Eldritch – Sogni sommersi

Tornano gli Eldritch con un disco, “EOS” (Scarlet Records), che al contempo rappresenta un passo indietro – la band ritrova lo storico tastierista, Oleg Smirnoff, dei primi tra album – e un passo in avanti in quel percorso di ricerca e mutazione, che da sempre caratterizza il camminano del gruppo italiano.

Se non ho fatto male i calcoli con “EOS” tagliate il traguardo del dodicesimo album in studio. In una nazione come la nostra, dove occasioni ce ne sono poche,  le strutture sono inadeguate e il mercato è quasi inesistente, come si fa ad andare avanti fregandosene di tutto e tutti?
Il motivo è sicuramente uno solo: la grande passione per la musica che facciamo da sempre. Quella ci farà sempre andare avanti. Se un giorno dovesse esaurirsi, allora sarà la volta che di questa band non sentirete più parlare. E non mi riferisco solo a me e Terence che siamo i fondatori. Negli anni abbiamo quasi sempre avuto la fortuna di trovare persone che si sono unite a noi con la stessa voglia condividendo momenti belli ed altri meno belli. E’ anche vero che essendo nati più come band internazionale, non guardiamo soltanto la situazione italiana. Non a caso infatti abbiamo forse più seguito all’estero.

Eos è la divinità dell’alba, ben raffigurata nella copertina, in qualche modo questo disco rappresenta l’alba di una nuova fase della vostra carriera?
Assolutamente sì! Possiamo definirlo un nuovo inizio dal momento che parecchie cose sono cambiate da un paio di anni a questa parte. Il ritorno di Oleg Smirnoff, nostro storico tastierista dei primi tre album, è stato indubbiamente accolto da tutti noi con grandissimo entusiasmo. Stesso discorso per il nuovo bassista Dario Lastrucci, autentico pezzo da 90 con una mostruosa padronanza dello strumento e ad una grande personalità anche in sede live. Dario è anche polistrumentista e sa cantare, infatti i cori su “EOS” sono opera sua al 90% così come le parti di violino su “I can’t Believe It”. La loro presenza è stato un deciso passo in avanti per noi e infatti, come speravamo, si è sentito anche in termini di sound.

In tema di divinità, il nucleo portante degli Eldritch proveniva da una band chiamata Zeus, c’è una qualche connessione tra l’attuale titolo e il vostro vecchio moniker oppure ci troviamo innanzi a semplice amore per la cultura classica che ciclicamente torna?
Escludo senza dubbio la prima che hai detto, niente a che vedere col vecchio monicker! In realtà, la nostra idea è sempre stata quella di un titolo composto da una sola parola ma non volendo ripeterci con un gioco di parole, abbiamo optato per “EOS” che, oltre ad essere immediato, rappresenta in pieno quello che siamo adesso.

Guardandovi indietro, vi sembra di aver raccolto quanto seminato? Magari dopo due album importantissimi come “Headquake” ed “El Niño” non avete avuto molta fortuna…
Avremmo voluto e potuto fare di più ma in tutta sincerità, non sempre tutto è andato per il verso giusto. Per ottenere un certo tipo di successo tante componenti devono andare nella stessa direzione e purtroppo non sempre è stato così. Un po’ perché non abbiamo mai accettato compromessi artistici, un po’ per nostre scelte sbagliate, un po’ perché forse in alcuni momenti della carriera avremmo avuto bisogno di altro tipo di supporto… non tutto è andato come forse speravamo. In ogni caso considerando ogni aspetto, siamo orgogliosi di essere ancora qui a fare la nostra musica ed essere apprezzati. Il genere stesso non è facilmente assimilabile e da un punto di vista commerciale è considerato un po’ d’élite.

Proprio con “El Niño” si è interrotta la vostra storia con Oleg, abbiamo dovuto attendere 23 anni ed “EOS” per risentirlo su un vostro album. Cosa ha reso possibile tutto questo?
Gli scazzi del passato furono già chiariti più di 15 anni fa e infatti realizzammo insieme anche il doppio album live “Livequake” nel 2008. Già ai tempi di “Gaia’s Legacy” valutammo una reunion ma per varie ragioni non fu possibile. Poi tre anni fa dall’idea di celebrare i 20 anni di “El Nino” (suonato integralmente al Ready For Prog Fest a Tolosa), abbiamo manifestato entrambi la volontà di tornare a fare musica insieme ed eccoci qui…

La presenza di Oleg in qualche modo vi ha fatto tornarne indietro nel tempo, magari riattivando dinamiche compositive all’interno del gruppo che all’indomani della sua uscita si erano perse?
Oleg ha un modo unico di suonare e intendere le tastiere sia nei suoni che sul piano armonico. Il suo stile nel tempo si è sicuramente evoluto ma senza snaturarsi e di conseguenza questo ha influito in modo determinante a far riassaporare gli echi del passato al nostro sound attuale. Ed è quello che noi tutti volevamo. Anche in fase compositiva ha dato ovviamente il suo contributo visto il suo background e le sue idee. Tuttavia nessuno di noi avrebbe mai voluto rinunciare alla nostra evoluzione compositiva e ricreare copie dei primi dischi.

Ritengo che abbiate mantenuto sempre degli standard altissimi nella vostra produzione, riuscendo anche a mutare – alcune volte con scelte coraggiose – ma mantenendo sempre una coerenza di fondo che vi rende riconoscibili. “EOS” da questo punto di vista mi sembra perfetto, perché in qualche modo contiene tutti gli elementi della vostra passata produzione, rivisitati in chiave attuale: una scelta ponderata o è il frutto di un processo compositivo spontaneo?
Direi entrambe le cose. Ovviamente ci siamo confrontati come sempre per capire se eravamo tutti della stessa idea, ovvero ricreare l’atmosfera dei primi dischi cercando però di non fare passi indietro rispetto alla maturità compositiva che abbiamo raggiunto col precedente “Cracksleep”. Abbiamo capito da subito che sarebbe stato del tutto naturale andare in quella direzione senza bisogno di confronti. Abbiamo degli elementi che ci caratterizzeranno sempre e ci rendono riconoscibili nonostante la nostra propensione al non ripeterci. Però cerchiamo sempre qualcosa di nuovo rispetto al passato…Credo che il punto di forza di “EOS” sia proprio quello di aver ricreato il nostro sound e le nostre soluzioni degli esordi ma in chiave attuale e con un approccio decisamente più moderno. L’elemento che più ci ha reso soddisfatti di questo album, oltre alla qualità dei pezzi, è proprio quello di cui ti ho appena parlato.

Non ho i testi dei brani, in qualche modo sono stati condizionati dalle recenti vicissitudini dovute alla pandemia?
No, della pandemia si parla già abbastanza. Si tratta come sempre di situazioni di vita vissuta in cui tutti possono identificarsi. Per quanto possa apparire indubbiamente un filo conduttore che lega anche i nostri precedenti lavori, riteniamo siano argomenti che non stancano mai perché rispecchiano quello che un po’ tutti viviamo quotidianamente. Solo nel caso di “The Cry Of A Nation” affrontiamo in maniera un po’ più diretta lo stato d’animo di un paese stanco di convivere costantemente con elementi negativi legati ad una situazione sociale/politica che tende a sfruttare, corrompere e sopraffare. Non vuole essere assolutamente un testo politico ma piuttosto solidale con chi soffre questa situazione. E non è riferito soltanto all’Italia… anzi.

Restando in tema pandemia, contate di poter promuovere il disco in giro per l’Europa a breve o se ne parlerà dalla prossima primavera in poi?
Credo proprio che di suonare dal vivo ne riparleremo non prima della primavera prossima. Speriamo davvero di riuscire a fare anche promozione live perché il palco ci manca tantissimo.

Vexillum – Vessilli di guerra

Universi partoriti dalla fantasia che possono regalare momenti di svago ma anche sbattere in faccia la durezza dei giorni che viviamo. L’arte dei Vexillum è una metafora, e nel nuovo “When a Good Man Goes to War” (Scarlet Records) questo aspetto di didascalico viene amplificato dalla assurda situazione in cui attualmente languiamo.

Benvenuto su Il Raglio Michele, vi avevamo lasciato con “Unum”, un disco che probabilmente ha tracciato un solco nella vostra storia: questi sei anni di attesa sono dovuti al carico di responsabilità derivanti dal dover dare un degno successore a quell’album?
Ciao Giuseppe, intanto grazie per questa opportunità. Sicuramente “Unum”, ha rappresentato un tassello importante, un concept con cantanti importanti a duettare con Dario, è stato davvero un capitolo segnante per la vita della band. Di certo l’esigenza di mantenere alto il livello, se non alzarlo ulteriormente, è uno dei nostri obbiettivi da sempre e da qui anche il bisogno di prendere il tempo necessario perché l’ispirazione e l’energia creino la situazione giusta, come hai detto tu la responsabilità si fa sentire. Aggiungo anche che dopo la tournée di supporto ad “Unum”, abbiamo avuto la necessità, più o meno tutti all’interno della band, di occuparci delle evoluzioni delle nostre vite private e quindi di un po’ di tempo per noi.

Cosa rappresenta questo nuovo album nella vostra discografia e cosa aggiunge di nuovo rispetto alle uscite precedenti?
Questo album si riallaccia direttamente a “The Bivouac”, a quel tipo di composizioni, ma porta con se un tono più scuro, derivante da una rabbia e sentimenti che sentivamo la necessità di esternare. Questa atmosfera si rispecchia nei temi ed emerge nel sound, quest’ultimo sicuramente più ricco e ricercato rispetto al passato, è una diretta evoluzione del nostro stile, con tutti gli elementi che ci sono sempre piaciuti, ma ancora più potente e diretto. “WGMGTW” per come lo sento rappresenta un po’ l’ album “della maturità”, una sorta di passaggio all’età adulta musicale per la band, e sicuramente una linea di demarcazione tra il passato ed il futuro.

Il vostro sound base è una miscela di power di matrice tedesca con influenze celtiche, ma c’è un qualcosa che vi identifica come gruppo italiano?
E’ una domanda interessante, la cosa principale che mi viene in mente sono i nostri live, il nostro modo di fare e di intrattenere festaiolo è tipico di noi italiani, la ricerca dell’energia che deriva dalla partecipazione attiva del pubblico. Poi in questo nuovo album per la prima volta abbiamo inserito una canzone inedita in italiano, a questo giro siamo più italiani anche sul disco!

Il disco precedente era ricco di ospiti importanti e si concludeva con un paio di cover. In “When Good Men Go To War” pare quasi che abbiate espresso la volontà di rinchiudervi in voi stessi, facendo tutto da soli e senza necessariamente dover rendere il vostro tributo ai grandi del passato. Questa mia sensazione è esatta oppure no? Qualora lo sia, è stata una scelta conscia o inconscia?
Posso dire che questa scelta sia stata voluta, la sensazione di cui parli non è sbagliata, ma più che rinchiuderci in noi stessi è stata la volontà di voler affrontare questo capitolo con le sole nostre forze, nel bene e nel male. Ci siamo domandati diverse volte se fosse una scelta da valutare meglio, sarebbe stato sicuramente interessante, o se fosse una buona mossa di marketing, portare uno o più ospiti anche su questo nuovo lavoro, ma alla fine non ne abbiamo mai veramente sentito il bisogno, io personalmente non ho mai pensato ad un singolo verso di questo disco cantato da altri se non da Dario. Lo stesso discorso vale per le eventuali cover, avevamo già molto materiale nostro su cui lavorare. Con questo non vogliamo assolutamente peccare di arroganza o mancare di rispetto ai giganti a cui ci ispiriamo, le collaborazioni sono sempre e comunque molto stimolanti. A pensarci è un ottimo paragone con il setting dell’album, su una nave davanti ad una tempesta imminente da soli e devi affrontarla con le tue forze.

Il disco è stato preceduto dal singolo\video “When a Good Man Goes to War”, brano che da anche il nome al disco. All’interno dell’album questo pezzo ha un significato di rilievo?
Sicuramente, abbiamo scelto questo brano come apripista per il disco proprio perché ne incarna completamente il mood e l’atmosfera. Non per nulla da questo brano è tratto il titolo dell’intero lavoro. Nonostante ogni canzone sia una storia assestante c’è un filo conduttore sottile che viene portato avanti in ognuna. In ogni canzone il tema, le emozioni e le storie raccontate sono un tassello di un disegno più grande che trova la massima rappresentazione in “When a Good Man Goes To War”.

Il titolo del disco va anche contestualizzato al momento che viviamo oppure no?
Questo è un argomento di cui discutiamo spesso anche tra di noi, e la risposta è si, assolutamente. Nonostante la creazione di tutto il materiale sia cominciata abbondantemente prima di questa assurda situazione mondiale non possiamo fare a meno di considerare tutto quello di cui si parla perfettamente attuale. Direi sotto quasi tutti gli aspetti da quello politico a quello sociale; in alcuni casi le tematiche descritte molto prima della pandemia sono diventate veri e propri problemi all’ordine del giorno, amplificati dalla pandemia e dalla mancanza di un vero senso di comunità. Oltre che ad intrattenere e regalare un momento di svago e spensieratezza con la nostra musica speriamo che questo disco possa far riflettere chi deciderà di ascoltarlo, perché di spunti ce ne sono davvero molti e, mi ripeto, molto attuali.

Ad ogni modo, un’opera come la vostra dal sapore antico e mitologico, può rappresentare un momento di fuga dalla realtà. Quanto è importante il poter uscire, almeno mentalmente, dalla cattività in cui viviamo grazia alla musica?
Adesso è fondamentale, con la situazione della pandemia che ancora va avanti ed il mondo dello spettacolo praticamente fermo da più di un anno ogni occasione di fuga credo che sia di inestimabile valore e da cogliere al volo, per staccare anche solo temporaneamente da questa “versione ridotta” della vita a cui siamo stati abituati e per, magari, alleggerire il senso di sopportazione che volenti o nolenti subiamo da un po’. Avevamo dei dubbi se far uscire proprio adesso questo nuovo lavoro, per la paura di non poterlo sostenere con una vera e propria promozione di concerti live, ma credo che la scelta sia stata comunque giusta perchè proprio per i motivi che hai sollevato non andrà comunque “sprecato”.

Alla luce della risposta precedente, qual è il ruolo dell’artista oggi?
Il ruolo dell’artista è oggi più che mai quello di creare un ponte con una dimensione che sia migliore o comunque diversa da quella che si ha nella realtà di tutti i giorni, nella quale chi ne giova può trovare rifugio e come dicevamo prima staccare la spina per un po’. Più di una volta mi è capitato di persona di essere letteralmente “salvato” da una canzone, da un film, da una poesia. Spero anche che tutti si ricordino quanto questo ruolo dell’artista sia importante e da valorizzare, lo dico perché mi sembra che troppo spesso sia un qualcosa di dato molto per scontato dai più. Vorrei vedere tutti catapultati improvvisamente in un mondo senza arte, senza musica, quale sarebbe la reazione, forse solo in quel caso si percepirebbe la profonda importanza del lavoro e del ruolo dell’artista. Andando avanti sulla strada sulla quale siamo, spero momentaneamente, non manca tanto. Supportate l’arte e supportate gli artisti che vi piacciono!

Siete arrivati al quarto capitolo della saga, ce ne saranno altri e, se sì, avete già in mente il canovaccio dei prossimi passi?
Assolutamente si, durante il lockdown del 2020 abbiamo avuto modo di buttar giù diverse nuove idee che andranno sicuramente a formare i prossimi lavori, e con la nostra nuova etichetta abbiamo già preso accordi per i prossimi capitoli. Al momento è sicuramente presto per parlare di qualcosa di concreto o anche solo di canovaccio. Riguardo ai prossimi passi, stiamo lavorando molto per cercare di dare un supporto più “live” possibile a questa uscita, sfruttando più possibile i social network e le piattaforme di streaming, ovviamente con la speranza che riparta al più presto la possibilità di trovarsi ancora una volta tutti a scapocciare su e giù da un palcoscenico.

Odd Dimension – L’alba blu

Tra le realtà dormienti del panorama musicale italico, spiccava il nome degli Odd Dimension, autori di “The Last Embrace to Humanity” più di un lustro fa e poi spariti dai radar. Ora, anche se con una formazione diversa, gli Odd Dimesnion sono nuovamente fra noi con “The Blue Dawn” (Scarlet Records). A parlarcene sono Gigi Andreone e Gianmaria Saddi, rispettivamente basso e chitarra dei piemontesi.

Ciao ragazzi, sette anni in ambito musicale sono un’eternità, credete che “The Blue Dawn” sia per voi una sorta di inizio da zero, o quasi, o comunque riallacciare il discorso interrotto sia tutto sommato abbastanza semplice?
Gigi Andreone: ciao e grazie per questo spazio che ci state concedendo! E’ vero sono sette anni ma sono passati in un baleno, poiché singolarmente non ci siamo mai fermati, abbiamo avuto modo di lavorare ad altri progetti ed ampliare il nostro orizzonte musicale e creativo (per quanto mi riguarda ad esempio con A Perfect Day, Kings of Broadway, Sweet Oblivion Band ed altri…), sempre coltivando nella mente come avrebbe dovuto essere la versione 2.0 del nostro primo amore, la “nostra” band Odd Dimension. Quindi il discorso non si è mai interrotto, semplicemente dopo l’uscita dalla band di Manuel Candiotto (voce) e Federico Pennazzato (batteria) per dedicarsi ai propri progetti di vita abbiamo con Gianmaria e Gabriele sempre tenuto vivo il percorso compositivo che per noi è corale, pensando a come ricostruire e rendere più matura la nostra band, in sinergia con il nostro modo di concepire la musica, arricchendolo con le nostre esperienze di vita che nel frattempo sono state molte ed intense. E’ stato un percorso difficile ma stimolante ed ha accelerato la sua corsa con l’arrivo di Marco Lazzarini alla batteria  (Secret Sphere, Hell in the Club ed altri) ed infine Jan Manenti alla voce (The Unity) che ha completato perfettamente l’idea che avevamo di crescita sonora e stilistica della band.

Qual è l’elemento di connessione tra “The Last Embrace to Humanity” e “The Blue Dawn”, la casella di partenza di questa nuova fase della vostra carriera?
Gianmaria Saddi: come ha appena detto Gigi non abbiamo mai smesso di comporre e di lavorare sul materiale nuovo. Alcuni riff e idee del nostro ultimo lavoro risalgono ai tempi di “The Last Embrace to Humanity”, poi ovviamente sono stati ri-arrangiati, rielaborati o totalmente stravolti quindi direi che è stato un processo continuo, una continua evoluzione compositiva musicale. In merito all’elemento di connessione tra i due album direi che si può racchiudere nella ricerca della melodia e dell’essenzialità, pur sempre trasmettendo quell’emozione che proviamo. Siamo quindi partiti dal “togliere” o almeno ridurre ed eliminare tutto ciò che ci sembrava superfluo. Mi sto anche riferendo al fatto delle partiture, le sovra incisioni delle differenti parti musicali sono state ridotte in modo tale da non snaturare quello che esprimiamo quando siamo insieme a suonare in sala.

A rendere il tutto più difficile è intervenuta anche la pandemia, quanto ha influito sul vostro ultimo lavoro?
Gigi Andreone: l’album era praticamente pronto all’arrivo della data che di fatto ha cambiato le nostre vite e che sono abbastanza certo determinerà uno spartiacque indelebile nella storia anche del settore musicale. Abbiamo dopo l’iniziale disorientamento riprendere a lavorare da remoto a mix, mastering, artwork e preparazione dell’uscita con l’etichetta, quindi compositivamente non traspare questo ultimo anno. Speriamo di tornare presto alle nostre passioni ed alla nostra vera dimensione naturale, il live.

Uno degli aspetti che salta subito all’orecchio è la nuova voce, quella di Jan Manenti, chiamato a sostituire Manuel Candiotto. Come siete entrati in contatto con il nuovo arrivato?
Gianmaria Saddi: la voce di Jan non passa sicuramente inosservata, infatti artisticamente lo conoscevamo già ed avevamo avuto modo di ascoltarlo nelle sue varie situazioni musicali. Per la direzione musicale che stavamo prendendo, avevamo bisogno di una voce come la sua. Jan è dotato di un gran gusto musicale, di una timbrica e di un’estensione vocale a mio avviso incredibile. Il suo arrivo ha dato equilibrio e nuova spinta a tutta la band. Ricordo ancora quando abbiamo preso contatto, prima telefonicamente e poi di persona davanti ad una birra, abbiamo finalmente avuto modo di conoscerci e confrontarci personalmente scambiando le rispettive visioni musicali. Fin dai primi provini sui cui lavorammo insieme, capimmo di aver intrapreso la strada giusta!

La presenza di una nuova voce ha modificato il vostro modo di lavorare e di costruire un brano?
Gigi Andreone: come anticipato il feeling musicale con Jan è stato immediato, ha interpretato alla perfezione il concept che c’era dietro alla stesura dei testi che come per i precedenti album ho seguito personalmente, quindi tutto è stato fluido e spontaneo e credo la cosa si rifletta nella stesura delle linee e quanto percepito dall’ascoltatore.

Jan proviene da una realtà ormai consolidata a livello internazionale come i The Unity, però non è l’unico elemento prestigioso che compare sull’album, in veste di ospiti troviamo Derek Sherinian ex  Dream Theater e Roberto Tiranti: come è stato lavorare con loro?
Gianmaria Saddi: lavorare con Roberto è stato molto semplice perché quando si ha a che fare con un professionista come lui, tutto risulta più semplice. Roberto è un artista che ha la capacità di impreziosire tutto ciò su cui mette mano. Gli abbiamo fornito il demo con qualche bozza dandogli carta bianca, il risultato è stato, come da previsione, eccellente, ha tirato fuori una bellissima parte vocale riuscendo ad entrare perfettamente in sintonia con la canzone, fantastico! Per quanto riguarda Derek Sherinian, non mi sembra ancora vero… voglio dire, è uno dei musicisti che più stimo e che più mi hanno influenzato musicalmente e posso ascoltarlo sulla title track del nostro ultimo disco, non posso che essere ancora più fiero ed orgoglioso del lavoro fatto. Tornando alla tua domanda, abbiamo contattato Derek per proporgli un intervento solistico su “The Blue Dawn”, la parte da noi scelta faceva proprio al caso suo, anche mentre la stavamo componendo pensavamo proprio che in quel punto ci volesse qualcosa  suonata “alla Sherinian”… quindi quando Derek ascoltò tutta la canzone per darci una sua prima impressione, la sua risposta spiazzò tutti noi: ci disse che avrebbe registrato il solo, ma con la richiesta di poter suonare tutto il brano in quanto gli piaceva. Ovviamente se Mr. Sherinian, il Caligola delle tastiere, ti chiede di suonare tutto il brano bisogna accontentarlo. Sentirlo suonare con noi, poterne apprezzare le singole tracce, il suo inconfondibile suono.. per me ma penso di parlare per tutti, è come se si fosse avverato un sogno!

Derek ha contribuito alla creazione di uno degli album dei Dream Theater che io amo di più e comunque ha vissuto la stagione di maggiore popolarità del progressive metal a bordo della “nave” più importante. Oggi mi pare che ci sia meno interesse nei confronti di queste sonorità: è così o è solo una mia impressione?
Gigi Andreone: anch’io amo molto “Falling into Infinity”, è coevo ai nostri primi passi come musicisti, è stato davvero emozionante ascoltare quel suono inconfondibile sul nostro brano. Credo che come tutti i generi musicali anche il progressive metal ha avuto la sua età dell’oro in quegli anni ma non è sicuramente morto anzi è ricco di appassionati e proprio per la sua fluidità si presta senza pregiudizi a contaminazioni e riletture, lo ritengo un genere “colto” quindi meno soggetto a transizioni modaiole. Per questo credo rimarrà sempre attivo trasformandosi.

Quanto il prog conserva ancora del sua vena sperimentale e quanto invece ormai è diventato un genere schiavo dei propri schemi stilistici?
Gianmaria Saddi: penso che il prog nelle sue forme rock e più heavy conservi ancora la sua vena sperimentale, tutt’oggi è un genere in continua evoluzione con tante contaminazioni. Ammetto che ci sono molti cliché e schemi che quando si ascoltano portano subito l’ascoltatore ad incasellare una determinata band a questo genere musicale. Molte band, anche blasonate, sono rimaste schiave degli schemi da te citati e questo, mio parere personale, annoia un po’. Apprezzo molto le formazioni che hanno una propria identità dal punto di vista del sound, dell’ attitudine, ma che sanno esplorare generi magari distanti fra loro, facendoli propri, reinterpretandoli, sentire e apprezzare il percorso musicale fatto fino a quel punto.   

Torniamo a “The Blue Dawn”, quali sono i temi trattati nei testi?
Gigi Andreone: si tratta di un concept album fantascientifico che narra del viaggio interplanetario di Marcus ed Eloise, che hanno il compito per il loro popolo di trovare nuovi mondi da colonizzare per estrarre le materie prime necessarie alla loro sopravvivenza. In questo viaggio incontrano nemici, affrontano varie peripezie, creano esseri per avere un supporto alla loro missione, insomma affrontano molte difficoltà fino a giungere su un pianeta strano, blu, ricco di risorse, da qui la storia prende una piega diversa rispetto al previsto che scoprirete leggendo i testi dell’album.

Dal vivo, quando sarà possibile, riproporrete i nuovi brani in modo fedele alla versione su disco o li ri-arrangerete? Idem per i brani più vecchi, ci lavorerete su per armonizzarli al nuovo materiale?
Gianmaria Saddi: come tutti, ci auguriamo di poter tornare sui palchi appena sarà possibile. Non vediamo l’ora di portare dal vivo il nuovo disco. I brani rispecchieranno la versione su disco, ovviamente ci sarà qualche piccolo arrangiamento che verrà fatto in funzione dell’occasione, ma in linea di massima quello che ascolterete dal vivo sarà il più possibile fedele al disco. Come anticipavo prima, abbiamo composto e prodotto il nuovo album mantenendo le partiture e le atmosfere composte e suonate in sala prove, riducendo di molto lavori di post produzione. Per quanto riguarda le canzoni dei primi due album, pensiamo di proporne dal vivo alcune e la voce di Jan, già di per sé, porterà un cambio di sonorità, ma anche noi come musicisti, a seguito del nostro percorso musicale, porteremo alcuni cambiamenti sull’ arrangiamento e sull’esecuzione senza stravolgere però totalmente la canzone. Vi aspettiamo sotto il palco!

Winterage – L’eredità della bellezza

I Winterage, come scoprirete leggendo le parole di Gabriele Boschi (violino e maggior compositore della band), hanno voglia di riprendersi il tempo perduto tra la pubblicazione The Harmonic Passage” e quella del nuovissimo “The Inheritance of Beauty” (Scarlet Records), ma lo vogliono fare a modo loro, senza perdere di vista il concetto di bellezza, elemento su quale si base il loro percorso artistico.

Benvenuto Gabriele, ben sei anni separano il vostro primo full-length “The Harmonic Passage” dal nuovo “The Inheritance of Beauty”, se consideriamo che tra l’EP di esordio e il suo successore sono trascorsi quattro anni, verrebbe da pensare che il vostro iter compositivo richiede molto tempo. E’ così o questi tempi dilatati sono una conseguenza di fattori esterni?
Ciao e grazie per averci ospitati! In realtà questi tempi dilatati sono stati  causati dalla naturale crescita della band. Mi spiego, in modo molto schietto: avere una band nel 2020, nel pieno della decadenza annunciata della discografia, è un impegno non da poco che va incastonato nella miriade di attività multitasking che vengono richieste a noi giovani per sopravvivere. Siamo una generazione così, c’è poco da piangersi addosso! Quindi in questi anni abbiamo affiancato l’attività della band alla nostra formazione professionale, ricordo che l’età media della band è di 28 anni, giungendo ad oggi con una formazione più compatta, una mentalità più matura, e degli obiettivi più delineati. Certo, avere a disposizione molto tempo ha anche favorito la cesellatura del materiale compositivo, rendendo il songwriting più incisivo. Ma da ora in avanti posso abbastanza sbilanciarmi nel dire che non passerà più così tanto tempo tra un album e l’altro!

Mi daresti la vostra definizione di bellezza?
Con questo album abbiamo voluto mostrare un’opera d’arte, un’icona senza tempo in  rappresentanza dell’autentica bellezza: la “Nascita di Venere” di Sandro Botticelli. Agganciandoci concettualmente a questo dipinto, riconosciuto internazionalmente e nei secoli come uno dei maggiori canoni di bellezza, abbiamo voluto suggerire uno sguardo sul mondo di oggi e su come è vista oggi un’opera d’arte. Con uno sguardo un po’ decadentista, ci siamo scoperti sommersi dal quasi totalizzante utilizzo commerciale dell’arte, dalla poca ricercatezza che molti “artisti” imprimevano nei loro lavori rivolgendo il loro sguardo unicamente al profitto che ne sarebbe derivato. Insomma, abbiamo percepito come traditi quei valori che a nostro parere dovrebbero essere fondanti per la creazione e la fruizione di qualcosa di artistico: un’ideale, un’ispirazione, pura e senza doppi fini, un’identità artistica che traspaia dall’opera d’arte, trascendendola. Ecco, tutto questo, forse, potrebbe essere la nostra definizione di bellezza nel 2020. Ci siamo rifatti molto alla mitologia greca ed al loro mondo, proprio perché i greci si interrogavano su quale potesse essere la rappresentazione dell’estrema bellezza e, ricercandola, con impegno e dedizione impegnavano anche tutta la vita a questo scopo, producendo capolavori che ancora oggi ammiriamo. Scusa se mi dilungo, ma è una domanda che racchiude un concetto su cui si potrebbero scrivere intere tesi di laurea! Per concludere, nel nostro ultimo brano abbiamo però suggerito un’idea che apre uno spiraglio di speranza su tutta questa visione decadentista. Il costruttore di giocattoli, attraverso i suoi balocchi, apparentemente insignificanti, vuole risvegliare nell’animo assopito delle persone questo guizzo artistico.

Alla luce di quanto mi hai detto, cosa ci lascia, o ci ha lasciato, in eredità la bellezza?
Riallacciandomi al giocattolaio di cui parlavo prima, è lui che ci spiega che l’eredità di questa bellezza appena descritta è indissolubilmente presente nell’animo umano, sopita, ma con tutte le  potenzialità per divampare nuovamente. Egli spera che i suoi giocattoli con il loro guizzo bambinesco, possano essere la miccia che faccia accendere il fuoco dell’immaginazione che è presente da tempi primordiali in ognuno degli esseri umani. Concludo quindi riportando le lyric dell’ultimo ritornello del disco, un passaggio a cui tengo molto e che può riassumere la risposta a questa domanda:

AN EXTRAORDINARY WORLD RESIDES IN OUR REAL
MATTER WILL ITS ESSENCE MOST INTANGIBLE REVEAL
THE WEFT OF BEAUTY IS GLOWING FROM THE STRUCTURE OF OUR WORLD
AND THE GREATNESS OF LOVE IS SPREADING
AND NATURE IS CHANTING UNTAMED
THE PRIMORDIAL DIVINE MIGHT

Nel disco ci sono dei rimandi evidenti alla classicità, mi riferisco alla Venere in copertina o all’utilizzo di strumenti quali violini, voci liriche ecc. Come è possibile coniugare classicità e contemporaneità senza cadere nel pacchiano?
Penso che come in ogni cosa, difficilmente si può scadere nel pacchiano, quando alle spalle si ha un’idea di cui si è convinti e per la quale si lavora molto per la sua realizzazione con cognizione di causa. C’è da dire che strumenti orchestrali e metal sono coesistiti fin dal primo avvento del rock, ed il risultato in genere è stato quasi sempre piacevole. La nostra idea in questo album è stata quella di organizzare, al meglio delle nostre capacità, gli elementi portanti del nostro sound, miscelandoli nel genere power metal. Quindi orchestrazioni, citazioni della musica tradizionale irlandese, melodie di violino, citazioni dalla musica sinfonica, assoli neoclassici ed ultimamente anche un avvicinamento più importante verso la lirica ed il virtuosismo violinistico, coesistono all’interno degli stessi pezzi, organizzati da un songwriting minuzioso. Per rispondere alla domanda, penso che se “orchestri” antico e moderno con intelligenza, si possano ottenere degli ottimi risultati!

Avete lavorato con una vera orchestra, è stato difficile interagire con musicisti provenienti da un ambito musicale diverso dal vostro?
No assolutamente, abbiamo registrato le loro parti su tutto l’album in tempi record: in una giornata di studio dedicata ad ogni sezione siamo riusciti ad incidere tutto. Discorso diverso è per i cori, ci sono volute tre giornate per quelli lirici femminili, altre tre per quelli maschili ed un paio per i leggeri femminili; ma non perché fossero meno bravi i coristi, semplicemente avevano il triplo delle parti da cantare! Alla fine, i musicisti professionisti sono abituati a leggere le parti d’orchestra. Cruciale è la fase di scrittura delle parti e di progettazione della sessione di studio: più cose scrivi a casa (indicazioni di tempo, dinamica, legature, arcate, spesso addirittura le diteggiature), prima loro capiscono quello che vuoi e meno tempo perdi in studio, riuscendo così a registrare più minuti di musica. In questa fase è stato di enorme aiuto il Maestro Vito Lo Re che, grazie alla sua esperienza di direttore durante le sessioni di registrazione d’orchestra, e di compositore, ha saputo ottimizzare al meglio il tempo che avevamo e mi ha dispensato degli ottimi consigli in itinere.

Quasi a confermare la vostra visione “allargata” della musica, troviamo due produttori appartenenti a due sottogeneri del metal tra loro a prima vista agli antipodi, mi riferisco a Tommy Talamanca e  Roberto Tiranti. Questa collaborazione cosa ha aggiunto ai vostri brani?
Sono state due figure di enorme aiuto per la buona riuscita del progetto. Entrambi sono dei professionisti nel loro settore e hanno subito capito come impostare il lavoro con noi. I tempi per ogni sessione erano diversi: con Roberto, le registrazioni delle linee vocali di Daniele si sono svolte con molta calma, in modo da registrare sempre al top della forma e della sua resa vocale; mentre con Tommy, sempre preservando la qualità, abbiamo fatto delle belle full-immersion di giornate di studio cercando di ottimizzare i tempi  vista la mole di roba da registrare. Per esempio Luca ha inciso tutte le batterie del disco in soli tre giorni e io le mie parti di violino in uno e mezzo: anche in questo caso è stata fondamentale la preparazione e lo studio a casa!

Ma come nascono i vostri brani?
I brani di questo album vantano ancora l’alchimia compositiva dei tre fondatori della band: me, Dario e Riccardo Gisotti, oltre che l’apporto costante di tutti i membri. Ognuno di noi propone alla band delle idee, delle melodie, dei riff, che vengono discussi e “rimpastati” assieme, magari cambiando qualche accordo o qualche nota per rendere quella parte più interessante o quell’altra più struggente. Insieme si costruiscono così i pezzi e, a suon di compromessi da parte di tutti, si giunge al brano finito, che porta quindi l’apprezzamento generale. Bene o male la regola è questa, spesso invece qualcuno scrive un pezzo in autonomia e poi lo presenta alla band: è il caso di “Wisdom of Us”, brano interamente composto da Dario, o di “The Amazing Toymaker”, pezzo che posso vantarmi di aver scritto da solo.

Da dove proviene la vostra fascinazione per il folk irlandese?
Tutti noi Winterage abbiamo un lato folk nel nostro gusto musicale, che ci porta ad apprezzare le tradizionali sonorità irlandesi, chi più e chi meno. Negli anni, questa vena folk si è espansa a dismisura nel cuore del nostro (ormai ex) tastierista Dario, tanto che ha deciso di seguire unicamente quella strada. La sua conoscenza del repertorio irlandese è pressoché infinita, sa suonare migliaia di tunes, con almeno quattro strumenti diversi, e col tempo è diventato il referente ufficiale di questa influenza nella band. Anche se ora Dario non fa più parte del gruppo, questa vena folk rimarrà comunque parte integrante del nostro sound, così come lui il referente indiscusso a cui chiederemo sempre consigli, oltre che di partecipare alle future registrazioni!

Credi che il singolo, “Orpheus and Eurydice”, sia in grado di presentare a pieno la complessità del disco o inevitabilmente ne dà una visione parziale da completare necessariamente con l’ascolto dell’album?
Quel brano è stato concepito proprio con l’idea di voler unificare tutto il sound della band in un unico pezzo. Come accennavo, in questo album abbiamo voluto gestire meglio tutte le influenze diverse, integrandole meglio all’interno dei pezzi, e questo brano ne è l’esempio più calzante. Siamo molto legati a quel brano perché siamo riusciti a far conciliare le melodie tipiche del power metal, delle ritmiche aggressive, il ritornello cantabile, la parte lirica, il tune folk, l’intermezzo orchestrale, il tutto condito con delle belle scariche di doppio pedale, whistles di voce ed orchestrazioni bombastiche… ok scusa mi sono esaltato haha! Per rispondere alla domanda, è probabile che questo pezzo riassuma il sound generale della band, ma se uno ne è affascinato, l’ascolto dell’album sarà sicuramente molto più soddisfacente, anche perché l’ultimo brano della durata 16.30 minuti, suggerisce delle sonorità nuove per noi, derivanti dal musical e dalla musica per film che nel singolo non sono presenti.

Quando sarà possibile tornare all’attività live, come proporrete sul palco dei pezzi così complessi e ricchi di sfumature?
Per promuovere l’uscita dell’album volevamo organizzare nuovamente uno show in teatro con il quartetto d’archi, ma visti i tempi non ci è stato permesso. Durante i nostri live veniamo accompagnati dalle sequenze, che riproducono tutto il grande lavoro che è stato fatto in studio di registrazione, favorendo la resa sinfonica. Il mio sogno nel cassetto è quello di suonare live con orchestra e coro… ma ne deve passare di acqua sotto i ponti ancora!