Bengala – Il sonno della provincia agricola

Partito nel 2017 con sonorità heavy rock strumentali, il progetto Bengala, capeggiato dal bassista Miky Bengala (Gordo, Long Dog Silver, Temple of Dust, Svetlanas), con l’ultimo stupendo Ep, “Il sonno della provincia agricola” (Mightallurgia Pesante), è giunto una forma di neo folk dalle tinte oscure e dal forte sapore evocativo.

Benvenuto Miky, innanzi tutto dobbiamo parlare di Bengala o dei Bengala?
Direi che Bengala è la forma più corretta, oltre tutto non è un nome d’arte ma è il mio cognome. La nascita e il processo evolutivo di questo progetto hanno come unico perno la mia presenza fissa mentre le collaborazioni avvengono quasi solo in fase di registrazione e di arrangiamento aggiuntivo. La formazione live varia a seconda della situazione, attualmente prevede il duo basso/voce e percussioni con Fabrizio Carriero dietro le pelli oppure la versione solista con voce basso e stompbox che attualmente mi ha consentito di esibirmi in strada e in alcuni secret show tra i colli briantei.

E’ da poco fuori “Il sonno della provincia agricola”, mi daresti prima di tutto la tua definizione di provincia agricola?
La provincia agricola è un concetto che descrive un luogo e un modo di vivere ormai quasi andato perduto; qualcosa di antico che fa parte del territorio in cui vivo, che si nasconde tra i muri di pietra e nei vecchi cascinali dove fin da ragazzino trascorrevo il tempo a suonare. La provincia agricola sta ai margini della società moderna, è un luogo dove ci si rifugia quando si comincia ad essere stanchi di certi ritmi. Non lo penso come luogo di aggregazione culturale bensì di auto isolamento.

All’interno del contesto da te descritto, come va intenso il concetto di “sonno”?
Si riferisce al sottosuolo, dove le radici del tempo hanno lasciato la loro impronta e dove gli echi di antiche tradizioni risalenti a un passato remoto respirano lente, dormienti ma ancora vive.

Può esserci un equilibrio tra provincia agricola e rete? Alla fine, noi in questo momento stiamo sfruttando uno strumento globale per parlare di un’ideale di provincia…
Nonostante ci si sforzi di essere cittadini del mondo e ci si affanni a stare al passo con la modernità, trovo che spesso ci si dimentichi che siamo e viviamo in un enorme provincia, la stessa che qualcuno parecchi anni fa ha definito “periferia dell’impero”. Non siamo nati al di là della manica o in Scandinavia e neanche negli Stati Uniti e molto di ciò che abbiamo fa parte di un flusso culturale unilaterale imposto dall’esterno. Parlare di provincia in un mondo globalizzato non è solo un atto di consapevolezza rispetto a ciò che si è veramente, è anche un piccolo ma feroce tentativo di riscatto e di distacco dalle solite logiche esterofile adottate per esempio da numerosi colleghi musicisti, che personalmente comincio a considerare ridicoli.

Come sono nati i brani de “Il sonno della provincia agricola”?
I brani de “Il sonno della provincia agricola” sono nati in tempi molto brevi durante il primo lockdown ma sono il frutto di un percorso intrapreso negli ultimi quattro anni ovvero da quando sono tornato a vivere in Brianza, nei luoghi della mia adolescenza. A differenza delle mie produzioni precedenti il punto di partenza dei singoli brani di questo progetto è stato il testo, successivamente sviluppato metricamente attraverso basso e tastiere. La difficoltà nel potermi esibire nei locali causata delle condizioni sociali imposte dalla pandemia ha poi influenzato il risultato finale dell’Ep.

Riconosci in queste tracce la band che hai fondato nel 2017?
Sì, riconosco l’approccio istintivo e sono consapevole di essermi allontanato anni luce dal primo Ep prodotto nel 2017 e questo per me è motivo di orgoglio. Per quanto riguarda il genere penso solo che sia un semplice metodo di espressione che trasformo ed evolvo. La scelta di passare da Femore Prod a Slaughterhouse Recordse poi successivamente per Fuzz Prod di Luca Ciffo è stata consequenziale al tipo di sound che volevo ottenere. Per quest’ultimo lavoro mi sono affidato a Claudio Guintini dello Scatola Nera Studio che è riuscito a ricreare un ottimo sound neofolk.

Racconti delle storie nelle tue canzoni, credi che potrebbero essere scisse dalla musica oppure non esiste un vero confine tra le note e le tue parole?
Penso che in questo caso le parole possano essere estrapolate dal contesto musicale. Non mi dispiacerebbe affatto se qualcuno un giorno decidesse di trasformare questi brani in qualcos’altro. La musica e le parole possono diventare arte visiva per mano di un illustratore o il racconto di uno scrittore. Io stesso ho romanzato in queste canzoni dei fatti storici realmente accaduti e li ho tradotti nel mio linguaggio.

Hai già proposto i nuovi brani dal vivo?
Sì e ho l’abitudine di arrangiarli in più versioni, da one man band fino al quartetto elettroacustico. La versatilità è uno dei concetti base per cui porto avanti questo progetto, chi viene ad ascoltare i miei live può ritrovare gli stessi brani che ho suonato il giorno prima su un palco in formazione completa, eseguiti il giorno dopo in versione folk totalmente acustica.

In coda ti chiedo: quanto è vicina la tua realtà attuale al tuo ideale di vita da provincia agricola?
Attualmente passo molto più tempo tra i campi e nei boschi a suonare che nel mondo civilizzato. Diciamo che nella modernità ci sono entrato con un ben assestato calcio nel sedere, ma sto rimediando all’errore anche se con estrema fatica. Tra i progetti futuri sarà fondamentale vendere la macchina e comprare un mulo.

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