Il metal classico è vivo e vegeto. Il metal classico italiano, forse, anche di più. Gli Old Bridge hanno tirato fuori un lavoro, “Bless the Hell” (auto-prodotto con distribuzione Black Widow Records), che ha messo d’accordo tutti gli amanti dei suoni più tradizionali. Incuriositi dalla bontà di questo disco, abbiamo contattato la cantante Silvia Agnoloni.
Ciao Silvia, il vostro nome – un chiaro tributo alla città di Firenze – attualmente, se non erro, è al centro di una disputa con alcuni ex membri del gruppo: ti andrebbe di fare chiarezza su questo aspetto e presentare l’attuale line up della band?
Oltre due anni fa, con la fuoriuscita di uno dei membri della band, fu preso il preciso accordo con cui il gruppo composto dagli altri quattro membri, che avrebbe portato avanti il progetto musicale, avrebbe anche, ovviamente, mantenuto il nome originale. Poco dopo, però, questa persona ha riformato una propria band riprendendo lo stesso nome e questo, chiaramente, ha generato in un primo momento un po’ di confusione tra i nostri follower. Non tutti, infatti, sapevano della divisione e quindi risultava difficile attribuire correttamente le varie produzioni musicali realizzate da ciascun gruppo. E’ una situazione che comunque adesso si è abbastanza normalizzata, perché in questi due anni abbiamo fatto percorsi professionali molto diversi, e questo è sempre più evidente, ancor più adesso che siamo in procinto di realizzare il secondo album. In ogni caso, dispute non ce ne sono: il nome non è rivendicabile da nessuno in quanto riferito ad un monumento artistico e quindi di uso comune. Lasciamo che siano i percorsi professionali a fare la differenza. Riguardo l’attuale line up, ci sono alcuni cambiamenti rispetto alla formazione che ha realizzato il disco che annunceremo a breve, adesso che siamo in procinto di riprendere l’attività live. Punti fissi della band restano io, alla voce, e Shinobi, al basso, a cui si è aggiunto Alessandro Berchicci Soave alla chitarra solista e ritmica.
Il vostro sound mi sembra ben bilanciato tra elementi che si rifanno alla NWOBHM e alla scena epic americana. Questa miscela poi viene riletta in chiave italiana. Sei d’accordo con me?
Sinceramente non abbiamo un riferimento preciso a cui rifarci, perché ognuno di noi ha portato nel gruppo la propria lunga esperienza e con essa i propri gusti, che per forza di cose hanno influenzato in modi diversi il nostro sound. Fin da subito abbiamo deciso di non limitare o etichettare il sound del gruppo, ma di seguire quella che è l’ispirazione del momento. Pertanto nel disco si trovano tanti richiami a generi diversi, compresi appunto il NWOBHM e l’epic americano, ma cercando sempre di mantenere una forte impronta italiana, che ci deve essere perché siamo rappresentanti del metal italiano, una realtà che fatica a farsi conoscere, eppure estremamente valida. L’italianità si trova soprattutto nei testi e nelle atmosfere ispirate alla Divina Commedia, nonché nei richiami a gruppi della nostra tradizione come Death SS e Sabotage; l’influenza americana, invece, emerge nella potenza del suono, da cui non si può prescindere: facciamo metal, non pop!
Ammetto che non ho una particolare passione per le voci femminili del metal odierno, preferisco maggiormente quelle più rudi come quella tua, Silvia, che mi ricorda Doro o Leather Leone, dalle quali però ti distingui per delle influenze bluesy che gli altri due nomi da me citati non hanno. Forse la tua ugola è uno degli elementi che maggiormente caratterizzano e rendono unica la vostra proposta. Che ne pensi?
L’accostamento a nomi come Doro e Leather Leone mi rendono particolarmente orgogliosa ed emozionata, trattandosi di due donne simbolo del metal che hanno aperto la strada anche alle altre che poi si sono cimentate in questo genere. Riguardo alla particolarità della timbrica della mia voce, penso che non sia dovuta solo a caratteristiche naturali, ma anche alle mie esperienze musicali che hanno spaziato fra tanti generi differenti, oltre a quello metal, e che ho avuto modo di sperimentare. Ecco il perché della venatura rock blues che persiste e che fortunatamente è diventata un tratto di originalità. Ritengo, però, che la singolarità delle nostre canzoni, prima ancora che dalla peculiarità della mia voce, sia data dai testi: sono testi pensati, ricercati, con un intento ben preciso. In essi racconto le mie riflessioni, le mie inquietudini e tutta la emozionalità propria di ogni essere vivente. Ecco, vorrei che fosse questo il punto di forza della nostra produzione musicale.
Qual è il ruolo della donna oggi nel metal, ambiente storicamente prettamente maschile salvo alcune eccezioni?
Intorno agli anni ’80 è innegabile il predominio della voce maschile nel metal, e il ruolo della donna pareva relegato quasi a quello di groupie; non mi sento di dire che la responsabilità di questo sia da attribuire solo ed esclusivamente agli uomini o alla mentalità che si era sviluppata. Ritengo che le donne stesse per tanto tempo non abbiano avuto il coraggio o non si siano sentite in grado di proporsi al pubblico e così siano rimaste nell’ombra anche per propria scelta. La Musica dovrebbe andare sempre oltre la distinzione di genere; non esiste musica maschile e musica femminile, ma esiste “buona musica” che sia gli uomini che le donne possono realizzare. Personalmente non ho mai avvertito la sensazione di venire accettata con delle riserve in quanto donna, anche se una volta, dopo un concerto, un ragazzo mi avvicinò e nel complimentarsi mi disse “Sei proprio brava, canti come un uomo!” [ridendo]. Ma è innegabile che una discriminazione ci sia stata; col tempo le donne si sono ricavate un loro spazio diventando protagoniste nel metal symphonic o gothic; più recentemente abbiamo assistito ad un’inversione di tendenza per cui troviamo molte donne che si cimentano nel growl, tecnica vocale che rende il risultato canoro quasi indistinguibile fra i generi. A mio parere anche seguire questa tendenza, quasi di massa, è un limite alle reali potenzialità vocali di un’artista, perché se prima la donna era limitata nell’ambito del semi-lirico, lo stesso avviene col growl, senza osare mai nelle tonalità più rock. E mi chiedo, perché no?! Potrei dire loro che è ora di far… sentire la nostra voce!
Altro elemento che mi ha colpito in “Bless the hell” sono le tastiere di Beppi Menozzi. Quale credi che sia stato il suo apporto alla riuscita del vostro disco?
Il grande Beppi Menozzi, tastierista de Il Segno del Comando e degli Jus Primae Noctis, e soprattutto amico, ha dato un contributo importantissimo al nostro disco. In realtà noi siamo nati come gruppo con due chitarre ritmico/soliste e quindi la tastiera diventava un surplus che poteva rischiare di saturare troppo i pezzi. La scelta, invece, si è rivelata vincente, perché lui, con quel suo gusto prog, ha saputo dare un tocco molto originale e quel qualcosa in più ad ogni brano. Pur non trasformandosi in uno strumento fondamentale, la tastiera ha dato un contributo importante alle canzoni donandogli personalità. Col senno di poi, avremmo voluto le tastiere un po’ più alte sul disco, ma abbiamo avuto un po’ paura perché era la prima esperienza in tal senso e non sapevamo prevedere il risultato. Ma il lavoro fatto da Beppi è veramente bello, e infatti porteremo le tastiere nei prossimi live usando le basi perché i pezzi siano più completi. In tante canzoni danno veramente quel sound, quell’atmosfera caratteristica che le chitarre e gli altri strumenti da soli non riescono a creare. D’altronde non è una tastiera qualunque, è la tastiera di Beppi Menozzi!
Parliamo più nel dettaglio di “Bless the Hell”, come e quando è nato?
La storia di “Bless the Hell” è particolarmente travagliata! Basti dire che per registrare il disco sono occorsi due anni, due anni in cui ci sono stati cambiamenti di line up, registrazioni, ri-registrazioni, aggiunte, epurazioni e cambiamenti vari. I pezzi sono nati nell’arco di sei anni e naturalmente quelli che compongono l’album sono solo una parte di tutti i brani realizzati, abbiamo fatto una scelta. Quest’album era già pensato dal 2014, anno in cui uscirono i primi due promo (“Rage in Paradise” e “The Time of Dream”). Le registrazioni del disco sarebbero dovute iniziare di lì a poco, ma per una serie di vicende sono state rimandate molte volte, al punto che sono iniziate alla fine del 2017. Questa “gestazione” così lunga forse ha generato canzoni che ad un primo ascolto possono sembrare scollegate fra loro, ma in realtà hanno uno storytelling comune molto forte, raccontano un percorso ben preciso,ovvero la discesa nel proprio inferno personale: ogni canzone rappresenta uno scalino verso quella discesa, un confronto con sé stessi. Probabilmente “Bless the Hell” è un disco un po’ particolare anche per i tempi di realizzazione così lunghi, così dilatati. Una canzone pensata sei anni prima, sul disco è risultata inevitabilmente diversa da come è nata. Quasi sicuramente se lo registrassimo nuovamente adesso, i pezzi subirebbero altre modifiche, ma è il momento di andare oltre, abbiamo tanta voglia di fare cose nuove ed è a queste che ci stiamo dedicando.
“Angels Could Cry” e “Old Bridge” sono le due canzoni che ho maggiormente apprezzato, ti andrebbe di parlarmene?
“Angels Could Cry” è una canzone molto importante, direi fondamentale per quest’album. Nonostante sia un pezzo che esce abbastanza dagli schemi, sia come sound che come costruzione della struttura, posso constatare che sta ricevendo molti consensi. Come già detto, l’album parla dell’inferno personale di ciascuno e pertanto va a toccare varie sfaccettature della fragilità umana. In particolare, in “Angels Could Cry” si parla della dipendenza che può essere generata da vari fattori, non unicamente alcool o droghe, ma anche da qualcosa di più profondo, più mentale. Ogni forma di dipendenza è sbagliata, ogni forma di dipendenza genera una sofferenza interiore, ogni forma di dipendenza è talmente forte da poter far cadere e piangere chiunque, persino un angelo. Nell’immaginario comune, gli angeli sono quelli che ci disegnano da bambini: figure pure, bianche, intatte e alate, senza catene, superiori a noi. In “Angels Could Cry”,invece, vengono umanizzati e quindi diventano insicuri, corrotti, suscettibili anche loro alle nostre fragilità e di conseguenza sofferenti al punto di arrivare a piangere. Il pianto degli angeli è qualcosa fuori dalla nostra concezione dell’ordinario; colpisce proprio perché questi esseri vengono ritenuti superiori. Ma se anche un angelo può piangere, significa che proprio nessuno è esente dal cadere sotto le debolezze umane. Questo dovremmo ricordarci sempre, non solo per non ritenerci infallibili, ma anche per avere rispetto di chi precipita nell’inferno della dipendenza, di qualsiasi genere essa sia. Dal punto di vista musicale, c’è una particolarità nel ritornello, in cui abbiamo inserito un coro in tonalità baritonale. Ne è venuta fuori un’atmosfera molto sepolcrale, scura, malata anche, che penso sostenga bene l’argomento della canzone. Con “Old Bridge”, invece, si va indietro nel tempo, perché si tratta di un brano storico che qui viene proposto in una veste nuova: tributo a Firenze, al suo Ponte Vecchio e al Sommo Dante, con una delle sue citazioni più famose, pronunciata proprio sulle rive di un altro fiume fondamentale quale l’Acheronte, punto di passaggio fra il mondo dei vivi e gli Inferi. Nella mia visione, il mondo dei vivi e dei morti si fonde e si confonde, e coloro che attraversano il Ponte Vecchio per dirigersi verso gli Inferi non sono tanto i turisti che da tutto il mondo vengono ad ammirare il monumento; anzi, la bellezza di quest’opera serve da contrasto con lo squallore della vita dei più poveri, dei diseredati, dei derelitti, di coloro che vorremmo non vedere, che cerchiamo di ignorare. Sono loro che camminano su quel ponte dirigendosi verso il proprio inferno: vivi già morti per molti, come sigilla la frase finale “Noi stiamo morendo nella realtà”.
Il vostro nome non è l’unico tributo alla città di Firenze, il disco è un concept ispirato all’opera di Dante Alighieri. Già altre band in passato hanno trattato l’argomento. In cosa si distingue la vostra disamina del suo Inferno rispetto a quella degli altri?
Essendo tutti fiorentini e amanti del periodo che sta a cavallo fra il Medioevo e il Rinascimento, non potevamo essere indifferenti ad un’opera come la Divina Commedia ed in particolar modo alla sua prima parte, quella che parla dell’Inferno, che è sicuramente quella più forte, quella più intensa. Dante compie un viaggio attraverso l’Inferno che lo porta a confrontarsi con tutte le debolezze umane, e durante il suo percorso viene travolto da un carico di emozioni e reazioni altrettanto umane: paura, pietà, misericordia, compassione, ma anche sdegno e rabbia. Nel ‘300 il suo genio ha concepito e realizzato un’opera grandiosa ed anche coraggiosa, tant’è che gli è costata l’esilio. Per noi è un onore poterci ispirare a lui e mettere in alcuni momenti del disco chiari richiami che consistono non solo nelle parole riportate dalla Divina Commedia, ma anche cercando di ricreare ambientazioni simili. La copertina stessa del disco (opera di Paolo Puppo dei Will’O’Wisp), vede Dante in procinto di attraversare il portone degli Inferi da cui emergono demoni contorti. I suoi demoni. La differenza dagli altri gruppi che hanno tratto ispirazione dall’opera dantesca forse è proprio questa: il fatto che noi non ci fermiamo all’aspetto esplicito dell’Inferno, a Satana, alla dannazione. A noi quello che interessa è la parte umana del Sommo Poeta e il viaggio che compie dentro di sé. E’ in questo Dante così umano che ci riconosciamo. Chiunque ascolti “Bless the Hell” è spinto a compiere lo stesso viaggio: entrare nel proprio inferno così come ha fatto lui, che si è addentrato nelle proprie debolezze, vi si è trovato faccia a faccia, le ha affrontate, ha cercato una soluzione ed è andato avanti in qualche modo “a riveder le stelle”. Un’opera di riscatto fondamentale che ci porta, infine, a benedire quell’inferno che ci ha resi quel che siamo adesso. Alla luce di tutto questo, penso che la nostra visione dell’Inferno dantesco ne esca più positiva, più costruttiva, meno limitata all’aspetto prettamente coreografico.
A livello tematico la vostra toscanità ha influenzato l’opera, ma credi che questo si esplichi in qualche modo anche nel vostro sound?
A livello di sound, in realtà, c’è stata una certa ricerca di quelle che potevano essere alcune sonorità e alcune strutture ritmiche del Medioevo e del Rinascimento. Ci sono dei punti in cui questa cosa si fa più evidente. La chiusura e anche l’inizio di “Bless the Hell” ne sono un esempio. Nell’intro di “Old Bridge”, una chitarra dal suono pulito quasi “liutistico” che si intreccia con una celesta, e quella marcetta che chiude la canzone, rimandano fortemente a quelle sonorità proprie di una Firenze a cavallo fra il Medioevo e il Rinascimento. In futuro probabilmente, oseremo di più attingendo nuovamente alle nostre radici. Guardando invece la realtà musicale toscana più recente, è chiaro che nel nostro sound si è trasferito anche tutto ciò che ci hanno insegnato i grandi gruppi con cui siamo cresciuti, fra cui i già citati Death SS e Sabotage, senza dimenticare la Strana Officina o i Dark Quarterer e tutti coloro a cui dobbiamo riconoscere il merito di aver aperto una strada non solo al metal toscano, ma a quello nazionale.
E’ tutto, a te la chiusura.
Fra le tante vicende avverse che ci sono capitate abbiamo avuto anche quella del Covid: il disco è uscito l’11 Gennaio del 2020 e di lì a poco c’è stata la chiusura di tutto. Quindi, con tanti concerti per l’Italia per promuovere l’album, con la collaborazione con la Black Widow appena avviata, siamo stati costretti a fermarci; anche se non del tutto, perché intanto abbiamo lavorato sui pezzi nuovi. Nonostante sia mancata tutta questa possibilità di presentare live il disco, fortunatamente sta andando abbastanza bene, ma ci manca il palco. A me particolarmente manca la possibilità di “raccontare” le mie storie, a tal punto che questa è diventata quasi una sofferenza fisica. Adesso sembra che ci sia il modo di ripartire con i concerti dal vivo e abbiamo già qualche data. Spero che la gente abbia ancora voglia di scoprirci, di ascoltarci e di apprezzare il nostro lavoro. Come già detto, nel frattempo stiamo lavorando all’album nuovo e sono molto contenta dei presupposti. Anche questo sarà un concept album, di cui non anticipo nulla per non rovinare la sorpresa, ma sarà qualcosa che seguirà con una nuova tematica, sempre profonda, sempre riguardante il proprio percorso interiore, le linee del primo “Bless the Hell”. Concludo con un invito rivolto a tutti ad ascoltare il metal italiano, che ha tanto da dire. Ci sono tante belle realtà da valorizzare, non limitatevi ai gruppi stranieri. Anche noi in Italia sappiamo fare Musica, sappiamo fare Metal. E lo sappiamo fare bene.
