Con il nuovo album “Dreaming the Strife for Love”, pubblicato dalla 20 Buck Spin, i Bedsore proseguono il loro percorso artistico evolvendo il proprio sound oltre i confini del death metal tradizionale. A distanza di qualche anno dal debutto “Hypnagogic Hallucinations“, il gruppo ha affinato il proprio linguaggio musicale, ampliando le influenze e costruendo un’opera dal forte impianto narrativo.
Benvenuti, ormai da qualche settimana è fuori “Dreaming the Strife for Love”, come descrivereste l’evoluzione del vostro sound da “Hypnagogic Hallucinations“ al vostro lavoro più recente? Quali influenze nuove hanno avuto un impatto sulla vostra musica? E queste influenze, in qualche modo, sono state consce o inconsce?
Ciao, grazie per averci voluti qui! L’evoluzione del nostro sound è stata naturale dal nostro debut fino ad oggi. “Hypnagogic Hallucinations” era un’opera istintiva, costruita sulla visceralità e su un’idea diretta e cruda del nostro linguaggio musicale. “”Dreaming the Strife for Love”, invece, ha richiesto una visione più ampia, sicuramente più matura e fuori dai canoni di genere. Se all’inizio quindi il nostro sound si basava più su un conglomerato di influenze che su una vera e propria identità sonora, adesso è tutto il contrario. Le influenze permangono e si sono anche ampliate, chiaramente — dalla tradizione prog rock italiana e internazionale, da certe colonne sonore d’autore e persino dalla musica classica del primo Novecento come Holst o Wagner — ma quello che è cambiato maggiormente è stato la nostra consapevolezza musicale: l’aspetto compositivo si è raffinato, abbiamo avuto il tempo di esplorare nuove soluzioni timbriche, scoprendo il modo giusto di trattare la dinamica nei brani e l’alternarsi delle strutture: tutto questo ha reso “Dreaming…” un lavoro estremamente stimolante, ma ci ha anche visto crescere come persone.
Qual è stato il processo dietro la scrittura di Dreaming the Strife for Love: siete partiti da un’idea concettuale o la musica ha guidato la direzione del tema?
Le due cose si sono intrecciate sin dall’inizio. L’idea di ispirarci all’”Hypnerotomachia Poliphili” è nata già nei primi stadi di composizione, quando ci aveva suggerito questa vicinanza Timo Ketola, ma la musica ha avuto un ruolo fondamentale nel definire il carattere del disco e ci sembra anche fisiologico, dopotutto. Volevamo un album che avesse una struttura narrativa forte e così è stato, dove ogni brano fosse un capitolo di un viaggio iniziatico — quello di Polifilo, protagonista dell’opera, ma anche di tutti noi, che ci immergiamo costantemente nelle nostre incertezze e che tuttavia ricerchiamo sempre qualcosa di superiore, nella vita di tutti giorni. Ci siamo quindi ritrovati a lavorare in maniera tematica, sfruttando una serie di leitmotiv — in
realtà pochi — e le loro interconnessioni sottili con i timbri delle orchestrazioni e le vicende narrate. Non è stato un processo lineare: alcuni brani sono nati da idee musicali esistenti addirittura prima che conoscessimo il concept, altri invece dalla necessità di raccontare determinati passaggi narrativi, ma il tutto è stato elaborato in un secondo momento con la lucidità di chi mette in ordine i pezzi di una storia che conosce molto bene. È stato come costruire un’opera sinestetica, dove parole, suoni e immagini si sono fusi per creare un’esperienza unitaria.
I vostri testi e l’estetica visiva della band sembrano evocare mondi onirici e surreali. Avete mai considerato l’idea di collaborare con artisti visivi per ricreare queste atmosfere sul palco?
Assolutamente sì, e in parte ci stiamo già lavorando. “Dreaming the Strife for Love” è un album che vive di immagini tanto quanto di suoni, e ci piacerebbe riuscire a trasportare questa dimensione anche nei live. Il video realizzato per” Scars of Light” da Costin Chioreanu è stato un primo tentativo, decisamente riuscito: chissà che non si possa creare qualcosa del genere anche su un palcoscenico. Stiamo esplorando diverse possibilità, l’idea è comunque di rendere ogni concerto un’esperienza immersiva, un’estensione del viaggio che l’album propone, tra visuals, scenografie e giochi di luci che possano amplificare l’aspetto onirico della nostra musica.
Avete già proposto dal vivo i nuovi brani? Ve lo chiedo, perché vorrei sapere se sono complessi da eseguire sul palco e/o se gli avete sottoposti a un processo di rimaneggiamento o meno…
Certo! Abbiamo suonato “Dreaming the Strife for Love” per la prima volta lo scorso 1 Febbraio nella nostra Roma, a fianco ai Fulci e ad un Traffic in visibilio. L’accoglienza è stata decisamente calorosa ma senza dubbio il processo di adattamento dei brani è stato una sfida. Il disco è ricco di dettagli e stratificazioni sonore, quindi la trasposizione live ha richiesto un grande lavoro di sintesi e riarrangiamento, ma ci ha anche visto esplorare una nuova dimensione di gruppo, visto che abbiamo chiamato due membri aggiuntivi a tastiere e chitarre. Alcuni brani sono molto complessi dal punto di vista esecutivo e richiedono un assetto particolare, ma la sfida più grande è mantenere la stessa atmosfera dell’album con una formazione funzionale. Tuttavia non è sempre necessario riprodurre fedelmente le sezioni così come sono, anzi il live spesso diventa interessante proprio perché dà la possibilità di giocare con alcuni fattori.
Passiamo a un altro tema portante del disco, l’utilizzo della lingua italiana. Cosa si cela dietro questa scelta? E come mai tutti i titoli dei brani sono in inglese?
L’italiano ci ha permesso di esprimere tutte le sfumature del concept originale con maggiore profondità ma anche dandoci spazio per raccontare di noi in maniera diretta e sincera, senza il filtro di una lingua estera che, seppur conosciuta, non si può mai padroneggiare a pieno. Quella italiana è poi una lingua ricca di musicalità e sfaccettature espressive, e per un album con un’impronta così narrativa ci è sembrata la scelta più sensata; ricordiamoci poi che la stessa “Hypnerotomachia” è un testo in italiano, in fin dei conti. I titoli in inglese, invece, sono una finestra universale: ci piaceva l’idea di mantenere un punto di contatto con un pubblico internazionale, offrendo un primo livello di lettura accessibile a tutti. In un certo senso, è come se i titoli fossero una chiave d’accesso a un mondo che poi, una volta entrati, si rivela in una lingua più intima e personale.
Nel giro di un paio di album siete riusciti a crearvi una vostra identità precisa all’interno del movimento death tricolore. Sentite di essere parte di una comunità oppure le vostre scelte ormai vi stanno portando verso altri lidi stilistici?
Riprendiamo qui quello che stavamo accennando prima. Siamo nati nella scena death metal e continuiamo a sentirci parte di essa, ma allo stesso tempo il nostro percorso ci sta portando a esplorare territori sempre più individuali e meno battuti, in termini di genere. Non ci sentiamo legati a una scena in senso stretto quindi, perché la nostra musica vive di molte suggestioni diverse, alcune delle quali esulano dal metal stesso o addirittura dalla nostra arte. Ci piace pensare che la nostra identità non sia definita solo dal genere, ma dall’approccio artistico. La contaminazione è sempre stata nel nostro DNA, e continueremo a seguirla senza precluderci nessuna possibilità.
Per preparare le mie domande, sono andato a riprendermi una nostra intervista del 2020. La prima cosa che mi è saltata all’occhio è la foto, quella dell’epoca è tipicamente death, quelle attuali vi ritraggono quasi come una band prog dei 60-70. Quanto siete cambiati come persone in questi anni?
Quattro anni sono un’eternità dal punto di vista personale e artistico! Tuttavia ci sembra di aver proseguito in linea con le nostre ispirazioni di allora, un po’ come è successo musicalmente. Quello che è cambiato è che oggi siamo maturati e abbiamo fatto spazio anche a quelle fonti di ispirazione che, al tempo, non erano state incluse pienamente, forse per prudenza. Ora sentiamo di poterci esprimere in maniera libera, senza costrizioni di alcun tipo. Non vogliamo in alcun modo sentirci una band revival di qualcosa già vissuto, però. I richiami all’estetica anni 70 o ad un certo tipo di strumentazione vintage, rappresentano un rimando intenzionale a qualcosa che può essere facilmente riconosciuto dal pubblico, tuttavia noi lo viviamo come un nostro personale e sincero tributo a quel mondo musicale, il quale ci ha ispirato da sempre e ha accompagnato la nostra fanciullezza.
Da questo punto di vista, come vedete il vostro futuro musicale? Avete già ben chiare le direzioni stilistiche che percorrerete nei prossimi anni?
Abbiamo delle idee nel calderone, ma non vogliamo limitarci con definizioni troppo rigide. In altre parole, sappiamo “come” lavoreremo ma non a “cosa”; ed è questo l’insegnamento principale che traiamo da questa esperienza. Siamo sicuri che continueremo a esplorare il confine tra prog, metal e ambientazioni cinematiche, ma il modo in cui lo faremo è ancora tutto da scoprire. Ogni album è un viaggio a sé, e il prossimo prenderà forma quando sarà il momento giusto: sta proprio qui il bello, in fondo!
Avete già in programma delle date per questo 2025?
Certamente. Stiamo lavorando sodo per portare “Dreaming the Strife for Love” dal vivo nel miglior modo possibile, e al momento abbiamo confermato alcuni festival come l’imminente Incineration Fest a Londra, per poi passare a Chaos Descents e Morbid Catacombs durante l’estate. Presto ci saranno nuove notizie ufficiali all’orizzonte quindi rimanete sintonizzati. Vi lasciamo con un saluto e con l’augurio che possiate anche voi immergervi in questo viaggio senza tempo.
