I Metal Detektor sembrano guardarci negli occhi e sfidarci nella copertina del nuovo album “Violence and Pride”, pubblicato qualche mese fa per Rude Awakening Records. Anche se tramortiti, noi la sfida l’abbiamo accettata, e così ci siamo ritrovati a parlare dell’ultima fatica dei calabresi con Yuri (chitarra) e Max (basso). Ne è venuta fuori una chiacchierata schietta, tra passato e presente, in cui la band ribadisce con fierezza la propria identità musicale e attitudine, senza rinunciare a una riflessione sull’attuale scena metal italiana.
Benvenuti su Il Raglio del Mulo! Il vostro nuovo album “Violence and Pride”, in uscita il 20 giugno per Rude Awakening Records, arriva a cinque anni da “The Battle of Daytona” e segna una nuova fase della vostra carriera. Cosa rappresenta per voi questo ritorno e che significato assumono, per la band, i due concetti centrali del titolo?
Yuri: “Violence and Pride” è il ritorno con cui abbiamo voluto rivendicare tutto ciò che siamo: la rabbia, l’orgoglio, l’onestà di chi fa heavy metal da una vita senza seguire mode. “Violence” è l’energia grezza, l’aggressività del sound, la lotta, la volontà di resistere a un mondo che cambia troppo in fretta e spesso nel modo sbagliato. “Pride” è invece la nostra fierezza nel portare avanti un’identità musicale precisa, fatta di passione, sudore e strada percorsa fianco a fianco. Il titolo rappresenta anche l’equilibrio instabile tra queste due pulsioni e soprattutto non ha niente a che fare con vicende di attualità che potenzialmente potrebbero essere chiamate in causa, per esempio quelle relative a grandissimi innominabili bastardi che con tracotanza sterminano la popolazione civile e si fanno beffe del diritto internazionale, peraltro già di per sé abbastanza ridicolo.
Rispetto al passato, “Violence and Pride” mostra un’evoluzione nel sound e nella scrittura. Quali elementi avete voluto mantenere della vostra identità heavy metal e in che modo avete cercato nuove direzioni?
Max: In realtà abbiamo tenuto tutto ciò che ci rende Metal Detektor: riff solidi, sound della seconda metà degli ‘80s, melodie chiare. Non rinneghiamo nulla di quello che siamo stati: la scuola NWOBHM, il metal classico tedesco e americano, la melodia unita all’aggressività. Tutto questo è ancora lì, le strutture tuttavia sono più varie, le atmosfere più cupe o più solenni. Non è un taglio col passato, ma un’evoluzione naturale. Abbiamo imparato a dosare meglio le energie e a dare spazio anche al lato più emotivo della nostra musica, senza perdere impatto.
Il singolo “Shadowrunner” ha anticipato l’album con atmosfere più personali, mentre “Grendel Returns” mostra un volto più bellico. Come convivono nel disco queste due anime, quella riflessiva e quella guerriera?
Yuri: Convivono perché sono le due metà della stessa anima. “Shadowrunner” è un brano che nasce dalla sensazione di sentirsi braccati da un nemico inesorabile, senza via di fuga. È la corsa cieca di chi ha il fiato corto ma non può permettersi di fermarsi. È una canzone urbana, notturna, ruvida, distopica. “Grendel Returns” invece è pura mitologia heavy metal: un mostro antico che ritorna per vendicarsi, un simbolo di forza primordiale. Ma anche lì, sotto la pelle del guerriero c’è una storia di emarginazione e rifiuto. Tutto il disco oscilla tra questi due poli: introspezione e attacco, riflessione e reazione. La vera violenza è infatti spesso quella che non si vede.
I testi sembrano oggi più intimi, quasi autobiografici. C’è stata una svolta consapevole in questa direzione? Quali esperienze personali hanno influenzato la narrazione del disco?
Yuri: In passato scrivevamo spesso guardando fuori: personaggi, storie, suggestioni. Con “Violence and Pride” abbiamo deciso di guardarci dentro. Ma non lo facciamo in modo esplicito o diretto: non ci piace l’autobiografia nuda e cruda. Scriviamo in modo che il nostro vissuto personale possa diventare universale, o almeno risonante. Un esempio è “Strongest Heart”: parla di tenacia, di disciplina fisica, ma anche di dolore, fallimento, rinascita. Parte dall’esperienza del corpo, dal culturismo come simbolo di autocostruzione, ma diventa qualcosa di più grande — una riflessione sull’identità e sul valore della fatica. Oppure “Sister Gone Mad”, che prende spunto dalla vicenda di Christiane F., e che non è solo una cronaca del degrado generazionale ma anche una metafora del dolore che abbiamo vissuto tutti, a volte vicino a noi, a volte dentro di noi. Anche quando raccontiamo storie inventate o mitologiche, lo facciamo per parlare di noi. Usiamo simboli, figure, immagini forti per trasformare il vissuto personale in qualcosa di più grande. Ma alla base ci siamo noi, con i nostri dubbi, le sconfitte, le ferite e le cicatrici, ma anche la rabbia e la volontà di non mollare.
Avete realizzato il disco insieme a Cristiano Copat al KK Recording Studio. Com’è nato il rapporto con lui e cosa ha aggiunto al suono dei Metal Detektor in questa fase?
Max: Cristiano è stato prima di tutto un ascoltatore. Ci ha lasciati parlare, suonare, spiegare. Ha capito che volevamo un suono ruvido ma definito, dinamico ma non sterile. Ci ha aiutati a valorizzare ogni sfumatura: le parti più crude, le aperture più epiche, i momenti più intimi. Non ha mai imposto una direzione, ma ha saputo orientarci. Il suo lavoro di produzione è stato discreto ma decisivo. Ha dato tridimensionalità al suono e ha reso ogni brano pieno, vivo: Cristiano praticamente ha dato ordine alla nostra furia, ha valorizzato i contrasti e reso tutto più potente ma anche più profondo.
L’artwork di “Violence and Pride”, realizzato da Mirko Cozza, è molto d’impatto. Qual è il significato dietro l’immagine e quanto peso ha, per voi, l’aspetto visivo nella costruzione di un album?
Max: Abbiamo voluto un’immagine che fosse iconica e diretta, ma non banale. L’idea è nata da un omaggio ai beat ‘em up anni ’90, in particolare a Final Fight, ma con una nostra interpretazione: Johnny the Madness, la mascotte del gruppo, è il protagonista, un reietto che combatte da solo in una città spietata. È il simbolo perfetto del disco: un uomo contro tutti, ma in piedi, con orgoglio. Mirko ha fatto un lavoro eccellente nel dare corpo a questa visione. Per noi la parte visiva ha sempre avuto un valore forte. Un album non è solo musica: è atmosfera, narrazione, impatto. L’artwork ti deve colpire, farti entrare nel mondo dell’album ancora prima di ascoltarlo.
Con pezzi come “Kok Ború” e “Wild Frontier” emerge un gusto cinematografico ed epico. Quanto è importante l’immaginario nei vostri brani, e da dove nasce questa attitudine narrativa?
Yuri: L’immaginario è il primo motore. Ogni canzone dei Metal Detektor nasce da un’idea narrativa, non da una progressione di accordi. Partiamo da una scena, da un personaggio, da un concetto visivo. Poi costruiamo intorno riff, melodia, testo. È un approccio quasi cinematografico: vogliamo che l’ascoltatore veda qualcosa mentre ascolta. “Kok Ború” è nato da un’immagine di un gruppo di cavalieri dell’Asia centrale che si contendono una carcassa galoppando nella steppa. Ci è sembrato il simbolo perfetto della competizione, della lotta per la sopravvivenza. “Wild Frontier” invece è una riflessione sulla fine della frontiera, su un mondo che ha perso i suoi confini selvaggi. È un western rovesciato, che racconta anche la nostra epoca, infatti i protagonisti sono dei motociclisti, in particolare gli Indian Bikers Mc South Italy, per i quali in passato abbiamo suonato in memorabili motoraduni. Ogni canzone è una storia. Ma anche in brani apparentemente “lontani” dalla realtà, parliamo comunque di noi. La frontiera può essere mentale. La steppa può essere una sala prove. Il cavaliere può essere un sopravvissuto del quotidiano. E comunque l’heavy metal tradizionale si presta benissimo alla narrativa: forse il metal moderno meno, ma se si ha avuto la fortuna di essere cresciuti con Manowar, Savatage, Virgin Steele, Running Wild o anche semplicemente con gli Iron Maiden… ma per forza nasce l’attitudine al racconto!
Dal 2000 a oggi, passando per i Cripta Studios e la reunion del 2015, la vostra storia è lunga e combattiva. Cosa sentite sia rimasto invariato nello spirito dei Metal Detektor dopo oltre vent’anni?
Max: Siamo cambiati (poco) come persone, certo, ma l’attitudine è sempre la stessa: suonare come se fosse l’ultima volta, con sincerità, con rispetto per chi ascolta. Abbiamo, nel nostro piccolo, vissuto la scena del sud Italia, gli studi, i palchi grandi e quelli improvvisati. Abbiamo fatto pause, cambiato line-up, ma non abbiamo mai smesso di crederci. Non siamo più gli stessi ragazzi dei Cripta Studios, è ovvio. Abbiamo fatto scelte difficili, la vita ci si è messa di traverso, ci siamo fermati quando serviva, siamo ripartiti quando era il momento. Però, se ci fai caso, ogni volta siamo tornati più forti. Come mai? Semplice, lo spirito dei Metal Detektor è sopravvissuto perché è reale.
Cosa ci sarà dopo “Violence and Pride”? Avete già in mente attività live, videoclip o ulteriori pubblicazioni legate al disco? E come pensate di portare dal vivo la nuova dimensione sonora ed espressiva della band?
Max: Stiamo già componendo nuovo materiale. Stiamo anche ragionando di ripubblicare o registrare da capo il materiale dei primi anni insieme per rendergli giustizia… sonora. All’epoca eravamo un po’ più cialtroni, soprattutto dal punto di vista tecnico. Le idee insomma non mancano, e l’entusiasmo per questo disco ci ha spinti a voler esplorare ancora di più. Ma prima porteremo “Violence and Pride” dal vivo, a partire dall’inverno: stiamo organizzando una serie di date per dare al pubblico la versione più potente e viscerale possibile di questo album. Sul palco sarà una vera scarica, più teatrale e dinamica, ma sempre fedele a quello che siamo! Magari ne tireremo fuori un disco dal vivo, sarebbe anche ora, no? La cosa certa è che questo disco non sarà un punto d’arrivo, ma l’inizio di una nuova fase. Lo porteremo ovunque ce ne sarà data l’occasione, con la stessa grinta che ci ha sempre contraddistinto.
