Bosco Sacro – Fountain of wealth

Il prossimo 10 febbraio uscirà per Avantgarde MusicGem“, il disco che sancisse l’esordio dei Bosco Sacro, band che vanta nelle proprie fila Paolo Monti (The Star Pillow, Daimon), Giulia Parin Zecchin (Julinko), Luca Scotti (Tristan da Cunha) e Francesco Vara (Tristan da Cunha, Altaj). Tutti e quattro membri della band hanno accettato di rispondere alle nostre domande…

Benvenuti ragazzi, direi di iniziare ripercorrendo i momenti che hanno portato alla costituzione dei Bosco Sacro…
Paolo: Quando Francesco, con cui ci conosciamo da molto tempo, mi ha proposto di contribuire a qualche traccia nata da lui e Luca, a cui si era già unita Giulia, ho accettato con la mia solita curiosità, ma ben deciso a non volermi coinvolgere in una band. Mi è bastato ascoltare i primi risultati per accettare di incontrarci in saletta in un giorno di estate 2021. Dopo questa giornata trascorsa a suonare è scattata una scintilla che ci ha portati pochi mesi dopo a chiuderci un weekend intero con Lorenzo Stecconi nello stesso studio in Versilia. Questo era il secondo nostro appuntamento e nasceva “Gem”.
Francesco: Io e Luca, il batterista, abbiamo un duo ambient/drone/post rock di nome Tristan da Cunha. Durante il lockdown abbiamo avuto modo di collaborare con Julinko, aggiungendo il suo cantato ad un nostro pezzo strumentale per una compilation di Electric Duo Project; il risultato ci ha entusiasmato a tal punto da voler iniziare un nuovo progetto che includesse Giulia e un quarto elemento che abbiamo individuato in Paolo, nostro amico con il quale abbiamo condiviso molte date e tour con il suo progetto solista The Star Pillow, e che ha prodotto il primo disco dei Tristan da Cunha, “Soçobrar”. Provenendo da posti diversi (io e Luca da Pavia, Giulia da Treviso e Paolo da Carrara) abbiamo iniziato mandandoci registrazioni e bozze a distanza. Nel Giugno del 2021 abbiamo finalmente avuto modo di trovarci a provare insieme ed il risultato è stato umanamente e artisticamente enorme, perché oltre ad una band è nata anche una fratellanza fra di noi.

La scelta del nome ha in qualche modo a che fare con quel posto ricco di fascino e mistero che è il Bosco Sacro di Bomarzo?
Paolo: Cercavamo un nome che richiamasse immediatamente tutti i connotati del progetto, la sacralità, circolarità, profondità, essere selvaggio, misticismo ed in generale la forte connessione con la Natura a cui, su diversi piani, ogni specie appartiene e ritorna, in un ciclo eterno. Il nome Bosco racchiudeva tutto questo e dopo diverse proposte ho suggerito un “Sacro”. Bosco Sacro descrive perfettamente la nostra essenza e la profondità del nostro suono.
Francesco: Inizialmente il Bosco Sacro era semplicemente il concetto attorno al quale fondare la nostra poetica, ma lo abbiamo mantenuto come nome definitivo dato che incarna in maniera precisa i connotati di circolarità, di scambio dei nostri linguaggi espressivi, di stupore e meraviglia, di una sacralità liquida e indefinita come un miraggio.

La band nasce nel 2020, il disco viene inciso nel 2021: come mai abbiamo dovuto attendere il 2023 per la sua pubblicazione?
Paolo: Nel 2021 nasce il nostro sodalizio scambiandoci tracce e molte molte suggestioni. Nella stessa estate ci incontriamo una prima volta per suonare tutto il giorno in uno studio. Poco dopo una seconda volta, per registrare l’album nello stesso studio. Quindi ad inizio 2022 con i mix dell’album in mano abbiamo iniziato la parte difficile, la ricerca di una label. Incontriamo ben due proposte e accettiamo quella di Avantgarde Music intorno a giugno 2022. Aggiungi i tempi tecnici e della label con le sue release già pianificate ed ecco che si arriva alla data di release il 10 Febbraio 2023.

Provenite tutti da band attive e con una certa storia alle spalle, ritenete che i Bosco Sacro siano un’entità che è la somma delle vostre esperienze musicali o che sia, invece, qualcosa che se ne distacca completamente per dar vita a un sound indipendente da ciò che avete fatto in passato?
Luca: Credo che il sound di Bosco Sacro si porti indiscutibilmente appresso qualcosa di Tristan da Cunha, Julinko e The Star Pillow perché sono ormai da anni i nostri progetti musicali individuali. Per Paolo e Giulia i loro alter ego, per me e Francesco “la nostra isola” in cui tutto sfogare e affidare a suon di drone: fanno parte di noi. Quindi per questo motivo penso che Bosco Sacro sia la somma di tutte queste esperienze vissute da noi, di tutte le nostre influenze che messe assieme danno vita a un qualcosa di nuovo mai sentito prima. Penso, infine, che la nostra musica non sia una naturale evoluzione da abbinare ai nostri singoli generi musicali ma una musica nata dalla semplice voglia di sperimentare all’interno di questo nuovo progetto/percorso che noi quattro abbiamo deciso di creare insieme, proprio per poter dar vita al “nuovo”.
Paolo: In Bosco Sacro sto esplorando e lavorando esclusivamente in un preciso range di frequenze (quelle più gravi) ed in una modalità / approccio compositiva ed esecutiva diametralmente opposta rispetto a quella degli altri miei progetti. Questo, sommato al lavoro di tutti gli altri, crea inevitabilmente un nuovo composto sonoro, pur portando in esso le nostre esperienze pregresse.
Francesco: Personalmente, come chitarrista, ho cercato di lavorare diversamente rispetto al solito, concentrandomi principalmente sull’arrangiamento melodico, dialogando e intrecciandomi con la voce di Giulia, cercando una fusione armonica. E’ un esercizio per me del tutto nuovo, provenendo da esperienze quasi esclusivamente strumentali. Il risultato generale di Bosco Sacro per me è un divenire.

Non ho i testi, ma mi par di capire che il disco sia permeato da un spirito panteista ed ecologista, è così?
Giulia: La nostra musica è contemplazione unita ad espressione, riflesso di qualcosa che sentiamo e vediamo. Non c’è una presa di posizione sul piano spirituale, sociale o politico che unisca i nostri intenti. L’istinto a cui rispondiamo è quello di liberare qualche scintilla della vastità che ci abita e ci percorre in ogni momento, legando il nostro spazio più intimo all’ ”altro”, all’ ”esterno”, agli altri corpi organici ed elementari che abitano questo mondo in cui viviamo, anche all’immateriale che non si può vedere. L’osservazione della natura e l’amore non sofisticato per quest’ultima, sono la base per questo movimento: i testi che ho scritto fanno riferimento ad esperienze vissute a stretto contatto con essa ed hanno origine dalla convinzione che l’uomo non sia una creatura qualitativamente e cognitivamente superiore a piante, pietre, acque. Dunque più che uno spirito panteista lo definirei pan-psichico, e più che uno spirito ecologista lo chiamerei semplicemente, naturalista.

Mi soffermerei sull’uso della lingua, per esempio la tracklist contiene titoli in inglese, italiano e francese, a cosa è dovuta questa scelta?
Giulia: Da tempo m’interrogo sulla possibilità di liberare il mio canto dal vincolo della parola, dalla logica del significato, per far fiorire il suo afflato più essenziale, quello di essere aria, suono e nient’altro: puro innalzamento, puro abbandono. Inizialmente per Bosco Sacro avevo pensato che potesse essere questa la via da percorrere, poi nella pratica mi sono ritrovata a muovere le labbra e i muscoli del diaframma anche per descrivere qualcosa, veicolare dei nuclei di immagini che potessero essere comprensibili ai molti. Tutti i testi sono scritti in inglese, tranne uno, “Les Arbres Rampants”, un brano nato e composto quasi ad impromptu che esigeva la musicalità del francese e non un’altra, un fattore che ha anche trasformato, per quell’episodio, il mio modo di cantare. Queste presenze linguistiche sommate al nome del gruppo ed omonima title-track “Bosco Sacro”, mi hanno riportata – seppur per via opposta – verso l’istinto iniziale che avevo avvertito, quello di sconfinare rispetto ad un codice linguistico fisso, andando verso la creazione di uno spazio che potesse ospitare una piccola fusione di impressioni e risonanze, provenienti da realtà metafisiche diverse.

Il titolo, “Gem”, a cosa fa riferimento?
Giulia: Avendo creato un ambiente linguistico misto (pur sempre umilmente restando nella nostra micro-area di ascendenza latino-greca), “Gem” è una parola che irradia due significati e due immagini diverse in lingue distinte. In inglese, il termine derivante dall’antico francese indica solamente la pietra preziosa, mentre sappiamo che in latino, come anche in italiano corrente, con “gemma” si indica il primo germoglio di una pianta, oltre che un prezioso oggetto minerale. Questa ambivalenza di allusione viene rappresentata dall’immagine di copertina creata da Carlo Veneziano, dove viene suggerito anche un legame simbolico ed alchemico tra i due: scavando ancora più a fondo, l’etimologia greca della radice della parola ci rimanda a significati come “essere pieno/a”, “generare”, “ produrre”… (ecc). Per noi, “Gem” è una pietra preziosa che si è materializzata nella nostra strada a partire da un piccolo germoglio, un’intuizione semplice e proliferante, che ci porta a viaggiare insieme in un percorso fatto di scie, gallerie, reticoli e riflessi… una dimensione sonora che equivale a quella dell’anima.

Porterete dal vivo “Gem”? E secondo voi quale sarebbe la location migliore per ospitare i vostri show?
Paolo: Quella del live è una dimensione sacra. Bosco Sacro trova in essa il suo habitat naturale e si sviluppa, anche su disco, proprio grazie all’intesa come live band. Sebbene di fatto non avessimo mai suonato insieme, è come se lo avessimo sempre fatto, e magari è proprio così. Anche se ognuno di noi proviene da rispettivi progetti ed esperienze, Bosco Sacro è di fatto una nuova band e come tale si è scontrata con la solita indifferenza degli “addetti ai lavori”, mentre ha ricevuto fin da subito grande supporto ed interesse dalla gente della nostra scena e questo non può che renderci veramente felici e motivati. Curo da sempre la gestione dei miei tour e concerti, e devo riconoscere che ho visto un imborghesimento ingiustificabile di molti booking: prima erano parte di uno stesso giro sopra, sotto, dietro il palco alimentandone curiosità, facendosi promotori di stimoli e contaminazioni, adesso hanno creato un divario, cedendo alla tentazione di lavorare con artisti di fama o di certi giri esclusivi. Stesso discorso vale anche per Festival e, peggio ancora, per molti promoter. Vorrei chiedere a questa gente cosa farebbe adesso se gli spazi di 10, 15 anni fa avessero ragionato allo stesso loro modo di adesso. Detto ciò, con non poca fatica, abbiamo chiuso in totale autonomia un primo tour italiano e, a seguire, un primo tour europeo. La location migliore è quella in cui riuscire ad esprimere pienamente il nostro suono insieme ad un pubblico disposto a lasciarsi andare completamente insieme a noi.

Cosa vi aspettate da questo 2023 segnato dal vostro esordio discografico?
Paolo: Ci auguriamo di poter suonare “Gem” ovunque sia possibile farlo. Ringraziamo la nostra label, Avantgarde Music, composta da grandi professionisti e persone coraggiose che amano quello che fanno e creano nuovi stimoli: esattamente l’opposto delle persone di cui parlavo prima.

Slowtorch – The machine has failed

Gli Slowtorch hanno affrontato l’impervia burrasca del lockdown, che ha stravolto i piani dei bolzanini, uscendone vincitori grazie a un album convincente come “The Machine Has Failed” (Electric Valley Records / Qabar Pr).

Benvenuto su Il Raglio del Mulo, Bruno. Il 29 è la data scelta per la pubblicazione del vostro terzo album. Avete dei ritmi lenti, però devo riconoscervi una certa puntualità. Tra il debutto “Adding Fuel to Fire” e “Serpente” sono andati via 7 anni, più o meno gli stessi che separano il secondo disco da “The Machine Has Failed”. A cosa sono dovuti questi lungi e cadenzati intervalli di pubblicazione?
Ciao Giuseppe, innanzitutto grazie per ospitarci su Il Raglio del Mulo! A dire il vero più o meno a metà strada tra “Adding Fuel To Fire” e “Serpente” è uscito l’EP “4-Barrel Retribution” via Riff Records. All’epoca il nostro cantante Matteo era appena entrato nel gruppo. Subito dopo l’uscita di “4BR” ci siamo messi al lavoro sui pezzi di “Serpente”. Tra “Serpente” e “The Machine Has Failed” invece c’è stato un cambio di line-up, il nostro bassista Karl ha lasciato il gruppo per ben tre anni prima di tornare con noi nel 2018. “The Machine Has Failed” da principio doveva uscire sotto forma di due EP. Abbiamo registrato la prima metà – il lato A del vinile –, poi c’è stata la pandemia che ha allungato i tempi, e infine la nostra etichetta Electric Valley Records ci ha chiesto di fare un full-length, al che siamo tornati in studio a registrare la seconda metà nel gennaio 2022.

Visto che parliamo del tempo che trascorre lento e inesorabile, quanto vi riconoscete oggi nelle persone che hanno composto il vostro disco d’esordio?
Sono l’unico rimasto nella band dai tempi in cui è stato scritto “Adding Fuel to Fire”. All’epoca ci abbiamo messo l’anima, ma certamente da quegli anni ad adesso siamo maturati parecchio come musicisti, e credo che si senta decisamente. Siamo riusciti a conservare l’immediatezza e l’impatto di una volta, ma come abilità musicali e songwriting abbiamo fatto dei passi avanti, anche perché a parte l’assenza di Karl – sostituito da Marco Comi dal 2015 al 2017 – abbiamo una formazione stabile dal 2012 con Matteo Meloni alla voce, Fabio Sforza alla batteria e Karl Sandner al basso. Attraverso i cambi di line-up anche il nostro stile ha subito le influenze personali dei nuovi “innesti”. Tutto sommato credo che sia possibile riconoscere negli anni una matrice Slowtorch invariata che si è adattata però all’evoluzione della band.

Qual è il brano più vecchio e quale quello più recente tra quelli finiti nella tracklist definitiva?
Se non sbaglio, il brano più vecchio dell’album dovrebbe essere “Man vs. Man”, il riff principale risale a cinque o sei anni fa. Il pezzo più recente dovrebbe essere “Sever The Hand”.

Qual è il significato del titolo, “The Machine Has Failed”?
Quando sono nati i primi testi ci siamo accorti che c’erano temi ricorrenti: in generale una certa dose di rabbia verso quelle che noi riteniamo storture della società e del tempo nel quale viviamo. “The Machine Has Failed” è un riferimento al sistema globale che governa le nostre vite, oramai insostenibile, inceppato, fallito.

Possiamo definirlo, almeno concettualmente un disco distopico oppure si tratta di un album con i piedi ben piantati nella realtà attuale?
Alcuni brani hanno un’ambientazione distopica, ma vogliono descrivere con questo artificio un nostro comune sentire che è reale, attuale e profondamente radicato nella nostra quotidianità.

Nei vostri dischi l’aspetto lirico è fondamentale, che idea vi siete fatti dell’attenzione che i vostri fan danno ai testi? Noi italiani siamo portati per tradizione a rilegarli in second’ordine… Non riesco a valutare quanto sia importante questo aspetto per chi ci segue: solitamente i commenti che accompagnano la nostra musica riguardano di più l’impatto immediato che siamo in grado di trasmettere al pubblico, la nostra attitudine, il coinvolgimento che suscitiamo. Credo però che il messaggio contenuto nei nostri testi si stia facendo strada e credo che non sia un caso che avvenga ora più di prima. “The Machine Has Failed” invita di più alla riflessione rispetto alle produzioni precedenti.

In generale comporre su di voi ha più un effetto doloroso oppure catartico?
Per quanto possa essere lungo e faticoso è decisamente un processo catartico. La parte più faticosa è quella di sintesi fra le nostre quattro diverse personalità. Ognuno di noi interviene in fase di scrittura e anche quando i brani nascono con uno scheletro abbastanza definito devono passare attraverso questo processo di confronto prima di essere maturi.

Passiamo all’aspetto live, avete date in programma?
Si riparte! Di confermato al momento abbiamo due date in Austria in maggio e luglio, di cui la seconda come headliner, e una manciata di date in casa ovvero in Alto Adige, tra le quali spicca sicuramente il supporto a Phil Campbell & The Bastard Sons (ex chitarrista dei Motörhead), che avevamo già conosciuto in occasione di un live in Inghilterra nel 2019.

Avere la vostra base logistica a Bolzano, da questo punto di vista è un vantaggio o uno svantaggio, essendo probabilmente più vicini alle piazze che contano in Europa che in Italia?
Sicuramente è un vantaggio essere così vicini all’Austria e alla Germania, dove il nostro genere tradizionalmente trova più ascolto che in Italia. Infatti ci siamo sempre rivolti più all’estero che all’Italia, con svariati tour in Inghilterra, Germania e Austria negli anni.

Ufomammut – L’urlo della fenice

Loro nel 2020 ce l’avevano detto che si trattava di un arrivederci e non di un addio. All’indomani dell’abbandono dello storico batterista Vita, gli Ufomammut si sono presi una lunga pausa, un silenzio interrotto finalmente con il nuovo album “Fenice” (Neurot Recordings / All Noir) , il primo con Levre dietro le pelli…

Benvenuti ragazzi, nel gennaio del 2020 diffondevate un comunicato stampa nel quale annunciavate una pausa a tempo indeterminato all’indomani della fuoruscita dalla band di Vita. Quando avete capito che era il momento giusto per riprendere l’attività del gruppo?
Urlo: Poia ed io non abbiamo mai pensato di smettere. Avevamo bisogno di prenderci una pausa, di pensare, di capire i nostri errori e di ripartire dagli sbagli fatti. Anche Ciccio, il nostro sound guy non ha mai pensato per un attimo di chiudere con questa avventura. E Levre, amico e parte della famiglia da tanti anni, è stata la scelta ovvia per noi per continuare questo percorso.
Poia: fermarsi è stato inevitabile. E subito dopo è arrivata la pandemia. Ma la brace covava sotto la cenere…

Al momento della ripresa, è stato difficile togliersi di dosso la ruggine dovuta all’inattività?
Urlo: Un pochino. Ma ci è voluto poco per essere pronti e lucidati a nuovo!
Poia: difficile non direi. La memoria corporea aiuta, basta avere pazienza. Come andare in bicicletta, o nuotare… magari il fiato non c’è ancora ma i movimenti sono sempre quelli.

Da Vita a Levre, come è cambiato il vostro modo di lavorare in studio?
Urlo: L’approccio e la voglia di fare. Siamo tutti molto più focalizzati su quello che vogliamo dalla band.
Poia: Levre ha un background musicale differente rispetto a Vita. Abbiamo iniziato a suonare insieme qualche anno prima, in un progetto parallelo ad Ufomammut che non si è mai concretizzato, ma da subito abbiamo riscontrato una particolare alchimia. Chiedergli di continuare con noi il viaggio dì Ufomammut è stato perciò naturale. Il suo contributo alla composizione ha sicuramente modificato anche il nostro modo di lavorare.

“Fenice” è il titolo emblematico del vostro nuovo album. Siete rinati dalle vostre ceneri,  ma in questa nuova fase vi siete portarti dietro dei brani scritti prima della pausa oppure i pezzi finiti nella tracklist sono nati tutti dopo?
Urlo: “Fenice” è nato dall’arpeggio di chitarra e basso di “Metamorphoenix”. Poco alla volta si è espanso diventando un brano di 38 minuti: l’idea iniziale era quella di creare un brano per un EP, poi ci siamo lasciati prendere la mano… Avevamo un progetto con Levre da qualche anno, suonavamo già assieme e alcuni dei brani che avevamo scritto sono stati tenuti e ripresi, ma non per “Fenice”.

Il sound di “Fenice”,  almeno per me, “suona” di nuovo inizio o, meglio, di un ritorno ai vostri inizi. Forse una certa complessità e certe sovrastrutture presenti nei vostri ultimi dischi sono state messe da parte per un approccio più vicino a quello delle vostre origini. E’ una mia impressione o le cose stanno più o meno così?
Urlo: “Fenice” è tecnicamente più complicato dei dischi precedenti, ma molto più “psichedelico” e vicino alle nostre origini. Abbiamo voluto fare un disco senza porci generi, limiti, semplicemente suonare quello che sentivamo in quel momento della nostra vita. Il suono, il modo in cui è uscito “Fenice”, sono sicuramente nuovi e una rinascita dopo un periodo molto buio.
Poia: Non saprei se musicalmente sia un ritorno alle origini. Abbiamo però la consapevolezza di aver intrapreso una nuova esplorazione musicale, e questo ci riporta sicuramente a quelle sensazioni sperimentate più di vent’anni fa.

Forse meno di altri avete pagato lo scotto della pandemia, dato che nel vostro caso l’interruzione dell’attività live è stata più il frutto di una scelta personale che di un’imposizione dovuta alle circostanze nefaste che abbiamo vissuto nell’ultimo biennio. Se non erro da qualche giorno, però, siete tornati attivi anche con i concerti: dal vostro punto di vista privilegiato, là su un palco, avete riscontrato delle differenze sostanziali tra il prima e il dopo pandemia?
Urlo: Il desiderio di suonare è sicuramente più forte, iniziare una nuova avventura porta con sé emozioni diverse dal passato. Salire nuovamente su un palco è stato meraviglioso, vedere i sorrisi delle persone, le teste scuotersi, l’abbraccio del pubblico è stato bellissimo. Eppure è stato quasi come se due anni e mezzo fossero volati e avessero solo dato un grande e nuovo vigore al mio amore per la musica.
Poia: Ho notato da parte di tutti un desiderio bulimico di musica suonata, un’euforia condivisa da pubblico e musicisti. Siamo in tour in Europa (al momento in direzione Desert Fest Berlino) e ovunque ci sono band che suonano, tutti i giorni, e più show contemporaneamente nelle stesse città.

Nel 2008, in occasione della pubblicazione di “Idolum”, vi chiesi se ritenete gli Ufomammut più una band da studio o da palco, voi mi rispondeste così: “Entrambe le cose anche se ognuno di noi la pensa in modo differente. Per Vita il palco è quello che ci da maggior possibilità di trasformare la musica in un branco di mammut impazziti, mentre per Poia ed Urlo la parte più interessante dell’essere Ufomammut è la possibilità di sperimentare e creare in studio. Sono due esperienze distinte. La differenza principale è che in studio siamo anche spettatori.” Le cose sono cambiate o la pensate ancora così?
Urlo: la penso ancora così, anche se suonare live è un modo per capire se quello che hai creato abbia un valore emotivo oppure no. Vedere le persone apprezzare ciò che fai è sempre emozionante.
Poia: Ho capito col tempo che i due aspetti sono inscindibili e complementari. “Fenice” suonato dal vivo si sta evolvendo. Ciò che abbiamo creato in studio con grande dedizione e soddisfazione, acquisisce una consapevolezza e cambia grazie allo scambio con il pubblico. Ufomammut è in equilibrio tra creazione e performance: semplificando, tra Ufo e Mammut!

Nel 2019 avete pubblicato il cofanetto celebrativo “XX” , cosa avete pensato quando avete visto per la prima volta tutta la vostra storia discografica racchiusa in un singolo box?
Urlo: Che ero vecchio…
Poia: Haha! Esattamente! A ripensarci, stavamo già archiviando una parte della nostra esistenza come band.

“XX” è il sigillo sul vostro passato, “Fenice” è il vostro presente, invece il vostro futuro oggi come lo immaginate?
Urlo: Non saprei, nessuno di noi è in grado di leggere il futuro. Sicuramente spero che questa avventura continui e ci dia ancora tante soddisfazioni. Sarebbe già abbastanza.
Poia: Il viaggio è sempre la parte più interessante, attraversare mondi, cambiare e anche ritornare. La meta non si scorge ancora.

Dionisium – I discepoli di Dionisio

Un passo alla volta, senza fretta. I Dionisium hanno deciso di non bruciare le tappe e di non partire direttamente con un EP o con un full-length, come capita spesso oggigiorno, ma sono passati da quella palestra che è il demo. Non per mancanza di coraggio, perché il primo parto del gruppo, “Mount Nisa”, è un unico brano della durata della bellezza di 17 minuti e mezzo! Un lento fluire di sonorità doom, stoner, sludge e black metal.

Benvenuti ragazzi, direi di partire con la più classica delle domande da porre a una band di recente creazione: vi andrebbe di presentare i Dionisium ai nostri lettori?
Ciao, innanzitutto grazie mille per lo spazio dedicatoci. Noi Dionisium nasciamo nel giugno del 2020 e siamo un power trio strumentale formato da Niccolò alla chitarra, Davide al basso e Andriy alla batteria. Come genere proponiamo una miscela di doom metal, stoner, sludge e black metal. Dopo otto mesi circa dall’avvio del progetto abbiamo pubblicato la nostra prima demo, “Mount Nisa”, che consiste in un unico brano della durata di 17 minuti e mezzo.

Nascete nel Giugno del 2020, quindi al termine dello stancante e lungo periodo di lockdwon: secondo voi c’è un nesso tra questa esperienza di cattività, seppur momentanea, e la vostra voglia di creare un gruppo?
Molto semplicemente l’idea di creare un gruppo è partita da Niccolò e Davide durante il periodo pre-Covid. Dopo qualche mese alla ricerca di un batterista, ci contattò Andriy, rispondendo ad un annuncio da noi pubblicato: dopo qualche prova tutti assieme riuscimmo a trovare la sintonia che stavamo cercando.

A quanto mi pare di capire, non avevate un genere di riferimento, anzi sentivate la necessità di spaziare tra le vostre influenze musicali, non proprio omogeneo. E’ stato complicato poi arrivare a un sound che soddisfacesse tutti partendo da punti differenti?
Non volevamo porre barriere ai generi che volevamo esplorare nella composizione, siamo riusciti così a trovare il giusto equilibrio tra le varie influenze musicali di ognuno di noi, ragion per cui arrivare ad un sound che ci soddisfacesse è stato abbastanza spontaneo.   

Qualche mese fa, a settembre, avete rilasciato un demo “Mount Nisa”, vi andrebbe di parlarne?
“Mount Nisa” è il primo pezzo che abbiamo scritto tutti assieme e lo definiamo un “Viaggio strumentale, lungo 17 minuti, di blackened sludge/doom con tinte stoner rock e drone”. Sin dalla sua genesi fino a poco prima di entrare in sala registrazione, è passata attraverso un costante processo di evoluzione e aggiunta di nuovi riff e idee.

Non è cosa di tutti esordire con un pezzo unico di 17 minuti, atto di coraggio o di incoscienza?

Sinceramente non ci siamo posti questa domanda: quando siamo arrivati ad avere la versione definitiva e ci siamo resi conto della sua effettiva lunghezza, abbiamo pensato che comunque essendo molto varia, all’ascolto risultava scorrevole e mai monotona.

Altra cosa che mi ha sorpreso è che definite l’uscita “demo”, cosa ormai andata persa. Sempre più band oggi saltano questo passaggio, che per uno vecchio come me è una palestra fondamentale, per tirar fuori un EP o, addirittura, un full-length. Voi come mai avete optato proprio per un demo?
Essendo la nostra prima registrazione abbiamo pensato che pubblicarla sotto forma di demo fosse la cosa più logica da fare, avendo anche noi una visione legata alla vecchia scuola, se vogliamo definirla così.  

Dionisium va a richiamare il periodo delle grandi dionisie, fase dell’anno della durata di circa sei giorni in cui, nell’antica Grecia, era consentito di tutto. Come avete tentato di trasmettere questa idea di massima libertà con la vostra musica?
L’unica idea iniziale che si aveva era di fare qualcosa che ruotasse attorno al mondo stoner/doom/sludge, ma appena iniziammo a suonare ci rendemmo conto che era e continua ad essere troppo poco per noi, per questo ci siamo dati totale libertà, come le grandi Dionisie.

“Mount Nisa” è il titolo scelto per il demo, anch’esso legato al mito di Dioniso. Nel vostro caso, immagino, abbia un valore simbolico, no?
Sì, ha sicuramente un forte valore simbolico: l’immaginario Monte Nisa per Dioniso è stato il luogo in cui ha passato la prima fase della sua vita. Metaforicamente Il nostro Monte Nisa è proprio l’uscita della demo, che segna la prima parte di vita di questo progetto. Quando iniziammo a parlare riguardo al nome da dare al pezzo Mount Nisa fu quello che ci colpì di più, in quanto fu facile e del tutto naturale creare questa metafora.

Avete già presentato dal vivo il brano nella sua interezza?
Sì, abbiamo avuto modo di esibirci dal vivo diverse volte, ed abbiamo riscontrato pareri molto positivi, che ci hanno fatto capire che siamo riusciti a trasmettere le sensazioni che noi stessi proviamo nel suonarla. Speriamo che piaccia anche a voi!

Eye of The Golem – L’occhio del Golem

Intervista collettiva con gli Eye of The Golem, creatura dedita allo stoner\doom di fresca formazione che da poco ha pubblicato il proprio esordio, “The Cosmic Silence”, come duo, ma che oggi si presenta al nostro pubblico in veste di trio…

Ciao ragazzi, inizierei raccontando come nato il terzetto base degli Eye of The Golem…
Ale: In realtà, la storia è molto semplice: a fine lockdown, circa a giugno 2020, ho trovato un annuncio di Hari che diceva di stare cercando due persone per formare un power-trio stoner. Ho risposto subito, ci siamo trovati una volta e c’è stata subito chimica! In seguito abbiamo provato qualche bassista ma nessuno di loro ci ha mai convinti, quindi ci siamo decisi a registrare l’EP “The Cosmic Silence” come duo. Dopo aver riascoltato qualche centinaio di volte le registrazioni eravamo soddisfatti del risultato ma entrambi eravamo concordi che sarebbe stato utile integrare la formazione con un bassista quindi abbiamo iniziato a spulciare Villaggio Musicale. Ed è così che abbiamo aggiunto Emanuele!

Potendo dare delle percentuali, in quali proporzioni dividereste la componente doom e quella stoner del vostro sound?
Ema: Sicuramente la componente doom è assolutamente presente, ma trovo che la componente stoner sia quella che forse ci accomuni e ci rappresenti di più. Inoltre con gli ultimi lavori stiamo aggiungendo anche una componente sludge, tanto per non far mancare niente! E così, se proprio dovessi dare delle percentuali, direi 60% stoner, 30% doom e 10% sludge.

Come è nato “The Cosmic Silence”?
Ale: L’EP è il frutto di sei mesi di prove e duro lavoro! Il nostro modus operandi è quello di chiuderci in sala, fare lunghe jam che poi registriamo e “sbobiniamo” una volta rientrati a casa. Se qualcuno di noi ha qualche idea specifica allora ci si lavora ma in generale nasce tutto suonando assieme.

Vi andrebbe di fare una breve recensione delle quattro tracce?
Ale: Tutte e quattro le tracce hanno influenze ben distinte tra di loro, per esempio l’intro, “The Golem’s Eye”, nasce più come traccia simil-drone che effettivo stoner/doom, oppure “The Cosmic Silence” e “The Cultist” hanno echi più stoner che doom mentre “Conjuring the Golem” è nata con in mente l’obiettivo di comporre una sorta di marcia funebre. Parlando personalmente, quella di cui sono più soddisfatto è proprio la title track: è il frutto di tanti mesi di lavoro, ed è nata proprio da uno dei riff che io e Hari avevamo inizialmente scartato. Un pomeriggio ci è venuto il lampo di genio e abbiamo iniziato a scriverla!

Al momento “The Cosmic Silence” non è disponibile in formato fisico, è una scelta definita oppure in futuro prevedete di pubblicare un CD?
Hari: Al momento sì, quando abbiamo pubblicato “The Cosmic Silence” lo abbiamo fatto con l’intento di dare un primo “biglietto da visita” ai locali per farci suonare e di promuovere la band attraverso le varie webzine, fortunatamente l’Ep sta avendo buoni riscontri quindi in futuro mai dire mai!

L’Ep è nato quando eravate un duo, oggi che siete un terzetto avete riarrangiato i brani per poterli proporre dal vivo?
Ema: In parte. Abbiamo leggermente riarrangiato qualche cosa (ma davvero minima). Più che altro una cosa sul quale abbiamo molto lavorato è sul suono: vista l’introduzione del basso, era fondamentale amalgamare al meglio i suoni al fine di risultare compatti e monolitici come piace a noi!

Quali sono i vantaggi dell’esser passati dalla forma a duo a trio?
Hari: I vantaggi sono diversi l’ingresso di Emanuele ha reso il nostro sound più organico e compatto inoltre in fase di scrittura il suo contributo è molto importante perché tira fuori sempre idee a cui io e Ale non avevamo minimamente pensato, aver aggiunto un terzo componente si è rivelata una mossa azzeccata per la nostra band!

Avete già composto delle canzoni con la nuova formazione?
Ema: Assolutamente sì, e qualcuna di queste le abbiamo già proposte live! Altre sono in cantiere e arriveranno molto presto.

Le vostre prossime mosse?
Hari: Attualmente stiamo scrivendo i pezzi che andranno a comporre il nostro prossimo disco vista l’impossibilità del momento di poter fare concerti ci stiamo concentrando su quello, e già nel corso di quest’anno puntiamo ad entrare in studio per registrare e poi ovviamente quando ce ne sarà la possibilità cercare di suonare in giro il più possibile per far conoscere la nostra band!

Supervøid – Into the supervøid

I Supervøid sono la nuova creatura formata da tre nomi di spicco del panorama italiano: Eraldo Bernocchi (Sigillum S, Somma, Metallic Taste Of Blood, Obake), Xabier Iriondo (Afterhours) e Jacopo Pierazzuoli (Morkobot, Obake). Qualche giorno fa la Subsound Records ha pubblicato The Giant Nothing, il disco d’esordio del trio, e noi, mossi dalla curiosità di capire cosa spinga dei musicisti impegnati su mille fronti a metter su un nuovo gruppo, abbiamo contatto i disponibili Eraldo Bernocchi e Xabier Iriondo.

Cosa spinge dei musicisti con mille impegni come voi a creare una nuova band?
EB: La passione? La follia? L’irresponsabilità? Onestamente non ne ho la minima idea. Forse la voglia di ricercare nuove strade e confrontarsi con altri in contesti differenti? Ci conosciamo tutti da tempo, nel caso mio e di Xabier da una vita, circa 35 anni, eppure continuiamo a esplorare. Credo sia questa la ragione: l’esplorazione.
XI: Il nostro è un viaggio nel quale l’idea di costruire nuove esperienze la fa da padrone, perché la vita è fatta anche di questo: scoperta e stupore. Non sono gli impegni personali/professionali a gettare acqua su un fuoco che fortunatamente continua a bruciare dentro di noi.

Un domani, quando sarа possibile farlo, vi esibirete dal vivo o l’esperienza Supervøid si svilupperà solo in studio?
EB: Assolutamente sì. Non vediamo l’ora di salire su un palco, anche perché Supervøid ha una parte di improvvisazione che vogliamo assolutamente sviluppare in una situazione live..

I Supervøid sono un gruppo di non facile collocazione stilistica, questa caratteristica nell’attuale mercato discografico è una sorta di passe-partout trasversale oppure può spiazzare l’ascoltatore sempre più ancorato all’etichette stilistiche, in alcuni casi, anche eccessivamente di nicchia?
EB: Bella domanda. In realtà non ci interessa appartenere a nulla, abbiamo faticato non poco per definire ciò che facciamo e il “genere” del disco, e ancora fatichiamo a farlo. Le scene sono delle nicchie utili a chi, giustamente, deve poter definire ciò che fa, o recensire un album. A noi non interessa. Questa volta l’album suona cosi, magari il prossimo potrebbe essere interamente ambient o puro noise. 

Giа che ci siamo, voi come lo descrivereste il vostro sound?
EB: Ecco, appunto. Non lo so. C’è del metal, del blues, dell’ambient. Potrebbe essere la colonna sonora di un vecchio film di Wenders. È un disco duro ma a tratti apertamente emotivo e sognante. Onestamente non so come definirlo se non che potrebbe funzionare bene accompagnato da delle immagini.
XI: Questo è il sound del primo lavoro in studio di Supervøid. Le definizioni le lasciamo agli addetti ai lavori (i giornalisti, gli uffici stampa, i discografici, etc), il nostro compito è di creare liberi, non di dare definizioni e mettere dei paletti.

Siete formalmente un trio, però un contributo non da poco ve lo ha dato Jo Quail: lo possiamo considerare il quarto membro?  
EB: Jo è un talento raro, usa il cello in modo così fuori dagli schemi, che era una tentazione troppo forte averla sul disco. Oltre a ciò,  è una carissima amica, abbiamo suonato live varie volte assieme e registrato un album FM Einheit in trio. Il suo apporto a band come Mono o Amenra è incredibile. Essendo spesso in tour, abbiamo deciso di mantenerla “esterna” alla band nel caso non potesse suonare live con noi e poter usare eventuali sostituti. In realtà, è il quarto membro effettivo.

Perché avete deciso di non avere parti vocali nell’album?
EB: Abbiamo Jo. Lei è “la voce” di Supervøid.

Nonostante l’assenza di parti vocali, i titoli dei brani fanno immaginare che dietro alla vostra opera ci sia comunque una sorta concept, mi sbaglio?
EB:Siamo entrati i studio senza sapere che cosa avremmo fatto, ci legava solo la stima reciproca e la voglia di creare insieme. Mano mano che registravamo e arrangiavamo abbiamo iniziato a formarci un’idea di cosa sarebbe diventato quest’album. Ci piace l’idea che nel momento in cui inizi ad ascoltarlo tu cada in un buco nero senza fine e per un po’ ti possa dimenticare del mondo fuori.

Ho letto sulla pagina ufficiale della vostra etichette che è stata aggiunta una versione in vinile rossa a quelle giа previste, dato che le prevendite dell’album stanno andando bene. La musica fisica ha ancora un senso o comunque un è settore che si regge su sempre meno nostalgici?
EB: La musica fisica ha assolutamente senso nel momento in cui le persone come noi, e le etichette di un certo tipo,  continueranno a renderla possibile. Mia figlia ha 8 anni e si sceglie i CD da ascoltare perché li ha in casa, li vede tutti i giorni. Ha un suo iPod ma ama tirare fuori i CD, guardare le copertine, riordinarli. È un esempio come tanti. E’ solo questione di avere accesso all’oggetto in sé. Certo, se si continua a pensare che la musica sia quell’orrore di Spotify, allora facciamo prima a chiudere “la baracca”. Il vinile è tornato alla grande, le cassette pure. Tornerà anche il CD, ne sono certo.
XI: Ascolto musica prodotta e registrata in tempi recenti su vinili di qualità e allo stesso tempo mi abbandono all’esperienza sonora legata all’ascolto di ceralacche (78 giri) fabbricate 100 anni fa che riproduco su antichi grammofoni a manovella, il fascino dell’oggetto trascende le generazioni o le mode.

Dicevamo delle prevendite che vanno a gonfie vele, considerando che siete una band di nuova fondazione, il pubblico sta in pratica acquistando a scatola chiusa il disco, probabilmente attratto dalla vostra reputazione. In conclusione vi chiedo, come ci si costruisce una nomea solida nel mondo dalla musica, tanto da diventare un marchio di garanzia di qualità? 
EB: Forse continuando a esplorare ed essendo inflessibili con se stessi? È necessario essere critici nei proprio confronti. Passare dalla fase “è tutto valido perché l’ho pensato e registrato” a quella “non sono convinto, nel dubbio cestino tutto” è fondamentale. Fa parte del percorso. Non so se siamo un marchio di qualità o meno, so che facciamo ciò che facciamo perché ci crediamo. Magari è questo che arriva, che non significa che debba piacere a tutti.

Witchwood – L’inverno sta arrivando

Tra i dischi più attesi di questi ultimi mesi del 2020 c’è sicuramente “Before the Winter” (Jolly Roger Records) dei Witchwood. Ne abbiamo approfondito i contenuti con il cantante e chitarrista Ricky Dal Pane.

Benvenuto su Il Raglio del Mulo, Ricky. Il nuovo album si intitola “Before the Winter”, quell’inverno lo dobbiamo intendere in senso metaforico? E sì, a quale inverno ci stiamo approcciando?
Ciao a tutti, è un piacere rispondere alle vostre domande. Assolutamente in senso metaforico. L’inverno a cui fa riferimento il titolo è l’argomento che lega quasi tutti i brani dell’album è una metafora della depressione, come fosse un inverno dell’anima appunto. Uno stato di morte e vuoto apparente per alcuni perché in realtà la vita, sotto la morsa del gelo, continua il suo corso… ma come se fosse sospesa, nascosta a chi non sa più percepirne la bellezza. Ho provato a dare varie chiavi di lettura per questa situazione – così difficile e sottovalutata e interpretata a volte da alcuni solo come un futile capriccio o nulla più – partendo da quello che succede precedentemente e dalle situazioni differenti che possono portare a trovarsi soffocati in questa morsa.

Il disco era già pronto da un po’ ed è stato rimandato per la pandemia, oppure è nato proprio nei funesti giorni del primo lockdown?
Il disco era già pronto prima della pandemia. Tra composizione e produzione, ci ha tenuti impegnati circa due anni, principalmente 2018/19. In accordo con la nostra etichetta, e vista l’impossibilità di supportarlo con un’adeguata promozione causa la difficile situazione, abbiamo deciso di posticiparne l’uscita fino ad oggi. Ora ci ritroviamo praticamente nella stessa situazione ma non potevamo più attendere, anche perché sinceramente volevamo vedere uscire l’album e iniziare a raccogliere tutti i vari feedback. Tenerlo in un cassetto è stata una vera tortura.

Il nuovo chitarrista, Antonino Stella, ha partecipato in maniera attiva alla scrittura del disco?
Bè, definirlo nuovo è un po’ eccessivo, Antonino è entrato nei Witchwood da ormai cinque anni ed ha inciso con noi l’EP “Handful Of Stars”, potremmo definirlo comunque ancora l’ultimo arrivato ah ah. Tornando alla domanda, i brani vengono principalmente scritti da me, spesso sulla chitarra acustica. Poi vengono elaborati ed arrangiati da tutta la band, e qui  l’apporto di ciascuno è fondamentale per definire il risultato finale ed ottenere quello che è a tutti gli effetti il nostro sound.

Come è cambiato, se è cambiato, il bilanciamento dei diversi strumenti rispetto all’esordio. La vostra proposta è arricchita dalle chitarre, dalle tastiere e del flauto, il loro bilanciamento è rimasto immutato nel tempo? Io ho avuto l’impressione, per esempio, di un maggiore spazio lasciato alle tastiere in questo nuovo lavoro.
Sicuramente e volutamente abbiamo cercato di conferire un’aspetto differente e più ricco di sfumature  al nostro sound aggiungendo molte più parti di synth, rhodes ecc. I nostri brani sono ricchi di arrangiamenti, a volte anche decisamente complessi ma cerchiamo comunque di mettere sempre ogni strumento al servizio degli stessi. In questo senso, stavolta abbiamo posto molta più cura cercando di suonare meno prolissi e più efficaci che in passato, non obbligandoci ad inserire forzatamente in ogni canzone un assolo od un determinato strumento, se questo ci sembrava superfluo in quel contesto. Inoltre, abbiamo dato volutamente un respiro diverso al suono delle chitarre cercando di creare suoni dinamici prima che potenti e fini a se stessi.

In passato avete dimostrato una certa versatilità stilistica, tant’è che alcuni parlano di voi come band hard rock, altri come progressive, alcuni folk e vi siete esibiti al Malta Doom Festival. Credete che questa difficile catalogazione del vostro sound sia stata confermata dal nuovo disco?
Sì, sappiamo che definirci chiaramente è un problema per molti ah ah. Quando mi viene fatto notare, io rispondo sempre che è il più bel complimento che si possa fare alla nostra musica. In questi anni ci hanno accostato praticamente a tutto, a volte ci hanno detto che siamo derivativi ma senza poi riuscire chiaramente a definire derivativi da chi. Abbiamo tante influenze, come credo chiunque imbracci uno strumento e come ogni band anche di successo di questo pianeta. Ma abbiamo sempre cercato principalmente di scrivere buone canzoni, fregandocene se suonavano troppo in una maniera o in un’altra o se dovessero rientrare in un sound specifico a tutti i costi. Credo che si dovrebbe dare meno peso alle etichette e più alla qualità e personalità di una proposta. Proseguendo il nostro cammino musicale, poi siamo anche maturati e ci siamo staccati anche da molti dei cliché del genere. E sono fermamente convinto, a costo di sembrare arrogante o presuntuoso, che nel nostro nuovo album di personalità ce ne sia da vendere. Sicuramente, mi sento di poter affermare che non siamo certo i cloni di nessuno e che ascoltando questi brani la nostra personalità emerga decisamente e chiaramente.

Più genericamente siete inseriti nel calderone del retro-rock, fenomeno che in un certo momento pareva pronto ad esplodere grazie al successo di band come Graveyard, Kadavar, Bigelf, Blood Cerimony e Rival Son, giusto per citarne alcune. Oggi quell’onda sembra che sia si arrestata, un bene o un male? Ci perde il movimento, che ritorna nell’underground, oppure può essere un valido filtro per lasciare in evidenza solo le entità migliori?
Credo, e lo avevo già detto spesso in passato, che tutto funzioni inevitabilmente a cicli, specialmente il recupero di certe sonorità. Soprattutto negli ultimi due decenni è tutto un susseguirsi di correnti e generi che tornano regolarmente alla ribalta. Questo sicuramente comporta aspetti positivi e negativi. Tutta l’attenzione avuta negli ultimi anni per, se vogliamo chiamarlo così, il retro rock ha sicuramente puntato i riflettori su formazioni come la nostra che però non suonano certo da poco tempo. Alcuni di noi suonavano insieme già 25 anni fa e dal vivo proponevano cover come “Gipsy” degli Uriah Heep, che suoniamo ancora regolarmente anche coi Witchwood. Questo per dire che l’unica cosa realmente cambiata per noi negli ultimi anni è stato l’interesse verso quello che facciamo, ma questo non ci ha influenzati nelle nostre scelte stilistiche che hanno un’origine che viene da lontano. Sicuramente c’è stato un numero spropositato di band, anche giovani, che si sono lanciate su questo trend saturando il mercato all’inverosimile. Il tempo poi darà ragione a chi veramente avrà avuto qualcosa in più di valido da dire. Comunque, credo anche che tutto questo valga per tutti i generi, negli ultimi anni c’è stato un ritorno massiccio di band che suonano metal classico, thrash, doom ecc. Sinceramente però non capisco perché solo quelle che si rifanno ai 70 vengano viste negativamente perché recuperano sonorità retro o datate. Cos’è, un gruppo che suona come gli Anthrax al giorno d’oggi è per caso moderno o attuale?

C’è possibilità di innovare il rock classico senza snaturarlo?
Più che innovazione, che è una parola un po’ fuori contesto applicata al concetto di classico, c’è evoluzione quando pur suonando cose già fatte in precedenza emerge la personalità della band che in quel momento suona, filtrando il tutto con le sue esperienze, e che crea così un connubio tra passato e presente. Molti oggi ripropongono, a volte anche con bravura, in maniera pedissequa le caratteristiche di certi gruppi… e a molta gente piace. Io preferisco magari ascoltare e percepire da dove arriva il suono di una band e cogliere come loro hanno filtrato queste influenze, cosa che poi succedeva anche nei 70, se pensi a come allora gruppi divenuti leggendari o fondamentali riproponevano quello che avevano ascoltato precedentemente dai loro maestri ma in una chiave diversa e personale.

Quali sono gli elementi di novità che vi contraddistinguono rispetto ai gruppi che vi hanno ispirato?
Questo non so dirtelo, forse può essere percepito meglio dall’esterno. Ma  riallacciandomi al discorso precedente posso provare a risponderti la nostra personalità, che deriva dalle nostre esperienze di vita e con cui filtriamo quello che sentiamo e suoniamo.

Sul disco, nella versione in vinile, è presente anche la cover di “Child Star” di Marc Bolan, quando vi approcciate ai brani altrui cercate di mantenere una certa coerenza con l’originale o tentate di renderlo quando più possibile vostro, anche a costo di trasfigurare il pezzo?
Dipende dal brano con cui ci si confronta. Alcuni si prestano ad essere totalmente rimodellati o stravolti, altri funzionano già benissimo come sono ed è sufficiente aggiungere il proprio tocco e la propria sensibilità nell’interpretarlo. La cover di Bolan era stata realizzata per un doppio tributo Bowie / Bolan. “Child Star” l’abbiamo completamente riarrangiata pur con tutto il rispetto e l’amore che nutriamo per questo grandissimo artista. Di Bowie registrammo “Rock’N’Roll Suicide”, che invece abbiamo mantenuto quasi fedele all’originale. A noi comunque piace ogni tanto suonare e registrare cover… troviamo sia una sfida stimolante.

Una delle altre cover che avete realizzato  in questi anni è quella di “Rainbow Demon” degli Uriah Heep, proprio qualche giorno fa è venuto a mancare un artista immenso, Ken Hensley. Secondo voi con la morte dei grandi si sta chiudendo definitivamente una pagina della storia del rock oppure c’è un filo conduttore, magari nascosto nell’evoluzione sonora, che non porterà mai alla fine di un certo tipo di rock?
In quello che ho detto prima credo di aver già risposto alla domanda. La morte di Ken Hensley è stata una notizia devastante. La sua musica ha avuto un’enorme importanza nella nostra vita, se penso a quante volte ho cantato i suoi brani, a quanto mi hanno accompagnato in tanti momenti fondamentali della mia esistenza. Inutile negare l’enorme debito musicale che abbiamo nei confronti degli Uriah Heep. Di spalla ad Hensley abbiamo poi tenuto il nostro primo concerto a nome Witchwood… si può dire che ci abbia battezzato. Sicuramente con la morte di questi artisti se ne va un mondo e un modo di vivere la musica unico, credo sia veramente la fine di un’epoca. M è anche giusto e naturale che sia così. Fa parte dell’ordine delle cose. La strada ora va tracciata da altri, non dico da noi che ormai non siamo più certo dei ragazzini, e non so sinceramente come e se il rock proseguirà o evolverà, non ho purtroppo la verità in tasca. Ma mi auguro che la scintilla di rivelazione che lo anima da sempre non si spenga mai neanche nelle generazioni future.

Tenebra – L’urlo di Gen terrorizza l’oriente

Italia e Cina, paesi mai come in questi ultimi mesi accomunati da un triste destino e da una caparbia voglia di superare un momento difficile. A rinnovare un connubio, che vede anche celebri predecessori, ci hanno pensato i Tenebra, autori mesi fa di “Gen Nero”, album che nella versione in musicassetta uscirà per un’etichetta, SloomWeep, che ha la propria sede nel Paese asiatico.

Ciao ragazzi, “Gen Nero” è uscito da qualche mese e siete pronti a conquistare la Cina con la sua ristampa in cassetta ad opera della SloomWeep: come ci si sente nei panni di novelli Marco Polo?
Silvia: Molto bene! Grazie ai ganci con il Kublai Khan siamo pronti a dominare il Catai!

Come siete entrati in contatto con l’etichetta asiatica?
Emilio: Magie dei social. A gennaio mi venne in mente di aprire una pagina Instagram della band, perché avevo avuto l’impressione che oramai Facebook non offrisse più molto per i gruppi. Dopo un po’, postando foto e video sono arrivati vari contatti con etichette e podcast esteri.

La cassetta sarà disponibile anche qui in Italia?
Claudio: Sì! Sono già in viaggio dalla Cina! Sarà un’edizione super limitata e immagino che ci vorrà qualche tempo per il loro arrivo in Italia. Sono curioso anche io di vederle “dal vivo”, perché la cassetta ha una copertina diversa dall’LP.

Al di là della ristampa, vi va di fare un primo bilancio sull’accoglienza ricevuta da “Gen Nero”?
Emilio: Sono molto orgoglioso di “Gen Nero”. Ovviamente non per il numero di copie vendute, ma per la ricezione da parte della critica e del pubblico certamente sì. Siamo finiti nelle classifiche di fine anno di Rumore e Blow Up in Italia, Cvlt Nation ha scritto un articolo su di noi quando uscì il video del singolo. Non è affatto male per un disco completamente autoprodotto e registrato in tre giorni! Bisogna anche ringraziare Marco di Metaversus, che ha curato la promozione del disco, per questo.

Quanto vi ha penalizzato il lockdown sia dal punto di vista pratico, concerti saltati, che da quello più squisitamente promozionale?
Emilio: Avevamo fissata qualche data che è ovviamente saltata, purtroppo. Ma direi che tutto sommato quello che “Gen Nero” poteva fare per la band era già esaurito. È stato il dispiacere di non suonare insieme la cosa più dura, primariamente siamo quattro persone che stanno bene insieme, anche se viviamo lontani. Siamo i primi ad essere entusiasti della nostra musica e privarcene è stato duro.

Come si supera questa impasse, scrivendo nuovo materiale?
Mesca: Dunque, fortunatamente a dicembre avevamo finito di registrare i demo per il disco nuovo, durante la quarantena li abbiamo mixati e mandati un po’ in giro. Paradossalmente è stato un periodo fruttuoso: il disco nuovo, che cominceremo a registrare tra qualche giorno e che dovrebbe uscire nel primo trimestre del 2021, godrà della coproduzione di ben tre etichette, tra Europa e Stati Uniti! Tutte trovate mentre eravamo chiusi in casa! Poi, sì, abbiamo scritto qualcosa di nuovo, ma il grosso del materiale era già pronto, anche se non provato, prima della quarantena.

Mi soffermerei su questo punto, avete essenzialmente un background hardcore, qual è stata l’alchimia che vi ha portato a lavorare insieme su sonorità lontane da quelle proposte in precedenza dalle vostre band?
Emilio: rispondo a titolo personalissimo. La scena punk/hardcore che ho vissuto io a Bologna era già, negli anni ’90, un luogo spurio in cui le contaminazioni erano la prassi, a mia memoria di gruppi à la Minor Threat ce n’erano pochissimi e quei pochi si sono evoluti in fretta. Era la bellezza di quegli anni: andavi a un matinée di Atlantide, soprattutto nei primi tempi e ci vedevi un gruppo powerviolence, un gruppo indie e un cantautore folk. Tutti nello stesso posto, tutti che si conoscevano, tutti che si supportavano l’un l’altro. La scena punk/diy dava modo di suonare dal vivo a un sacco di gente, senza la tristezza del “concorso per band emergenti” o dei locali per coverband. Se ti piaceva la musica underground eri sicuramente passato ad Atlantide almeno una volta. Per quel che mi riguarda la musica degli anni ’50/’60/’70, ma anche il “pre war folk”, sono sempre state influenze importanti, semplicemente, dopo l’enorme stop successivo alla fine della mia band precedente, quasi dieci anni, mi è tornata la voglia di suonare e sono voluto tornare alle origini, a quello che mia madre mi faceva ascoltare quando ero bambino. Sono stato fortunato che Mesca e Claudio, anche loro punkettoni impenitenti, condividano l’amore per le sonorità “vecchio stile”. Silvia è stata la grande sorpresa del gruppo: la più giovane, ma anche la più appassionata di underground ’60 e ’70!

Il modo di lavorare in studio invece, al di là delle sonorità differenti proposte, è rimasto immutato oppure c’è stato anche un cambio attitudinale e quindi di approccio al lavoro in studio?
Mesca: No, registreremo il prossimo disco dal vivo come il precedente, siamo tutti convinti che sia il modo migliore per tradurre la nostra musica nelle registrazioni. Niente click, niente trigger, pochissima “studio magic”: what you see is what you get.

Curiosità finale, più che altro retaggio di un passato da chierichetto, ma “Gen Nero” in qualche modo ha che fare con i famigerati Gen Rosso?
Silvia: Certo! “Gen Nero” voleva essere proprio la presa in giro di quel mondo oratoriale anni ’70, fatto di ballatone dal sapore vagamente prog, chitarre acustiche scalcagnate e coristi stonati. Poi suona bene, no?