Dionisium – I discepoli di Dionisio

Un passo alla volta, senza fretta. I Dionisium hanno deciso di non bruciare le tappe e di non partire direttamente con un EP o con un full-length, come capita spesso oggigiorno, ma sono passati da quella palestra che è il demo. Non per mancanza di coraggio, perché il primo parto del gruppo, “Mount Nisa”, è un unico brano della durata della bellezza di 17 minuti e mezzo! Un lento fluire di sonorità doom, stoner, sludge e black metal.

Benvenuti ragazzi, direi di partire con la più classica delle domande da porre a una band di recente creazione: vi andrebbe di presentare i Dionisium ai nostri lettori?
Ciao, innanzitutto grazie mille per lo spazio dedicatoci. Noi Dionisium nasciamo nel giugno del 2020 e siamo un power trio strumentale formato da Niccolò alla chitarra, Davide al basso e Andriy alla batteria. Come genere proponiamo una miscela di doom metal, stoner, sludge e black metal. Dopo otto mesi circa dall’avvio del progetto abbiamo pubblicato la nostra prima demo, “Mount Nisa”, che consiste in un unico brano della durata di 17 minuti e mezzo.

Nascete nel Giugno del 2020, quindi al termine dello stancante e lungo periodo di lockdwon: secondo voi c’è un nesso tra questa esperienza di cattività, seppur momentanea, e la vostra voglia di creare un gruppo?
Molto semplicemente l’idea di creare un gruppo è partita da Niccolò e Davide durante il periodo pre-Covid. Dopo qualche mese alla ricerca di un batterista, ci contattò Andriy, rispondendo ad un annuncio da noi pubblicato: dopo qualche prova tutti assieme riuscimmo a trovare la sintonia che stavamo cercando.

A quanto mi pare di capire, non avevate un genere di riferimento, anzi sentivate la necessità di spaziare tra le vostre influenze musicali, non proprio omogeneo. E’ stato complicato poi arrivare a un sound che soddisfacesse tutti partendo da punti differenti?
Non volevamo porre barriere ai generi che volevamo esplorare nella composizione, siamo riusciti così a trovare il giusto equilibrio tra le varie influenze musicali di ognuno di noi, ragion per cui arrivare ad un sound che ci soddisfacesse è stato abbastanza spontaneo.   

Qualche mese fa, a settembre, avete rilasciato un demo “Mount Nisa”, vi andrebbe di parlarne?
“Mount Nisa” è il primo pezzo che abbiamo scritto tutti assieme e lo definiamo un “Viaggio strumentale, lungo 17 minuti, di blackened sludge/doom con tinte stoner rock e drone”. Sin dalla sua genesi fino a poco prima di entrare in sala registrazione, è passata attraverso un costante processo di evoluzione e aggiunta di nuovi riff e idee.

Non è cosa di tutti esordire con un pezzo unico di 17 minuti, atto di coraggio o di incoscienza?

Sinceramente non ci siamo posti questa domanda: quando siamo arrivati ad avere la versione definitiva e ci siamo resi conto della sua effettiva lunghezza, abbiamo pensato che comunque essendo molto varia, all’ascolto risultava scorrevole e mai monotona.

Altra cosa che mi ha sorpreso è che definite l’uscita “demo”, cosa ormai andata persa. Sempre più band oggi saltano questo passaggio, che per uno vecchio come me è una palestra fondamentale, per tirar fuori un EP o, addirittura, un full-length. Voi come mai avete optato proprio per un demo?
Essendo la nostra prima registrazione abbiamo pensato che pubblicarla sotto forma di demo fosse la cosa più logica da fare, avendo anche noi una visione legata alla vecchia scuola, se vogliamo definirla così.  

Dionisium va a richiamare il periodo delle grandi dionisie, fase dell’anno della durata di circa sei giorni in cui, nell’antica Grecia, era consentito di tutto. Come avete tentato di trasmettere questa idea di massima libertà con la vostra musica?
L’unica idea iniziale che si aveva era di fare qualcosa che ruotasse attorno al mondo stoner/doom/sludge, ma appena iniziammo a suonare ci rendemmo conto che era e continua ad essere troppo poco per noi, per questo ci siamo dati totale libertà, come le grandi Dionisie.

“Mount Nisa” è il titolo scelto per il demo, anch’esso legato al mito di Dioniso. Nel vostro caso, immagino, abbia un valore simbolico, no?
Sì, ha sicuramente un forte valore simbolico: l’immaginario Monte Nisa per Dioniso è stato il luogo in cui ha passato la prima fase della sua vita. Metaforicamente Il nostro Monte Nisa è proprio l’uscita della demo, che segna la prima parte di vita di questo progetto. Quando iniziammo a parlare riguardo al nome da dare al pezzo Mount Nisa fu quello che ci colpì di più, in quanto fu facile e del tutto naturale creare questa metafora.

Avete già presentato dal vivo il brano nella sua interezza?
Sì, abbiamo avuto modo di esibirci dal vivo diverse volte, ed abbiamo riscontrato pareri molto positivi, che ci hanno fatto capire che siamo riusciti a trasmettere le sensazioni che noi stessi proviamo nel suonarla. Speriamo che piaccia anche a voi!

Pavor Nocturnus – Il giardino delle delizie

Dietro il nome d’arte Pavor Nocturnus si cela Eugenio Mazza, folle ideatore del progetto “Bosch”, un connubio di musica e video che trae ispirazione dall’opera del pittore fiammingo. Otto frammenti capaci di trasportarci in un mondo di terrificanti meraviglie. “Bosch”, già disponibile su Youtube, uscirà per Toten Schwan Records e Dio Drone in versione digitale e digi-sleeve edition CD + DVD.

Ciao Eugenio, hai raccontato nelle note promozionali che l’idea di musicare i quadri di Bosch è nata al Prado, quasi per caso. Prima di quelle visite al museo spagnolo, qual era il tuo rapporto con le opere del pittore fiammingo?
Conoscevo l’opera di Bosch in maniera superficiale, il colpo di fulmine è sicuramente scattato dopo aver visto i dipinti dal vivo.

Bosch è un autore che ha sempre avuto un certo appeal sui musicisti, le sue opere sono diventate copertine di dischi di musica classica, rock e metal: come te lo spieghi?
Penso che l’immaginario evocato dalla sua pittura si sposi bene con un certo tipo di musica, soprattutto se caratterizzata da contenuti o concept orrorifici; inoltre le raffigurazioni dell’inferno realizzate da Bosch sono contraddistinte da elementi surreali e allegorici spesso di difficile interpretazione, il che le rende ancora più affascinanti a mio avviso.

Parli di selezione istintiva delle opere, cosa significa? Hai buttato su carta di getto alcuni nomi e poi li hai musicati oppure hai composto la musica ed hai scoperto solo dopo che il tuo inconscio aveva musicato quei determinati quadri?
La scelta dei dipinti è avvenuta cercando di immaginarne la resa musicale, mi sono lasciato guidare dall’istinto in quel senso; scorrendo l’intera opera dell’autore alcuni dipinti hanno catturato la mia attenzione più di altri e si può notare come questi siano tutti accomunati dall’elemento del divino e dell’aldilà. L’unica eccezione è il primo dipinto/brano “Estrazione delle Pietra della Follia” nel quale in un primo momento non si capisce cosa stia succedendo: un uomo dall’espressione stravolta è seduto in un paesaggio bucolico attorniato da altre persone, uno di questi sembra effettuare un intervento chirurgico rimuovendo dei boccioli dalla testa dell’uomo mentre gli altri due osservano. In realtà è in atto un raggiro: lo stolto seduto si è lasciato convincere da un ciarlatano a farsi togliere dalla testa la fantomatica pietra della follia. La mia interpretazione mi ha portato ad aggiunge un livello percettivo differente, ovvero assumendo il punto di vista del personaggio seduto, è come se costui si fosse estraniato da ciò che succede e osservasse dall’esterno la scena e quindi il dipinto.

Ma come si tramutano in musica le immagine? E’ possibile farlo oppure sono le emozioni generate da queste che poi vengono tradotte in suoni?
Per me penso sia stato un mix di entrambi i fattori. Alcune immagini hanno evocato dei suoni nella mia mente, in altri casi è stato il mood generale del dipinto a suggerirmi un certo tipo di sonorità. Essendo i dipinti pieni di dettagli, a volte è stato possibile, attraverso l’utilizzo di field recordings, inserire degli elementi sonori che rimandavano in maniera quasi didascalica ad alcune immagini rappresentate.


Prima di cimentarti nella composizione dei brani hai cercato di entrare in sintonia con il Bosch uomo, per capirne in un certo qual modo il percorso che l’aveva portato a creare quelle scene drammatiche e crude?
Hai cercato di ripercorrere anche tu quella strada per raggiungere lo stesso risultato anche se sfruttando una forma espressiva diversa
?
Prima di iniziare la composizione dei brani c’è stata una fase di studio dell’autore e dei dipinti, mi sono documentato sulla vita di Bosch e sulle sue opere, scoprendo quanto poco si sappia di entrambe. Come accennavo prima, forse proprio questa carenza di informazioni rende il suo lavoro ancora più interessante, dal momento che vi sono molte speculazioni e poche certezze sulla sua pittura. Si è ipotizzato molto sul significato delle immagini e della simbologia utilizzata ma poco è stato decifrato. A ogni modo mi sono lasciato travolgere dalla potenza immaginifica senza cercare di razionalizzare troppo, facendomi guidare principalmente dalle suggestioni e attingendo alle interpretazioni degli esperti quando mi sono trovato in difficoltà a decrittare le immagini.

C’è stato un momento in cui hai pensato questa immagine non potrò mai tramutarla in note?
No, ma alcuni dipinti hanno posto sfide più ardue, soprattutto quelli più densi di dettagli e allusioni.

Lasciamo stare per un attimo gli aspetti artistici, dal punto di vista tecnico come sono nati invece i filmati?
Inizialmente ho scritto delle indicazioni su come il contenuto sonoro fosse correlato alle immagini, fornendo delle indicazioni su quali parti dei dipinti inquadrare a seconda dello svolgimento dei brani e che tipo di sensazione volessi trasmettere. Dopodiché H3ml0ck ha creato i movimenti di camera all’interno dei dipinti, montato i video e applicato filtri ed effetti. Penso abbia svolto un lavoro davvero notevole, sono molto soddisfatto.

Hai scelto di rendere fruibile, gratuitamente per tutti, su Youtube il risultato della tua opera, come mai hai fatto questa scelta così radicale?
Mi interessa che il mio lavoro sia accessibile a chiunque voglia fruirne e, qualora qualcuno volesse supportare il progetto, può acquistare la versione fisica del disco (che include un DVD contenente tutti i video) o il digitale, disponibile sulle pagine Bandcamp di Pavor Nocturnus, Dio Drone e Toten Schwan Records.

Bosch resterà un’esperienza unica o stai già lavorando a qualcosa di nuovo?
Al momento sto lavorando a del materiale nuovo e ad alcune collaborazioni con altri artisti, tutti progetti differenti da “Bosch” che considero portato a compimento, almeno fino a quando non sarà possibile portarlo in giro live.

KHN’SHS – Le frequenze dell’anima

Ospite di Mirella Catena ad Overthewall Stefano Bertoli per parlare di “Close Eyes Visions” (Hellbones Records) il nuovo album dei KHN’SHS.

Benvenuto su Overthewall Stefano! Sei presente nella scena musicale da oltre vent’anni. Ci parli del tuo percorso artistico?
Ho iniziato nella prima metà degli anni 80 come batterista percussionista, l’amore per il free jazz e l’avanguardia prima e la passione per le percussioni etniche, soprattutto asiatiche poi, mi hanno portato a sviluppare una sete di ricerca per sonorità inusuali. Nei primi anni 90, dopo lo scioglimento dei Malà Strana, un combo heavy progressive in cui suonavo la batteria, insieme ad Antonella fondammo gli Iconae, un progetto che fondeva musica sinfonica e folk apocalittico in un modo decisamente inusuale. Calcola che ai tempi per vivere facevo il turnista e in quel periodo feci una ventina di date con gli Ordo Equitum Solis insieme ad Elena Previdi, proprio nel periodo in cui uscì il primo CD dei suoi Camerata Medioanense. Decisamente la dark wave e tutto ciò che ne è limitrofo hanno avuto un forte peso specifico su di me e sulla mia crescita come musicista.

KHN’SHS è il tuo progetto solista fuori da ogni schema. Ci spieghi il significato del moniker?
“Close Eyes Visions” è, invece, il tuo lavoro discografico pubblicato quest’anno e contiene una citazione di Terence Mckenna “uno sciamano non è un pazzo, uno sciamano è un pazzo che ha guarito se stesso”. Ci parli di questo album?

Il moniker ha un’estetica molto dura e diretta, priva di vocali, in realtà per suono e significato (Conscious, che ha preso Coscienza) lascia intendere la volontà di ricerca e sperimentazione del lato più profondo e spirituale della musica. E’ un progetto dedicato al drone, alla musica rituale meditativa, negli anni l’ho arricchito di esperienza spirituale e psichedelia, vedi soprattutto l’ultimo CD: “Closed Eye Visions” (Hellbones Records) che ripercorre gli studi di Terence McKenna, ma senza mai trascendere quello spirito di “immediatezza” che lo ha caratterizzato fin dall’inizio. Il suono è ottenuto esclusivamente da sintetizzatori modulari molto vecchi (un EMS Synth A del ’73, negli ultimi 6sei anni e due dischi) processato da echi a nastro. Nient’altro, puro, diretto e monolitico.

Suoni generati da sintetizzatori, ispirati alla musica rituale meditativa. Come vengono fuori le melodie? Segui uno schema compositivo, se così possiamo chiamarlo?
Tutto parte sempre da un singolo suono, una frequenza che sento dentro di me e che inizio a riprodurre con le mie macchine infernali poi l’evoluzione, costante e ciclica dello stesso attraverso lo spazio tempo con elissi sempre più dilatate, punti di partenza e di incontro che si fondono l’uno nell’altro senza in realtà mai sfiorarsi.

Come ti sei avvicinato alle discipline orientali e come ciò ha cambiato il tuo modo di concepire la musica?
Un’esigenza personale, quella spirituale, nata circa vent’anni fa e cresciuta poi in modo esponenziale, proprio nel periodo in cui KHN’SHS prendeva forma. Inevitabilmente, quando ho stabilizzato i frutti di questa ricerca ho cominciato a sentire l’esigenza di portare la mia esperienza anche all’esterno della mia classica e tradizionale sfera di appartenenza musicale fatta di dischi e concerti. Da questo nascono i bagni armonici, un’evoluzione del classico gong bath di tradizione Tibetana ma anche gli sleep concert e i concerti per meditazione che ho sviluppato in questi anni, eventi di lunga durata rispetto ai concerti tradizionali, dalle tre/quattro ore fino a tutta una notte, dove il “pubblico” perde il ruolo passivo e diventa parte di un rituale collettivo molto più ampio, sempre completamente immerso in suoni acustici ed elettronici.

Come si svolge un tuo live? Te lo chiedo per chi, come me, non ha mai assistito a rappresentazioni di questo tipo. Che rapporto si instaura con il pubblico?
Sono seduto al centro del palco, scalzo, con un sintetizzatore e un’unità eco, nient’altro. Niente fumi e raggi laser niente poser pose o altra scenografia, ci sono io c’è il pubblico e c’è la musica. Quello che avviene è un rituale, una forma di comunione dove ognuno abbandona se stesso e si trova all’interno della musica ed è straordinario. Non per tutti certo, ma solo per chi vuole comprendere e farsi portare all’interno di questo rituale.

Hai fatto diverse tournèe affiancato ad altri importanti artisti. Ci sono stati luoghi in cui ti sei trovato particolarmente a tuo agio?
Con Phurpa ho fatto due tournee in Italia, qualche giorno prima di iniziare la seconda abbiamo registrato “Yugasanti” (Torredei Records), un termine sanscrito che identifica lo “scontro fra due forze di diversa natura”. Live e one take nella nostra splendida Abbazia di San Bernardino.
Allerseelen invece mi chiamò, inizialmente, per registrare una parte di Theremin, nel remix di un suo vecchio brano, “Styx”. L’intesa è stata immediata nonostante abbiamo lavorato esclusivamente via web, tanto che su quel brano finii, prima per incidere anche le percussioni, poi per realizzare anche il video clip promozionale. Da allora ho suonato Taiko e sintetizzatori su altri tre brani e realizzato il video di “Staubdamonen”, che dovrebbe uscire su CD/Tape nel 2021. Avrei dovuto suonare con loro, come percussionista, in un festival in Germania, in Agosto, poi, è successo quello che è successo. Difficile dire cosa bolle in pentola, visto il periodo, posso dirti però che, prima del Covid, c’erano in programma altre collaborazioni ed altri concerti internazionali, soprattutto in Giappone, spero sinceramente di poter riprendere il discorso da dove si era interrotto, appena si sarà posata la cenere

Dove i nostri ascoltatori possono seguirti sul web?
Sono su tutti i social principali:
https://www.facebook.com/stefano.bertoli.666/
https://www.facebook.com/khnshs
https://www.facebook.com/Acusmatica1881

In un mondo sempre più alla deriva e sempre più pieno di incertezze, qual è il messaggio che vorresti arrivasse agli altri attraverso la tua musica?
La risposta siamo noi, sempre. Per tutta la vita ci fanno sentire “inadeguati” in una posizione di costante debolezza: non hai soldi, non hai una laurea, non hai una posizione sociale, non hai una macchina di lusso o dei vestiti costosi e se, per disgrazia, ce l’hai allora chiunque può averla, non sei speciale lo possono fare tutti. Tu non conti, tu sei solo marginale di fronte alla famiglia, allo stato, all’autorità. La grande lezione che ci hanno dato gli psichedelici è che noi siamo al centro dell’universo, l’occhio stesso del ciclone, l’immoto all’interno del caos, un Io senza Ego: la Risposta

Grazie di essere stato con noi
Sempre grazie a te per tutto il supporto. Namastè.

Trascrizione dell’intervista rilasciata a Mirella Catena nel corso della puntata del 28 Dicembre 2020 di Overthewall. Ascolta qui l’audio completo:

Lucynine – Veleno d’amore

Un lavoro fuori dagli schemi, “Amor Venenat”, un disco capace di scaraventare l’ascoltatore nel sfera più intima e dolorosa dep suo autore Lucynine.

Sergio, benvenuto su Il Raglio del  Mulo, “Amor Venenat” è un album criptico, un gioco di scatole cinesi che racchiude probabilmente una parte della tua sfera intima. Da autore preferisci che il marchingegno resti chiuso mantenendo al contempo un certo fascino misterioso e ben protetto il tuo Io più profondo o speri che la scatola venga aperta liberando quella parte di te?
Ciao! E grazie del vostro interesse! “Amor Venenat” è un concept autobiografico, nato in seguito alla perdita di mio marito avvenuta nel 2018, dopo 11 anni di relazione. Non parla solo di quello, ma di tutto il dolore e le difficoltà che hanno compenetrato la mia sfera affettiva e sessuale, da quando ero più giovane, dal rapporto con la mia famiglia (“Family”), fino ad oggi. Quindi il tema è abbastanza esplicito, però in effetti mi piace l’idea che l’ascoltatore, sentendo le varie “tinte” che colorano il disco, leggendo i testi, interpreti e immagini liberamente.

E’ stato doloroso concepire un lavoro di questo tipo?
Ti dirò che in un certo senso è stato liberatorio e terapeutico. L’album nasce dal dolore, dalla rabbia, dalla disillusione, ma mi sento di dire che tutte queste ombre sono state “spurgate” proprio tramite la lavorazione di questo disco. Non saprò mai se è stato solo il passare del tempo (circa un anno e mezzo di lavoro) o se è proprio stato merito di “Amor Venenat”, ma finito tutto mi sono reso conto che stavo molto meglio rispetto a quando iniziai a lavorarci.

La copertina contiene un’immagine forte, chi l’ha ideata e come si riconnette al concetto di “Amor Venenat”?
È tutta opera mia, sono anche fotografo e grafico, cosa che mi aiuta ad esprimermi al massimo, ma anche -confesso- a risparmiare qualche soldo, ahah! Il modello che ho usato per la fotografia di copertina rappresenta il cardine del concept, ovvero il difficile rapporto con una persona molto più avanti di età, agli antipodi rispetto a me per quanto riguarda il percorso naturale della vita. Il cappio simboleggia l’amore (ero molto molto arrabbiato con i sentimenti quando iniziai a lavorare al disco) e la luce rossa che illumina le spalle dell’uomo rimanda sia alla lussuria, sia alle vesti sacerdotali e cardinalizie, visto che la religione, il suo rapporto con la sessualità e con l’omosessualità sono temi molto presenti nelle lyrics.

Giochi con i generi, ottenendo qualcosa di poco inquadrabile: credi che sia un vantaggio o uno svantaggio non poter essere associati a un’etichetta nell’attuale scena musicale?
È un’arma a doppio taglio, un aspetto che mi ha preoccupato fin da subito. C’è l’ascoltatore onnivoro che apprezza la sorpresa, la contaminazione, la scelta di utilizzare una tavolozza di suoni molto ampia per descrivere i vari aspetti del concept. C’è l’ascoltatore più “di settore” che sente il bisogno di un disco che cominci e finisca con lo stesso genere di sonorità. Non ho certo la presunzione di incolpare il pubblico se una mia creazione viene recepita male, ci mancherebbe altro! Ma d’altro canto non avrei saputo fare diversamente, quindi ho deciso di rischiare. Per fortuna mi pare che l’accoglienza sia stata molto buona, in generale. L’ho scampata, ahah!

Qual è il tuo rapporto con i colori? Nella copertina c’è un bel rosso acceso, nel video di “White Roses” domina il grigio, mentre in “Nine Eleven” ci sono “schizzi” variopinti.
Credo sia più deformazione professionale, piuttosto che una scelta ponderata. In effetti per me la componente figurativa è una parte fondamentale di tutto quello che faccio, quindi, anche involontariamente, i colori diventano imprescindibili nella completezza del “dipinto”, sia esso sonoro o di altro genere espressivo.

Rimanendo in tema di colori, tra  le influenze che mi pare di aver intercettato su “Amor Venenat”  c’è quella del Green Man, Peter Steele. Non solo quelle direttamente riconducibili ai suoi Type 0 Negative, ma anche quelle che a sua volta il newyorkese ha subito, mi riferisco a certe melodie beatlesiane e ai Black Sabbath. Queste muse – sempre che io le abbia indovinate – sono consce o inconsce?
Consce, consce! I Beatles per me sono il punto di partenza per assolutamente tutto, tant’è che mi sono divertito anche a citarli in “Nine Eleven” con un frammento preso da “Day Tripper”. Steele fa parte dei miei ascolti più appassionati (e anche a lui ho dedicato un tributo con la cover di “Everyone I Love Is Dead”, che ben si sposava con il concept del disco). Fa parte delle mie influenze lui, come ne fanno parte artisti presi dai generi più disparati, anche molto lontani dal metal.

La tua musica ha anche una componente teatrale che si estrinsecata nel modo più evidente con il ricorso ad alcune voci narranti interpretate da  quattro celebri attori e doppiatori: Grazia Migneco, Gianna Coletti, Claudia Lawrence (terza classificata nell’ultima edizione di Italia’s Got Talent) e Dario Penne (voce italiana di Anthony Hopkins, Michael Caine e molti altri). Come sei entrato in contatto con loro e come hanno reagito alla tua musica?
Il teatro è parte della mia vita: come fotografo, sono per lo più fotografo di scena e curatore di immagine per gli attori. Quindi la scelta sui loro interventi è stata dettata molto dal mio amore viscerale per questo mondo. Dario Penne, in particolare (doppiatore di Anthony Hopkins e tanti altri), è stata la persona che ha letteralmente cambiato la mia vita recitando in “Blocco E, IV Piano”, mio cortometraggio di 4 anni fa, e aprendomi le porte a ciò che oggi mi permette di campare con ciò che amo: enorme privilegio. Ecco perché tengo tanto a queste feat.: Gianna Coletti, Claudia Lawrence, Grazia Migneco e Dario sono grandi amici per cui provo sincero affetto. Oltre poi al fatto che, se c’è qualcosa di importante da dire, preferisco che a farlo siano le voci migliori che io conosca. Sulla loro reazione riguardo alla mia musica, ehm… passerei alla prossima domanda, ahah!

Credi che porterai mai questi brani su un palco?
Al momento non so, ma nessuna porta è chiusa, confesso che mi piacerebbe e che il palco mi manca molto, avendo fatto l’ultimo concerto nel 2013. Chi lo sa?