vista tecnico, quanto e soprattutto, dal punto di vista compositivo.

Durante la tua carriera hai collaborato con diverse realtà musicali. Quali progetti musicali ti hanno coinvolto maggiormente?
Nel mio percorso artistico, ho avuto la possibilità di collaborare con diversi musicisti, di varie estrazioni. Questo aspetto è fondamentale per un musicista, poiché può imparare tanto da tanti generi differenti, oltre ad imparare come instaurare un buon rapporto umano e professionale con i propri colleghi. Devo dire che le collaborazioni che hanno lasciato il segno, sono quelle con i One Way Ticket nel 2004/2005, band rock barese capitanata da Morris Maremonti; nel 2009, c’è stata una bella parentesi in studio, per delle registrazioni di alcune parti di chitarra, con i Poeti del Quartiere, formazione rap barese, tuttora attiva. Vi consiglio di ascoltare i loro lavori; dal 2009 al 2012 invece, sono stato chitarrista e bassista per i Revo’, una formazione pop-rock italiana emergente, fondata insieme al cantautore Francesco Cacciapaglia. Una menzione a parte, merita una collaborazione del 2011 con Giuseppe Cionfoli, per la pubblicazione di un brano dedicato a Sarah Scazzi, appena quindicenne, che come tutti ricorderanno, perse la vita nel delitto di Avetrana, un caso che ebbe un enorme rilievo mediatico. Il brano, intitolato “Sarah”, nacque da un’idea di Giuseppe Cionfoli; naturalmente, io accettai subito, prendendo parte alla composizione e alle registrazioni.
E’ stato un atto di umanità, che dovrebbe farci riflettere.

Ad un certo punto inizi il tuo percorso da solista. Nel disco che presentiamo oggi, che ha come titolo “Libera”, suoni praticamente tutti gli strumenti, ed è stato mixato e masterizzato da te nel tuo studio di registrazione. Un lavoro oserei dire intimo e personale che racchiude sensazioni ed esperienze da te vissute. Ci parli di questo disco?
“Libera” nasce da mie esperienze e riflessioni, sulla quotidianità degli eventi della nostra vita. Già il titolo, vuole essere un’esortazione a sentirsi liberi di vivere la vita come si vuole e di fare le proprie scelte, senza essere vincolati da fenomeni di massa (“Libera”) Naturalmente, senza intaccare la libertà altrui. Il disco tratta anche di argomenti come l’indifferenza tra gli esseri umani, che ormai non è più un fenomeno isolato, dato che la gente si distacca sempre più dalla natura umana. Questo atteggiamento lo si vive soprattutto nelle grandi città per via della vita caotica e lo stress che tendiamo ad accumulare (“Indifferenti”). Di conseguenza, è nata la necessità di scrivere anche un brano sulla incomunicabilità tra la gente (“Una Sensazione”). Figurano altri brani che invece spaziano tra vari argomenti: Voglio spronare l’ascoltatore, a credere sempre nei propri desideri e a non mollare facilmente, poiché con la tenacia, spesso si raggiungono i risultati sperati (“Credici”); in effetti questa esortazione, si ispira a una parentesi autobiografica. O ancora, il bello del senso di libertà e di pace interiore che può dare il viaggiare per il mondo, in cosciente solitudine (“I Live On My Own”). Non è un aspetto da sottovalutare, direi… Nel percorso di “Libera”, ho voluto rendere omaggio a mio modo, a tutte le vittime degli attacchi dell’11 settembre 2001. Era un forte desiderio che ho provato praticamente dal momento che ho visto, così come tutto il mondo, le terribili immagini in televisione. Soprattutto, quello che mi ha colpito maggiormente, è stato vedere la gente che si lanciava nel vuoto. Mi è sembrato un modo per onorare in qualche modo, tutte le persone che hanno perso la vita, innocentemente (“The Falling Ones”). Non cito gli altri brani, per non svelare tutto l’album… che tra gli altri, contiene anche tre cover di brani molto famosi, ai quali sono legato. Il disco mi ha visto impegnato come autore dei testi, non tutti, per la verità, compositore e arrangiatore. Ho suonato tutti gli strumenti, ad accezione del pianoforte su “The Falling Ones”; ho curato tutta la parte delle riprese audio, editing, missaggio e mastering. Insomma, ho avuto un gran da fare! La soddisfazione maggiore, è stata aver avuto accanto, durante la lavorazione di buona parte del disco, altri artisti che hanno fatto la differenza. A loro sono molto grato.


“Libera” è stato pubblicato nel 2020, quando in realtà liberi non eravamo affatto a causa della pandemia. E’ stata una scelta casuale o voluta?
In effetti “Libera” è stato pubblicato verso la fine di gennaio 2020, il che fa intuire che era già pronto da fine 2019. Non c’è stato nessun riferimento alla pandemia, che ci ha privati di diverse libertà; anche perché l’opinione pubblica, è venuta realmente a conoscenza della gravità della situazione sanitaria mondiale un mese più tardi, con tutte le conseguenze che conosciamo bene. Però, direi che per estensione del concetto di libertà, accosterei il messaggio del mio disco alla forte necessità di tornare a vivere normalmente, nel più breve tempo possibile, come tutti auspichiamo!

C’è un brano del disco a cui sei particolarmente legato?
Sono legato, ovviamente, a tutti i brani. Se però parliamo di un legame particolarmente forte, direi che c’è un posto speciale per “Credici” (data l’ispirazione autobiografica) e “The Falling Ones”, per le ragione già citate.

Nel disco collaborano alcuni musicisti. Ne vogliamo citare qualcuno?
Al disco, hanno preso parte: Antonio Gridi, cantautore che ha scritto i testi e cantato in “Indifferenti” e “Renditi Libero” e ha preso parte ai cori di “I Live On My Own”; Monica Cimmarusti, cantautrice che ha cantato in “Indifferenti” e “Wrapped Around Your Finger” e ha preso parte ai cori in “I Live On My Own”; Massimiliano Morreale, cantautore e polistrumentista che ha cantato in “Comfortably Numb”; Francesco Cacciapaglia, cantautore e musicista che ha scritto il testo di “Cristalli Gelidi”; Pasqualino de Bari, cantautore e tastierista che ha scritto il testo di “I Live On My Own” ; Gianvito Liotine, pianista e tastierista che ha suonato il pianoforte in “The Falling Ones”. Detto ciò, abbiamo svelato anche due delle tre cover!. Vanessa Bisceglie per la fotografia; Andrea Tarquilio per la Cover-Artwork. A tutti loro, sono molto grato.

Restrizioni permettendo, sono previsti dei live per promuovere il disco?
Al momento, non è previsto nessun live, poiché sto lavorando all’ultima fase del mio nuovo disco, che per ora è pubblicato solo online, su varie piattaforme musicali. Magari, quando si tornerà alla normalità, riprenderò con i concerti… che ci mancano tanto!

Puoi dare delle indicazioni ai nostri ascoltatori per seguirti sul web?
Per chi fosse interessato all’ascolto e/o all’acquisto, i miei lavori, si possono trovare su: Bandcamp, Facebook, Youtube, Spotify e Apple Music.

Grazie di essere stato con noi su Overthewall. Ti lascio l’ultima parola
Grazie a te, Mirella e a tutto lo staff di Overthewall, per avermi invitato. E’ stato un vero piacere essere vostro ospite! Colgo l’occasione per ringraziare chi come voi, si impegna quotidianamente a far conoscere la musica “non convenzionale”. Siete grandi! Un saluto a tutti gli ascoltatori, con l’auspicio di tornare a vedere tanta musica dal vivo, nel più breve tempo possibile. Soprattutto di poter ascoltare tanta musica di grande qualità… ne abbiamo bisogno. A presto!

Ascolta qui l’audio completo dell’intervista andata in onda il giorno 31 Maggio 2021