Puoi aspettare per una vita l’esordio della tua band, e quando arriva, non pensi agli anni difficili che ti sei messo alle spalle, ma ti godi il presente e programmi il futuro e delle scorie del passato non resta quasi più traccia. Qualcosa del genere è capitato ai Kryuhm di Daniele “Ozzy” Laurenti, nati più meno venticinque anni fa e giunti solo lo scorso al debutto con “Only In My Mind” (Black Widow Records).
Ciao Daniele, da poco è fuori l’esordio dei tuoi Kryuhm, “Only In My Mind”, però la band esiste da quasi un quarto di secolo. Come mai ci avete messo così tanto a pubblicare la vostra opera prima? La storia dei Kryuhm si potrebbe definire una sorta di “sfida” alle problematiche di vita. Chi ha dei sogni, spesso li mette nel cassetto per mille motivi: quando ero ancora giovane dovetti abbandonare le passioni musicali per turni di lavoro esasperati, bambini da far crescere, mutui da pagare..Raramente riuscivo a trovare le energie, il tempo e la costanza per dedicarmi al progetto. Aggiungo che spesso la storia delle band va avanti solo trovando la giusta alchimia tra i musicisti, se non arriva ci si imbatte nell’ennesimo stop… e nei Kryuhm è successo più volte.
Appunto, un anno importante della vostra storia è sicuramente il 2004, contraddistinto dall’uscita di Sinico e il conseguente stop di un lustro. L’attività poi viene ripresa nel 2009 e interrotta nuovamente, almeno sino al 2021. In questo lasso di tempo si sono avvicendati diversi membri e immagino che anche tu come persona sia cambiato rispetto alla fine dei 90, quando hai creato la band. Quanto dell’idea originale dei Kryuhm c’è ancora in questa edizione del 2022 e cosa invece è cambiato in meglio o in peggio secondo te? Bella domanda! Partiamo dalla storia: dopo uno sforzo economico per autoprodurre il nostro primo demo tape, abbiamo cercato di compattare la band a suon di concerti e serate ma le vie per arrivare al pubblico negli anni 90 erano molto più difficili di oggi con internet ed i social. Si poteva solo mandare il demo a case discografiche e le due-tre riviste del settore. Sinico ad un certo punto lascia la band ed arriva il primo scoramento, io e Brusaferro ripartiamo nel 2009 ma anche lì per problemi di lavoro Berton lascia. Il cambiamento vero e proprio è arrivato quando io ho variato modo di vedere le cose, prendendo in mano la band e cercando di sistemare tutto in maniera seria e professionale In quel periodo lascia anche l’ultimo dei fondatori per visioni diverse sul progetto. Ho messo su una nuova band cercando obiettivi da raggiungere senza pensare ad altro. Dell’idea originale è rimasto il “sogno”, è cambiato totalmente invece il modo di lavorare, la mentalità ed il metodo, che è sicuramente più positivo ed appagante.
Al di là delle influenze storiche, c’è una band più recente che ti ha ispirato o dato degli spunti per “Only In My Mind”? Ne ho molte in realtà. Anche se sono legato al sound del classico heavy metal, ascolto molto e di molti generi, dal progressive rock italiano degli anni 70 al dark sound made in Italy. Una band che mi affascina particolarmente sono i The Magik Way dell’amico Flavio Porrati, così come Il Segno Del Comando di Diego Bnchero. Ma potrei citarne moltissime, da Mater At Clivis Imperat di Samael Von Martin ad Incantvum di Vittorio Sabelli. Le seguo tutte e tutte danno lustro all’underground italiano.
Cosa c’è “solo nella tua mente”? Nella mia mente c’è solo la “voglia” di recuperare il tempo perso, portare la nostra musica agli appassionati, tributare i miei musicisti preferiti e dare spazio a nuove collaborazioni con tanti artisti “amici”, che stimo e con cui condivido storie, idee e progetti… Credo molto nelle collaborazioni.
Effettivamente, nel disco appaiono in veste di ospiti Federico Dalla Benetta (Riul Doamei, Nero The Fall Of Rome) e John Goldfinch: come sono nate queste collaborazioni? Con John ci eravamo sentiti negli anni passati, c’era la voglia di fare qualcosa assieme ed alla fine ci siamo riusciti! Federico lo conosco bene, per anni l’ho visto nei live club di Verona, mi ha impressionato il lavoro fatto con i Nero The Fall Of Rome e da lì la voglia di contattarlo per questa collaborazione.
I pezzi finiti nell’album sono il frutto delle diverse epoche della band oppure sono tutti recenti? Ci sono tre pezzi del 2001, due del 2009 e tre del 2022. Ho voluto proprio inserire le varie epoche e formazioni dei Kryuhm per rendere, comunque, a chi ne ha fatto parte. Anche se, ovviamente, tutto l’album è stato registrato dalla formazione attuale.
Leggendo la tracklist, salta subito all’occhio l’unico titolo in italiano “Danze macabre tra i fuochi”. Questo pezzo rappresenta un esperimento che potrebbe portare a nuovi sviluppi per i prossimi album oppure si tratta di un pezzo isolato che non apre in modo definitivo all’uso dell’italiano nella vostra produzione? Non è un’episodio isolato, anzi, posso anticipare che i Kryuhm faranno più pezzi in italiano e non solo: in un pezzo useremo anche delle frasi in lingua francese, oltre all’inglese ovviamente.
I brani come sono stati accolti dal vivo? La dimensione live credo proprio che sia uno dei punti di “forza” dei Kryuhm, abbiamo una notevole intesa sul palco ed un groove non indifferente. Infatti i nostri concerti sono accolti molto positivamente dal pubblico. Vorrei citare quello tenuto a Genova recentemente dove abbiamo condiviso il palco con Blue Down e Vanexa. Siamo stati accolti con una vera e propria “magia”, il pubblico ci ha supportato da sotto il palco per tutto il tempo in maniera eccezionale!
In conclusione, apriamo una finestra sul futuro: c’è un pezzo di “Only In My Mind” che potrebbe rappresentare la base di partenza per il prossimo disco? Per certi versi direi “Danze Macabre Tra I Fuochi”, ma non abbandoneremo le atmosfere di “In The Nightmare” o “The Evolution…
Italiani popolo di santi, poeti e navigatori… ma non solo. Se c’è un qualcosa che sappiamo fare meglio degli altri, anzi direi meglio di tutti, è quel sound che unisce magistralmente progressive rock e sonorità oscure. Lo abbiamo fatto in passato con Jacula, Goblin, Devid Doll, lo facciamo ancora, senza paura di confronti con i nomi citati, con Il Segno del Comando, L’Impero delle Ombre e i più recenti Mater A Clivis Imperat. Capeggiata da Samael von Martin (Evol\Death Dies), questa misteriosa orchestra ha tirato fuori una delle cose più belle del 2022, quel “Atrox Locus” (Black Widow Records) che ha attirato da subito le attenzioni degli amanti di certe sonorità…
Benvenuto Samael, i Mater A Clivis Imperat, pur essendo nati non molti anni fa, hanno alle spalle una storia iniziata molto prima, quasi che una forza misteriosa, attraverso vari progetti, ti abbia poi portato a comporre “Atrox Locus”. Ti va di ripercorre le tappe principali di questa epopea? I Mater a Clivis Imperat si formano grazie alla mia passione per la musica progressive italiana anni 70 di band quali Goblin, Jacula, Biglietto per L’Inferno e dei compositori Ennio Morricone e Fabio Frizzi. I Mater a Clivis Imperat sentono anche una forte influenza dei loro conterranei veneti Devil Doll, dei quali sono grandi estimatori. Il concetto dell’opera è stata abbozzata più di 10 anni fa, nel lontano 2008, ma poi accantonata a causa degli impegni con le band che tra incisioni e concerti, mi hanno lasciato poco tempo per la lavorazione conclusiva. Proprio mentre sostituivo temporaneamente il chitarrista dei Deusdiva, una hard rock band padovana, nel 2011, vengo a contatto con la cantante Isabella che decide di prestare la voce per portare a termine il progetto, che si intitolerà “Atrox Locus”. In origine ispirata a temi dell’orrore ma nel corso degli anni, sviluppata in maniera esoterica. Nel periodo di marzo – aprile 2020 ho lavorato a capofitto per terminare le composizioni e per farlo mi sono avvalso, oltre che della voce di Isabella, anche della Soprano Elisa Di Marte, dell’organista Milanese Alessio Saglia e di una sua collega Natalia Brankovic al pianoforte, con la quale lavora in ambiente sanitario. Dopo l’estate 2020, con tutto il materiale musicale mi recato agli Giane Studio di Padova per registrare la voce principale, i canti gregoriani e per mixare. Le musiche assumono un connotato sempre più occulto, nonostante le composizioni non siano per forza sempre oscure, rivelando un qualcosa di macabro, costantemente. Le influenze musicali oltre a provenire dall’ambito italiano, sono frutto della passione per la musica dei Black Sabbath, dei Coven, dei Black Widow e molti altri. Le liriche trattano di antichi racconti popolari detti anche “Racconti del filò” e narrano di leggende e superstizioni ancorate nelle magiche terre dei colli Euganei il tutto visto attraverso gli occhi della band.
Ti andrebbe di presentare, in maniera più approfondita, la formazione che ha inciso il disco? Il disco è stato da me composto, pensato e mi sono occupato delle parti di chitarra, basso alcune tastiere e vari effetti, Hanno collaborato alla sua realizzazione Tomas Contarato, Isabella, Natalija Brankovic e Alessio Saglia. Tomas è un batterista preparato versatile nei vari generi musicali. Isabella, oltre ad essere una cantante strepitosa, ha una sensualità nel parlato che fa venire i brividi. E’ stata la cantante dei Deusdiva e dei Kolossal. Natalija Brankovic si è occupata del pianoforte ed è un personaggio particolarmente oscuro e stravagante. Alessio un ottimo tastierista, attualmente suona con Maurizio Vandelli. Come special guest si è occupata del cantato lirico Elisa Di Marte, noto soprano delle mia terre e molto dotata.
E’ pure vero che tu sei la mente principale, ma quale contributo hanno dato i diversi membri alla composizione dell’opera? Inutile dire che anche involontariamente, ognuno dei membri ha contribuito alla realizzazione del lavoro mettendoci del proprio. In “Atrox Locus” ho richiesto le esecuzioni o scritto le partiture in maniera dettagliata ma nel prossimo lavoro ho lasciato loro un maggior campo di espressione tanto da aver fatto crescere ed arricchire l’opera che vedrà la luce il 31 ottobre 2023. Il lavoro di Alessio è notevole come lo sarà per il nuovo chitarrista piemontese che ha collaborato al disco. Tutto è al proprio posto e il nuovo lavoro vedrà la presenza di ospiti famosi nel campo del progressive italiano.
Possiamo considerare “Atrox Locus” un canonico concept album oppure si tratta di brani a se stanti ma legati da un filo comune? “Atrox Locus” è entrambe le cose: ovvero un concept album ma non in modo convenzionale. Quindi, come dici tu, si parla di brani a se stanti ma legati da un filo conduttore. Le liriche narrano delle leggende popolari dei colli Euganei viste attraverso gli occhi di tre streghe (allegorie della natura) mentre di collina in collina viaggiano attraverso ville storiche in rovina fino ad approdare al monastero del monte Venda per adorare l’oscura Madre che domina dalle colline, il tutto tra leggende e folklore padovano. Per quest’opera mi sono ispirato si alle fole esoteriche delle mie campagne ma anche ai racconti del filò che si svolgevano nelle stalle fino ai primi anni 80, periodo nel quale mi trasferii dalla città alla periferia.
Musicalmente avevi già un’idea del disco? Sapevi che avrebbe giocato con le influenze di Jacula, Requiem, Goblin e dei maestri della tradizione cinematografica italiana? Musicalmente come ho detto prima, il progetto nasce nel 2008 e naturalmente le influenze sono sempre le stesse che mi accompagnano dai tempi degli Evol… Diciamo che con questi ultimi masticavo pane, Celtic Frost e Goblin, mentre per quanto riguarda i Mater a Clivis Imperat ho dato sfogo alla mia passione musicale che tanto amo ovvero il progressivo italiano horror anni 70. Sono cresciuto con colonne sonore come “Profondo rosso”, “L’uccello dalle piume di cristallo”, “Quattro mosche di velluto grigio” dal quale ho assimilato lo stile di batteria oltre ad ispirarmi al lavoro di Agostino Marangolo, “L’aldilà” di Fabio Frizzi”, di non poca importanza “Lucifer’s rising” di Bobby Beausoleil, senza tralasciare tutta l’opera di Antonio Bartoccetti. Il mio lavoro è abbastanza contaminato dalle influenze degli artisti appena nominati anche se in verità ho creato un sound piuttosto personale che verrà sviluppato maggiormente nel prossimo lavoro. Per quanto riguarda i registi che hanno ispirato almeno in parte “Atrox Locus” posso citare senza ombra di dubbio Dario Argento, Lucio Fulci, Alberto De Martino, Sergio Martino e molti altri…
I Mater A Clivis Imperat appaino molto distanti da quanto fatto da te con alcune tue band procedenti (Evol e Death Dies), ma secondo te c’è qualcosa che accomuna questa creatura alle altre ben più estreme? No non direi… Qualcuno ancora accomuna i Mater con gli Evol ma nulla di più sbagliato. Se l’opera l’avessi stampata con un altro nome invece che Samael Von Martin, nessuno avrebbe accostato le due band. I Mater a Clivis Imperat sono totalmente distanti dal mondo metal o black metal, non c’entrano in nessun modo. Se devo trovare per forza una similitudine che non sia nel prog italiano, li vedrei più simili ai Nox Arcana, nonostante la differenza di stile o di strumenti musicali. Non so se mi spiego. Se invece intendi la passione per l’occulto, l’esoterismo nonché le tradizioni popolari e folcloristiche posso dire che, essendo un mio interesse costante, tutti i miei progetti sono accomunati da questo. Ma musicalmente non ci troverai nessuna somiglianza, ho stravolto il mio stile musicale e abbandonato certi gusti per l’estremo nel realizzare “Atrox Locus”.
Credo che un approfondimento lo meriti anche la stupenda copertina… Avevo bisogno di dare un vestito al progetto. Non ho voluto puerili inneggi a varie divinità o espliciti riguardi nei confronti di chissà chi, ho solo sempre avuto stima per i lavori di Enzo Sciotti con il quale sono cresciuto (da amante dei film in generale, horror o meno…) fin da piccolo e mi sono chiesto: chissà se risponderà alle mie mail o se sarà interessato alla cosa… Per me è uno dei migliori illustratori di sempre, tanto che all’inizio lo ricordo anche come l’esecutore di alcune copertine magnifiche dei fumetti horror erotici anni 70. L’opera che Enzo ha creato per noi si discosta dal solito pandemonio di immagini, “Atrox Locus” sembra la locandina di una colonna sonora di un film mai realizzato. Ed è quello che è, come opera nella sua interezza. Enzo ha ascoltato attentamente le mie spiegazioni e con il suo magico colpo di Maestro, ha riassunto tutte le mie visioni in maniera semplice ed esaustiva. Mi è dispiaciuto moltissimo per la sua dipartita, era una cara persona abile e umile come pochi. Ricordo ancora un sacco le lunghe conversazioni sul mondo del cinema e sulla musica attuale. Il suo strumento preferito era il violino così ho scelto di rappresentarlo assieme all’ idea del Maestro come metafora e per quanto riguarda le tre streghe, come accennato prima, sono allegorie delle terre venete.
Porterete dal vivo il disco? Ho già avuto richieste per la cosa ma per ora non ci penso minimamente. Sto lavorando al seguito di “Atrox Locus” e pure ad una piccola operetta che verrà inclusa nella versione limitata, ho appena realizzato il video clip del singolo, edito per Black Window Records, “Chori Tragici”, Quindi il tempo non è abbastanza per fare questo passo. Non nego che in futuro qualcosa possa accadere, ma per il momento preferisco concentrarmi sul lavoro in studio.
In chiusura, come dobbiamo considerare i Mater A Clivis Imperat un progetto estemporanea oppure una vera e propria band che pubblicherà album con una certa costanza? I Mater A Clivsi Imperat sono un’orchestra a tutti gli effetti, e mi darò da fare per realizzare e mettere in musica le visioni che mi ossessionano quanto possibile. Oltre ad “Atrox Locus” esiste un sette pollici picture inedito ed estremamente limitato, oltre al nuovo lavoro che è già praticamente pronto e vedrà la collaborazione di Elisa Montaldo, Flavio “Nequam” Porrati, Domenico Lotito, Simon Ferètro oltre che alla formazione citata in precedenza. Il lavoro sarà molto più personale, anche se influenzato dai maestri di cui ho parlato. La copertina verrà affidata ad un altro famoso illustratore italiano. Detto questo, vi ringrazio, per acquistare il disco scrivete a blackwidow@blackwidow.it.
Su Overthewall, ospiti di Mirella Catena, gli ZoneM autori di “Sono Dentro Di Me” (Nadir Music \ Black Widow Records).
Benvenuti su Overthewall! Beppi, ci parli dell’idea iniziale di ZoneM? Ciao Mirella! Grazie delle domande. L’idea è nata riflettendo sulle tecniche sonore e rumoristiche, spesso usate nelle colonne sonore, in grado di stimolare alcune emozioni ed in particolare la paura. Se il nostro subconscio riconosce alcuni suoni naturali specifici, che un tempo potevano rappresentare un pericolo, scatena un’allarme che non ha modo di essere fermato razionalmente. La stessa cosa succede in presenza di dissonanze, rumori inattesi, elementi che ci allontanano dalla comfort zone che ci aspettiamo. Allora mi sono chiesto: dato che la musica è il veicolo per eccellenza delle emozioni, perché non iniziare un progetto sperimentale col puro obiettivo di generare ansia irrazionalmente, nascondendo elementi ansiogeni nella musica? Per farlo, ho coinvolto molti amici musicisti con cui già collaboro o che semplicemente ascolto e che hanno partecipato con fare entusiastico.
Silvia, “Sono dentro me. Musiche per un film mai girato” si avvale della partecipazione di artisti di spicco del panorama underground. Silvia, cantante e vocal coach, hai condiviso con Beppi la gestazione dell’album. Com’è nata questa collaborazione ? Beppi è il mio compagno e ho partecipato con entusiasmo a questo progetto, che mi ha consentito di immergermi in atmosfere e stili diversi dal pop e dal blues che mi sono familiari. Lui ha sempre voluto realizzare un progetto collaborativo, e gli altri artisti che hanno partecipato, tutti con grande passione, provengono dalle band Il Segno del Comando (Diego Banchero, Davide Bruzzi, Fernando Cherchi, Roberto Lucanato e Riccardo Morello) e Jus Primae Noctis (Pietro Balbi, Alessandro Bezante, Marco Fehmer e Mario Riggio), con cui Beppi suona, oltre ai bravissimi Mauro Isetti, compositore di colonne sonore, Renzo Luise, interprete di jazz gitano, Paolo Puppo, dei Will’O’Wisp e autore anche della grafica del disco. Aggiungiamo a tutti questi Pietro, Rita e Graziella, figli e madre di Beppi e il giovane Tommaso Maestri. Da non dimenticare però Tommy Talamanca, il grande chitarrista/tastierista dei Sadist, che ha curato tutti i suoni dando un’impronta importante al disco.
Ci spiegate il significato del moniker? Perchè ZoneM? La M potrebbe essere la Malattia, un Mostro, la Morte, un Mistero. E’ proprio il fatto di essere indeterminato a renderlo spaventoso. Ciò che è sconosciuto, infatti, è ciò che ci fa paura. In che zona stiamo realmente entrando? Dipende da noi. Nella realtà, però, ZoneM nasce come parte del mio cognome, scritto all’incontrario.
“Sono Dentro Di Me ” è un album oserei dire inquietante, atmosfere opprimenti e angosciose, da thriller. Quanto la pandemia è servita da elemento d’inspirazione? La pandemia, ed oggi la guerra, ci hanno fatto conoscere nella realtà cosa significa avere paura. Questo doveva essere un gioco, un esperimento tecnico e psicologico, avrei preferito mantenere la paura su CD, francamente. Il brano che dà titolo al disco, “Sono Dentro Di Me”, inizialmente si riferiva proprio al virus. La contrapposizione con il brano iniziale, però, “Nessuna Uscita” fa acquisire un significato diverso e che io preferisco, perché più generale e meno legato ai tristi eventi della realtà: mi trovo imprigionato in una “gabbia di paure”, da cui potrò uscire capendo che le paure sono “dentro di me”.
ZoneM resterà un progetto legato alla particolare condizione di questi due anni o avrà un seguito? Il Segno del Comando e Jus Primae Noctis sono entrambi prossimi a terminare i propri nuovi dischi, a cui collaboro e che terranno fermo ZoneM per un pochino. Ma ZoneM ritornerà certamente, probabilmente parlando di un’altra emozione. Questa volta però sarà meglio concentrarsi si una emozione positiva!
Il metal classico è vivo e vegeto. Il metal classico italiano, forse, anche di più. Gli Old Bridge hanno tirato fuori un lavoro, “Bless the Hell” (auto-prodotto con distribuzione Black Widow Records), che ha messo d’accordo tutti gli amanti dei suoni più tradizionali. Incuriositi dalla bontà di questo disco, abbiamo contattato la cantante Silvia Agnoloni.
Ciao Silvia, il vostro nome – un chiaro tributo alla città di Firenze – attualmente, se non erro, è al centro di una disputa con alcuni ex membri del gruppo: ti andrebbe di fare chiarezza su questo aspetto e presentare l’attuale line up della band? Oltre due anni fa, con la fuoriuscita di uno dei membri della band, fu preso il preciso accordo con cui il gruppo composto dagli altri quattro membri, che avrebbe portato avanti il progetto musicale, avrebbe anche, ovviamente, mantenuto il nome originale. Poco dopo, però, questa persona ha riformato una propria band riprendendo lo stesso nome e questo, chiaramente, ha generato in un primo momento un po’ di confusione tra i nostri follower. Non tutti, infatti, sapevano della divisione e quindi risultava difficile attribuire correttamente le varie produzioni musicali realizzate da ciascun gruppo. E’ una situazione che comunque adesso si è abbastanza normalizzata, perché in questi due anni abbiamo fatto percorsi professionali molto diversi, e questo è sempre più evidente, ancor più adesso che siamo in procinto di realizzare il secondo album. In ogni caso, dispute non ce ne sono: il nome non è rivendicabile da nessuno in quanto riferito ad un monumento artistico e quindi di uso comune. Lasciamo che siano i percorsi professionali a fare la differenza. Riguardo l’attuale line up, ci sono alcuni cambiamenti rispetto alla formazione che ha realizzato il disco che annunceremo a breve, adesso che siamo in procinto di riprendere l’attività live. Punti fissi della band restano io, alla voce, e Shinobi, al basso, a cui si è aggiunto Alessandro Berchicci Soave alla chitarra solista e ritmica.
Il vostro sound mi sembra ben bilanciato tra elementi che si rifanno alla NWOBHM e alla scena epic americana. Questa miscela poi viene riletta in chiave italiana. Sei d’accordo con me? Sinceramente non abbiamo un riferimento preciso a cui rifarci, perché ognuno di noi ha portato nel gruppo la propria lunga esperienza e con essa i propri gusti, che per forza di cose hanno influenzato in modi diversi il nostro sound. Fin da subito abbiamo deciso di non limitare o etichettare il sound del gruppo, ma di seguire quella che è l’ispirazione del momento. Pertanto nel disco si trovano tanti richiami a generi diversi, compresi appunto il NWOBHM e l’epic americano, ma cercando sempre di mantenere una forte impronta italiana, che ci deve essere perché siamo rappresentanti del metal italiano, una realtà che fatica a farsi conoscere, eppure estremamente valida. L’italianità si trova soprattutto nei testi e nelle atmosfere ispirate alla Divina Commedia, nonché nei richiami a gruppi della nostra tradizione come Death SS e Sabotage; l’influenza americana, invece, emerge nella potenza del suono, da cui non si può prescindere: facciamo metal, non pop!
Ammetto che non ho una particolare passione per le voci femminili del metal odierno, preferisco maggiormente quelle più rudi come quella tua, Silvia, che mi ricorda Doro o Leather Leone, dalle quali però ti distingui per delle influenze bluesy che gli altri due nomi da me citati non hanno. Forse la tua ugola è uno degli elementi che maggiormente caratterizzano e rendono unica la vostra proposta. Che ne pensi? L’accostamento a nomi come Doro e Leather Leone mi rendono particolarmente orgogliosa ed emozionata, trattandosi di due donne simbolo del metal che hanno aperto la strada anche alle altre che poi si sono cimentate in questo genere. Riguardo alla particolarità della timbrica della mia voce, penso che non sia dovuta solo a caratteristiche naturali, ma anche alle mie esperienze musicali che hanno spaziato fra tanti generi differenti, oltre a quello metal, e che ho avuto modo di sperimentare. Ecco il perché della venatura rock blues che persiste e che fortunatamente è diventata un tratto di originalità. Ritengo, però, che la singolarità delle nostre canzoni, prima ancora che dalla peculiarità della mia voce, sia data dai testi: sono testi pensati, ricercati, con un intento ben preciso. In essi racconto le mie riflessioni, le mie inquietudini e tutta la emozionalità propria di ogni essere vivente. Ecco, vorrei che fosse questo il punto di forza della nostra produzione musicale.
Qual è il ruolo della donna oggi nel metal, ambiente storicamente prettamente maschile salvo alcune eccezioni? Intorno agli anni ’80 è innegabile il predominio della voce maschile nel metal, e il ruolo della donna pareva relegato quasi a quello di groupie; non mi sento di dire che la responsabilità di questo sia da attribuire solo ed esclusivamente agli uomini o alla mentalità che si era sviluppata. Ritengo che le donne stesse per tanto tempo non abbiano avuto il coraggio o non si siano sentite in grado di proporsi al pubblico e così siano rimaste nell’ombra anche per propria scelta. La Musica dovrebbe andare sempre oltre la distinzione di genere; non esiste musica maschile e musica femminile, ma esiste “buona musica” che sia gli uomini che le donne possono realizzare. Personalmente non ho mai avvertito la sensazione di venire accettata con delle riserve in quanto donna, anche se una volta, dopo un concerto, un ragazzo mi avvicinò e nel complimentarsi mi disse “Sei proprio brava, canti come un uomo!” [ridendo]. Ma è innegabile che una discriminazione ci sia stata; col tempo le donne si sono ricavate un loro spazio diventando protagoniste nel metal symphonic o gothic; più recentemente abbiamo assistito ad un’inversione di tendenza per cui troviamo molte donne che si cimentano nel growl, tecnica vocale che rende il risultato canoro quasi indistinguibile fra i generi. A mio parere anche seguire questa tendenza, quasi di massa, è un limite alle reali potenzialità vocali di un’artista, perché se prima la donna era limitata nell’ambito del semi-lirico, lo stesso avviene col growl, senza osare mai nelle tonalità più rock. E mi chiedo, perché no?! Potrei dire loro che è ora di far… sentire la nostra voce!
Altro elemento che mi ha colpito in “Bless the hell” sono le tastiere di Beppi Menozzi. Quale credi che sia stato il suo apporto alla riuscita del vostro disco? Il grande Beppi Menozzi, tastierista de Il Segno del Comando e degli Jus Primae Noctis, e soprattutto amico, ha dato un contributo importantissimo al nostro disco. In realtà noi siamo nati come gruppo con due chitarre ritmico/soliste e quindi la tastiera diventava un surplus che poteva rischiare di saturare troppo i pezzi. La scelta, invece, si è rivelata vincente, perché lui, con quel suo gusto prog, ha saputo dare un tocco molto originale e quel qualcosa in più ad ogni brano. Pur non trasformandosi in uno strumento fondamentale, la tastiera ha dato un contributo importante alle canzoni donandogli personalità. Col senno di poi, avremmo voluto le tastiere un po’ più alte sul disco, ma abbiamo avuto un po’ paura perché era la prima esperienza in tal senso e non sapevamo prevedere il risultato. Ma il lavoro fatto da Beppi è veramente bello, e infatti porteremo le tastiere nei prossimi live usando le basi perché i pezzi siano più completi. In tante canzoni danno veramente quel sound, quell’atmosfera caratteristica che le chitarre e gli altri strumenti da soli non riescono a creare. D’altronde non è una tastiera qualunque, è la tastiera di Beppi Menozzi!
Parliamo più nel dettaglio di “Bless the Hell”, come e quando è nato? La storia di “Bless the Hell” è particolarmente travagliata! Basti dire che per registrare il disco sono occorsi due anni, due anni in cui ci sono stati cambiamenti di line up, registrazioni, ri-registrazioni, aggiunte, epurazioni e cambiamenti vari. I pezzi sono nati nell’arco di sei anni e naturalmente quelli che compongono l’album sono solo una parte di tutti i brani realizzati, abbiamo fatto una scelta. Quest’album era già pensato dal 2014, anno in cui uscirono i primi due promo (“Rage in Paradise” e “The Time of Dream”).Le registrazioni del disco sarebbero dovute iniziare di lì a poco, ma per una serie di vicende sono state rimandate molte volte, al punto che sono iniziate alla fine del 2017. Questa “gestazione” così lunga forse ha generato canzoni che ad un primo ascolto possono sembrare scollegate fra loro, ma in realtà hanno uno storytelling comune molto forte, raccontano un percorso ben preciso,ovvero la discesa nel proprio inferno personale: ogni canzone rappresenta uno scalino verso quella discesa, un confronto con sé stessi. Probabilmente “Bless the Hell” è un disco un po’ particolare anche per i tempi di realizzazione così lunghi, così dilatati. Una canzone pensata sei anni prima, sul disco è risultata inevitabilmente diversa da come è nata. Quasi sicuramente se lo registrassimo nuovamente adesso, i pezzi subirebbero altre modifiche, ma è il momento di andare oltre, abbiamo tanta voglia di fare cose nuove ed è a queste che ci stiamo dedicando.
“Angels Could Cry” e “Old Bridge” sono le due canzoni che ho maggiormente apprezzato, ti andrebbe di parlarmene? “Angels Could Cry” è una canzone molto importante, direi fondamentale per quest’album. Nonostante sia un pezzo che esce abbastanza dagli schemi, sia come sound che come costruzione della struttura, posso constatare che sta ricevendo molti consensi. Come già detto, l’album parla dell’inferno personale di ciascuno e pertanto va a toccare varie sfaccettature della fragilità umana. In particolare, in “Angels Could Cry” si parla della dipendenza che può essere generata da vari fattori, non unicamente alcool o droghe, ma anche da qualcosa di più profondo, più mentale. Ogni forma di dipendenza è sbagliata, ogni forma di dipendenza genera una sofferenza interiore, ogni forma di dipendenza è talmente forte da poter far cadere e piangere chiunque, persino un angelo. Nell’immaginario comune, gli angeli sono quelli che ci disegnano da bambini: figure pure, bianche, intatte e alate, senza catene, superiori a noi. In “Angels Could Cry”,invece, vengono umanizzati e quindi diventano insicuri, corrotti, suscettibili anche loro alle nostre fragilità e di conseguenza sofferenti al punto di arrivare a piangere. Il pianto degli angeli è qualcosa fuori dalla nostra concezione dell’ordinario; colpisce proprio perché questi esseri vengono ritenuti superiori. Ma se anche un angelo può piangere, significa che proprio nessuno è esente dal cadere sotto le debolezze umane. Questo dovremmo ricordarci sempre, non solo per non ritenerci infallibili, ma anche per avere rispetto di chi precipita nell’inferno della dipendenza, di qualsiasi genere essa sia. Dal punto di vista musicale, c’è una particolarità nel ritornello, in cui abbiamo inserito un coro in tonalità baritonale. Ne è venuta fuori un’atmosfera molto sepolcrale, scura, malata anche, che penso sostenga bene l’argomento della canzone. Con “Old Bridge”, invece, si va indietro nel tempo, perché si tratta di un brano storico che qui viene proposto in una veste nuova: tributo a Firenze, al suo Ponte Vecchio e al Sommo Dante, con una delle sue citazioni più famose, pronunciata proprio sulle rive di un altro fiume fondamentale quale l’Acheronte, punto di passaggio fra il mondo dei vivi e gli Inferi. Nella mia visione, il mondo dei vivi e dei morti si fonde e si confonde, e coloro che attraversano il Ponte Vecchio per dirigersi verso gli Inferi non sono tanto i turisti che da tutto il mondo vengono ad ammirare il monumento; anzi, la bellezza di quest’opera serve da contrasto con lo squallore della vita dei più poveri, dei diseredati, dei derelitti, di coloro che vorremmo non vedere, che cerchiamo di ignorare. Sono loro che camminano su quel ponte dirigendosi verso il proprio inferno: vivi già morti per molti, come sigilla la frase finale “Noi stiamo morendo nella realtà”.
Il vostro nome non è l’unico tributo alla città di Firenze, il disco è un concept ispirato all’opera di Dante Alighieri. Già altre band in passato hanno trattato l’argomento. In cosa si distingue la vostra disamina del suo Inferno rispetto a quella degli altri? Essendo tutti fiorentini e amanti del periodo che sta a cavallo fra il Medioevo e il Rinascimento, non potevamo essere indifferenti ad un’opera come la Divina Commedia ed in particolar modo alla sua prima parte, quella che parla dell’Inferno, che è sicuramente quella più forte, quella più intensa. Dante compie un viaggio attraverso l’Inferno che lo porta a confrontarsi con tutte le debolezze umane, e durante il suo percorso viene travolto da un carico di emozioni e reazioni altrettanto umane: paura, pietà, misericordia, compassione, ma anche sdegno e rabbia. Nel ‘300 il suo genio ha concepito e realizzato un’opera grandiosa ed anche coraggiosa, tant’è che gli è costata l’esilio. Per noi è un onore poterci ispirare a lui e mettere in alcuni momenti del disco chiari richiami che consistono non solo nelle parole riportate dalla Divina Commedia, ma anche cercando di ricreare ambientazioni simili. La copertina stessa del disco (opera di Paolo Puppo dei Will’O’Wisp), vede Dante in procinto di attraversare il portone degli Inferi da cui emergono demoni contorti. I suoi demoni. La differenza dagli altri gruppi che hanno tratto ispirazione dall’opera dantesca forse è proprio questa: il fatto che noi non ci fermiamo all’aspetto esplicito dell’Inferno, a Satana, alla dannazione. A noi quello che interessa è la parte umana del Sommo Poeta e il viaggio che compie dentro di sé. E’ in questo Dante così umano che ci riconosciamo. Chiunque ascolti “Bless the Hell” è spinto a compiere lo stesso viaggio: entrare nel proprio inferno così come ha fatto lui, che si è addentrato nelle proprie debolezze, vi si è trovato faccia a faccia, le ha affrontate, ha cercato una soluzione ed è andato avanti in qualche modo “a riveder le stelle”. Un’opera di riscatto fondamentale che ci porta, infine, a benedire quell’inferno che ci ha resi quel che siamo adesso. Alla luce di tutto questo, penso che la nostra visione dell’Inferno dantesco ne esca più positiva, più costruttiva, meno limitata all’aspetto prettamente coreografico.
A livello tematico la vostra toscanità ha influenzato l’opera, ma credi che questo si esplichi in qualche modo anche nel vostro sound? A livello di sound, in realtà, c’è stata una certa ricerca di quelle che potevano essere alcune sonorità e alcune strutture ritmiche del Medioevo e del Rinascimento. Ci sono dei punti in cui questa cosa si fa più evidente. La chiusura e anche l’inizio di “Bless the Hell”ne sono un esempio. Nell’intro di “Old Bridge”, una chitarra dal suono pulito quasi “liutistico” che si intreccia con una celesta, e quella marcetta che chiude la canzone, rimandano fortemente a quelle sonorità proprie di una Firenze a cavallo fra il Medioevo e il Rinascimento. In futuro probabilmente, oseremo di più attingendo nuovamente alle nostre radici. Guardando invece la realtà musicale toscana più recente, è chiaro che nel nostro sound si è trasferito anche tutto ciò che ci hanno insegnato i grandi gruppi con cui siamo cresciuti, fra cui i già citati Death SS e Sabotage, senza dimenticare la Strana Officina o i Dark Quarterer e tutti coloro a cui dobbiamo riconoscere il merito di aver aperto una strada non solo al metal toscano, ma a quello nazionale.
E’ tutto, a te la chiusura. Fra le tante vicende avverse che ci sono capitate abbiamo avuto anche quella del Covid: il disco è uscito l’11 Gennaio del 2020 e di lì a poco c’è stata la chiusura di tutto. Quindi, con tanti concerti per l’Italia per promuovere l’album, con la collaborazione con la Black Widow appena avviata, siamo stati costretti a fermarci; anche se non del tutto, perché intanto abbiamo lavorato sui pezzi nuovi. Nonostante sia mancata tutta questa possibilità di presentare live il disco, fortunatamente sta andando abbastanza bene, ma ci manca il palco. A me particolarmente manca la possibilità di “raccontare” le mie storie, a tal punto che questa è diventata quasi una sofferenza fisica. Adesso sembra che ci sia il modo di ripartire con i concerti dal vivo e abbiamo già qualche data. Spero che la gente abbia ancora voglia di scoprirci, di ascoltarci e di apprezzare il nostro lavoro. Come già detto, nel frattempo stiamo lavorando all’album nuovo e sono molto contenta dei presupposti. Anche questo sarà un concept album, di cui non anticipo nulla per non rovinare la sorpresa, ma sarà qualcosa che seguirà con una nuova tematica, sempre profonda, sempre riguardante il proprio percorso interiore, le linee del primo “Bless the Hell”. Concludo con un invito rivolto a tutti ad ascoltare il metal italiano, che ha tanto da dire. Ci sono tante belle realtà da valorizzare, non limitatevi ai gruppi stranieri. Anche noi in Italia sappiamo fare Musica, sappiamo fare Metal. E lo sappiamo fare bene.
I salentini Muffx hanno tirato fuori dal cilindro un disco tanto difficile da catalogare quanto affascinante. “L’Ora Di Tutti”, che trae ispirazione dal romanzo omonimo di Maria Corti, è un disco che attraverso le sole note musicali riesce nell’impresa di narrare vicende avvenute circa cinquecento anni fa e che, mai come oggi, appaiono attuali. Per approfondire i contenuti di quello che è una delle migliori uscite del 2017, abbiamo contattato Luigi Bruno, voce e chitarra dei Muffx.
Benvenuti su Metal Hammer Italia, “L’Ora Di Tutti” è fuori da qualche giorno. Sin dall’aspetto visivo si presenta come un album oscuro, cosa che poi viene confermata anche dalle quattro tracce: come mai questo cambio di registro? Lieti di essere qui! In realtà molto solari non lo siamo stati mai, ma diciamo che in questo album abbiamo dato più ampio respiro alla nostra componente ‘noir’ probabilmente tenuta più celata nei precedenti lavori, a dire il vero poi, il tema trattato non lasciava spazio a sonorità molto allegre…
Per motivi prettamente editoriali, nella mia recensione ho dovuto dare un’etichetta a quanto contenuto nel disco, e ho scelto “progressive”. Voi come definireste la vostra musica attuale? Pur non appartenendo a un movimento musicale ben definito per quanto concerne l’approccio avuto in questo lavoro, il genere al quale potremmo essere associati (solo per comodità e necessità dei fruitori e degli addetti ai lavori) potrebbe essere il progressive come giustamente hai notato tu, ma anche l’art rock psichedelico, se non altro per via del fatto che abbiamo scelto pochi colori più mirati all’efficacia di quello che volevamo trasmettere e meno tecnicismi forse più propri del progressive in senso stretto. Di fatto ci siamo sempre e solo preoccupati di produrre buona musica e ci auguriamo di essere bravi in questo.
Il disco è un concept ispirato a “L’Ora Di Tutti” , libro di Maria Corti, il quale narra l’invasione Turca nel 1480 a Otranto. Cosa vi ha spinto a fare questa scelta così particolare? E come si inserisce questa opera nell’attuale contesto ricco di scontri, non solo militari ma anche culturali, tra Occidente e Oriente? Per cominciare veniamo tutti e quattro dal Salento, pertanto ripercorrere ‘scene’ e ‘momenti’ che hanno segnato profondamente la nostra terra e tradurli in musica è stato molto interessante dal punto di vista artistico ma non solo. In secondo luogo il romanzo della Corti che tratta le vicende da te citate è una lettura che da ragazzi, ma non soltanto, quasi tutti i salentini hanno affrontato in qualche modo rimanendone affascinati e legati; omaggiare in un certo senso quest’opera volendo trattare appunto l’invasione turca ci è sembrato doveroso, nonostante siamo andati oltre il romanzo come nel brano Bernabei. Non è un caso, in effetti, che il disco sia venuto alla luce in questo preciso momento storico, nonostante abbia suoni provenienti dagli anni settanta e ispirato da vicende accadute più di cinquecento anni fa. Ancora oggi come ieri – e come l’altro ieri, a dire il vero – i grandi drammi che attanagliano Oriente e Occidente sono lì, sempre attuali e sempre in agguato, si chiamano in maniera diversa forse, ma scavando a fondo la sostanza è comune a tutte le epoche.
Altro elemento caratterizzante del disco è l’assenza di parte vocali. Nel giro di tre album siete passati dall’inglese all’italiano, per approdare alla forma strumentale: a cosa è dovuto questo costante cambiamento? Siamo sempre stati legati più alle atmosfere e alla musicalità che ai testi, ci siamo sempre preoccupati di come far suonare al meglio la nostra musica, lasciando che fosse la melodia a suggerire le parole consone alle suggestioni del momento, indipendentemente dalla lingua. Per “L’Ora di Tutti” il discorso è stato diverso, abbiamo ragionato in termini cinematografici. È stato come viaggiare nel tempo per scrivere e realizzare la colonna sonora di un film, mai uscito, tratto da un romanzo, con mezzi che si potevano avere a disposizione negli anni settanta, suonandolo live senza ulteriori accorgimenti postumi. A parte qualche citazione qua e là del poeta N. Hikmet – recitate rigorosamente in turco da un turco – ci siamo resi conto che il materiale non aveva bisogno di testi, proprio come una vera e propria colonna sonora, abbiamo lasciato che la musica evocasse immagini senza voler condizionare l’ascoltatore. Penso che questo sia il futuro dei Muffx, è una dimensione nella quale ci siamo trovati molto a nostro agio e ripetere l’esperienza su altri fronti non ci dispiacerebbe affatto.
Vi andrebbe di fare una disamina dell’album traccia per traccia? L’album si apre con “Un’Alba Come Tante” e sin da subito il crescendo dinamico della composizione vuole simulare il risveglio di un piccolo paese che non sa ancora quello che la aspetta e si prepara ad affrontare una semplice giornata lavorativa come le altre…dall’altra parte c’è chi si prepara sulle navi ad attraccare con finalità diverse. La seconda traccia è il preludio dell’azione da parte dei conquistatori, “Vengono Dal Mare”, il brano è più ansiogeno, come una marcia militare che esplode in cavalcate ritmiche più violente e in fughe pseudo jazzistiche. “Ottocento” è la sonorizzazione della scena in cui gli ottocento martiri rinchiusi nella cattedrale (ancora esistente con i loro teschi esposti in una teca) attendono il loro destino: potrebbero convertirsi all’Islam e scamparla ma invece sono lì, probabilmente a farsi mille domande senza risposta ma senza cedere di un centimetro sulla loro fede e le loro convinzioni che inesorabilmente li porteranno all’eccidio di massa che tutti conosciamo. “Bernabei” chiude il disco, musicalmente è il brano più orientaleggiante, ispirato dalla storia di un soldato turco convertitosi al Cristianesimo durante la strage e per questo torturato e giustiziato dal suo stesso popolo come monito, episodio storico non contenuto nell’opera della Corti e che rievoca molti fatti di cronaca noti alla gente del nostro tempo, suggerendo un parallelismo tra passato e presente.
Degli ospiti che mi dite? A parte un piccolo arrangiamento di fiati che abbiamo voluto scrivere per dare vigore e una sensazione più orchestrale in “Un’alba come tante” e la voce narrante di Ismail Gorkien in alcuni punti di “Vengono dal mare” e “Bernabei”, a differenza dei lavori precedenti abbiamo scelto di limitarci nelle ospitate, non volevamo discostarci troppo dal sapore minimal del lavoro e soprattutto non volevamo allontanarci da quello che avverrà nei concerti. Per quanto riguarda i concerti appunto abbiamo avuto il piacere di ospitare personalità storiche della musica internazionale come Richard Sinclair (Caravan, Soft Machine, Camel), Aldo Tagliapietra (ex Le Orme) e Claudio Simonetti. Con quest’ultimo intendiamo già battezzare il nuovo album nei prossimi live e proprio in questi giorni stiamo organizzando la cosa con il maestro.
Torniamo all’aspetto visivo dell’album, sicuramente particolare la copertina, chi è l’autore? L’illustratore che ha collaborato con noi è Massimo Pasca, anche lui salentino. Volevamo che a lavorare sul disco in tutte le sue sfaccettature fossero persone che in qualche modo avessero una relazione e un legame con le tematiche trattate. In più lo stile personale del Pasca si addiceva particolarmente al contenuto dell’opera e il risultato è stato più che soddisfacente. La copertina del Vinile e del Cd apparentemente identiche nascondono invece dei particolari rilevanti che l’autore si è divertito a nascondere, non saremo certo noi a svelarli rispettando la sua volontà ma credo sia un ulteriore elemento che caratterizza l’unicità e la particolarità dell’opera.
Aspetto visivo che avrà rilevanza anche in sede live, a quanto pare sarete accompagnati da un video designer. Come funzionerà la cosa? Giuseppe Beps Donadei (visual designer) ha iniziato a lavorare a questo progetto sin dalle prime note dell’album, abbiamo costruito insieme lo show che porteremo in giro per l’Italia ispirandoci ai Light show degli anni d’oro dell’Art rock ma con i mezzi tecnologici del nostro tempo. Durante il live Donadei realizzerà dei visual live painting direttamente su di noi, in tema con le atmosfere e le tematiche ma vertendo più sulla psichedelia senza essere troppo didascalici. Di fatto noi non prendiamo posizioni ma ci siamo limitati a osservare i due punti di vista, quello dell’ occidente e quello dell’oriente, senza spalleggiare nessuno ed è questo che vogliamo emerga dai nostri concerti.
Prima di concludere, ti chiedo se il progetto ‘Nocturno’ è del tutto tramontato o ci sono possibilità che in futuro possa essere portato a termine. A questa domanda è molto difficile rispondere. Di getto diremmo che si, lo riprenderemo magari modificando alcuni connotati più vicini ai Muffx di oggi, ma non sappiamo dirti se sarà il prossimo lavoro che vedrà la luce o lo lasceremo ancora per un po’ da parte. Quel disco per noi è legato ad una persona molto cara, Pierpaolo Cazzolla, che ora non è più qui, da una parte vorremmo omaggiare la sua memoria con l’uscita dell’opera dall’altra questo significherebbe dover processare un dolore che forse ancora non siamo riusciti a digerire, accettare o superare del tutto se mai si possa superare. Per ora possiamo solo augurarci ‘cose’ senza promettere o annunciare nulla di certo.
Il “Volto Verde” è un grande album. Anzi un grandissimo album. Tornanti a sorpresa sul mercato, Il Segno Del Comando hanno piazzato il terzo colpo vincente della propria carriera, ormai legata inesorabilmente alle sorti dell’eminenza grigia del progetto: Diego Banchero.
Ciao Diego, innanzi tutto complimenti per il nuovo il “Volto Verde”. Quando hai capito che era arrivato il momento di dare un successore a “Der Golem”? Il periodo di inattività successivo all’uscita di “Der Golem” è stato molto lungo, ma negli anni non si è mai smesso di discutere relativamente alla possibilità di uscire con un nuovo album. Fin da subito si erano ipotizzate nuove relise ed era anche stato svolto del lavoro (almeno sulle musiche e le parti grafico-pittoriche) seguendo l’ispirazione delle opere letterarie individuate per eventuali concept e studiate approfonditamente. Tuttavia, a poco a poco, ognuno dei vecchi componenti intraprese nuove strade artistiche o smise semplicemente di dedicarsi alla musica in maniera continuativa. Gli amici della Black Widow Records, che hanno spesso cercato di riportarci in studio dimostrando sempre un grande attaccamento al progetto, hanno insistito molto negli anni perché ne prendessi in mano da solo le sorti; visto che l’ipotesi di una reunion del nucleo compositivo storico si era dimostrata inattuabile. Mi ci è voluto un po’ di tempo per elaborare questa idea. I dubbi sono stati molti, ma poi ha prevalso l’amore per Il Segno del Comando e ho deciso di ripartire. A quel punto io e Massimo Gasperini abbiamo iniziato a contattare molti musicisti svolgendo un lavoro certosino per formare una nuova line up. Nel frattempo, ho iniziato a scrivere i brani e tutto è venuto molto più spontaneo del previsto. Ci siamo comunque presi tutto il tempo necessario per sperimentare con calma e provare più soluzioni. Per dare un riferimento temporale che risponda alla tua domanda, direi che la decisione di ripartire sia stata presa nel 2009.
Ancora una volta hai scelto una novella di Gustav Meyrink, già autore del Golem per costruire il concept su cui verte l’album. Cosa ha di tanto particolare questo scrittore? Ciò che ha stimolato e che tiene vivo il mio interesse per i suoi scritti da molto tempo è da ricercarsi principalmente in un aspetto: l’attualità. E’ infatti straordinario per me notare come le sue analisi abbiano resistito al passare del tempo. Queste, come del resto le sue critiche sociali, restano valide anche per i giorni attuali e, le sue soluzioni, se comprese, risultano addirittura innovative ed efficaci per la nostra epoca (in cui si assiste al fallimento più o meno generalizzato di tutte le ricette prodotte per salvare il genere umano dal proprio declino). Anzi, il comprendere la sua opera, può addirittura aiutare ad individuare gravi pericoli che si annidano nelle concezioni metafisiche che hanno accompagnato l’umanità nei millenni e che sono tuttora imperanti o quantomeno molto influenti. Le sue concezioni possono essere di aiuto all’uomo nel tentativo di liberarsi dalle schiavitù mentali che lo rendono impotente evitandogli di attivare le proprie risorse creative interiori. Nei suoi scritti, sono presenti critiche al pensiero borghese, a visioni politiche e attitudini sociali pericolose e anche a determinate dottrine religiose ed esoteriche che spingono verso l’abisso. Le sue opere evidenziano una tendenza alla ricerca che ha lo scopo di portare ad una profonda conoscenza di sé stessi; come prerequisito fondamentale per avvicinare l’individuo ad una condizione di illuminazione (o risveglio). Chi non riesce o non vuole compiere questo percorso di crescita rischia di restare a far parte della massa formata da coloro che vivono in una condizione molto simile a quella del sonno. Meyrink ha attirato l’interesse di molti illustri pensatori del ‘900 proprio grazie alla profondità del suo pensiero e questo è dovuto al fatto che egli fosse un precursore di idee e visioni all’avanguardia.
Il vostro nome trae origine da un noto sceneggiato trasmesso dalla Rai nei primi anni 70. Il romanzo omonimo è opera di Giuseppe D’Agata, quali credi che siano i punti di contatto tra l’autore italiano e quello austriaco? Il filo rosso che ci ha spinto ad occuparci di questi due autori (così lontani tra di loro) è da ricercarsi in un retaggio culturale del vecchio continente che in qualche modo abbiamo cercato di recuperare. D’Agata, con il suo romanzo e con il serial de Il Segno del Comando di cui è stato anche lo sceneggiatore, ha rappresentato uno degli esponenti di una italianità geniale via via venuta meno per lasciare il passo al progressivo appiattimento qualitativo cui oggi assistiamo. Noi veniamo principalmente dagli anni 70-80 e abbiamo assistito alla nascita dell'”arte spazzatura” che ha preso progressivamente il posto precedentemente occupato da pagine memorabili della nostra cultura nazionale. Ebbene D’Agata è sicuramente uno degli artefici della magica epoca che ha preceduto il break down che ha originato l’impoverimento che oggi caratterizza per lo più il mainstream di musica, cinema, arte e televisione. In sostanza, noi ragazzi delle “paludi nichiliste” degli anni ’80, abbiamo sentito la necessità di salire su una zolla di terra salvatasi dai fanghi per compiere a ritroso un percorso di recupero delle tradizioni del nostro continente. Dopo un primo viaggio fino ai confini della memoria per ritrovare le suggestioni della nostra infanzia (ovvero quelle della tv in bianco e nero), abbiamo sentito l’esigenza di spingerci oltre e cercare radici più profonde. Qui è venuto l’interesse per tutta una serie di autori tra cui Meyrink. Quindi in realtà i punti di contatto, più che da ritrovare nel contenuto degli scritti di questi due autori, sono da ricercare nelle associazioni compiute dalle nostre menti spinte dalla volontà di riscoprire le proprie origini.
E’ stato difficile tradurre in versi l’opera e, soprattutto, è nata prima la parte musicale o quella lirica? Come avviene quasi sempre nel mio modo di lavorare, è nata prima la musica. Solitamente, prima strutturo delle composizioni abbastanza complete con una idea definita di pulsazione ritmica, di armonia, melodie principali e contrappunto e solo dopo scrivo i testi. Anche in questo caso ho proceduto in siffatto modo. Non ho avuto grosse difficoltà nel tradurre in versi l’opera. Anche perché questa mi era entrata dentro in maniera molto forte.
I testi denotano una cura particolare per il lessico utilizzato, caratteristica che ho riscontrato anche nei tuoi lavori con gli Egida Aurea. Da cosa nasce questa tua volontà di utilizzare termini molte volte desueti? La ricerca lessicale (se ce n’è stata una) che è alla base del mio approccio lirico si basa sul fatto di sfruttare termini che da soli diano vita ad una costellazione di associazioni mentali stimolando l’immaginazione dell’ascoltatore. Questa caratteristica, che fin da bambino ho rilevato in autori come De Andrè, mi ha sempre affascinato e ho cercato di farla mia. Inoltre, c’è anche la volontà di non collocarsi in un’epoca precisa dal punto di vista narrativo. Solitamente la tendenza odierna è quella di adottare degli “slang” quando si scrivono i testi. Questi slang sono fortemente legati all’epoca storica in cui sono stati prodotti. Io non voglio uniformarmi a questo approccio, ma preferisco piuttosto mantenere aperto un continuum spazio-temporale con il passato. Un passato in cui la lingua stessa era più ricca (o forse semplicemente meno contaminata da tendenze imposte da un mondo globalizzato). Anche l’utilizzo di termini ormai meno diffusi è dovuto all’efficacia di alcune di queste parole nel centrare determinati concetti. Nonostante ciò, cerco di mantenere una buona fruibilità sia nella musica che nei testi. Non mi interessa compiacere pochi intellettuali, ma semmai aprire nuove vie che la persona media possa riscoprire come alternative a quanto viene imposto dai canali ufficiali.
In alcuni pezzi ho riscontrato delle influenze Egida Aurea, come per esempio nel brano d’apertura. E’ una mia impressione o quell’esperienza ha in parte condizionato il processo creativo de Il Volto Verde? Egida Aurea è stato il primo progetto in cui (stufo di dover dipendere dall’aiuto di altri e spinto dalla necessità di non ritrovarmi ridotto all’immobilità) mi sono messo a curare i testi. Prima non me n’ero mai occupato e avevo sempre preferito delegarne la realizzazione ad altri. E’ in questo progetto che è nato il mio modo di scrivere. Chiaramente cambiano le tematiche, ma l’impronta resta e forse questa impronta si fa evidente in ogni mio disco. Non nascondo però che ne Il Volto Verde c’è anche una sorta di evoluzione di concetti e pensieri, già sviluppati con Egida Aurea, volta ad approfondirne le dimensioni esoteriche.
Come è stato lavorare a un album del Segno senza Mercy? E’ stata chiaramente una esperienza molto strana (almeno inizialmente). Non posso negare questo. Però nel contempo mi ha permesso di compiere un percorso di crescita che non è privo di soddisfazioni e di sensazioni positive. In questi anni grazie a tutti i progetti che ho seguito (di cui Il Volto Verde rappresenta ad oggi lo scalino conclusivo) sento di avere sviluppato una maturità che mi fa sentire molto bene dal punto di vista artistico.
In compenso sul disco compaiono una miriade di artisti sia come componenti effettivi della band sia come ospiti. In base a quale criterio hai scelto le persone con cui collaborare? Il Segno del Comando è sempre stato un gruppo soggetto a cambi di line up (forse su questo ha influito anche il fatto che fino ad oggi sia rimasto un progetto esclusivamente da studio). Per quanto riguarda la scelta di alcune star che sono comparse nel disco, posso dire di aver seguito semplicemente i miei desideri di fan onorato di accogliere alcuni tra i musicisti che ritengo miei maestri (come ad esempio Gianni Leone e Claudio Simonetti). Ho poi invitato altri esponenti della scena italiana ed internazionale per i quali nutro una grande ammirazione (Paul Nash, Freddy Delirio, Martin Grice, Sophya Baccini) ritenendo che, grazie alle loro capacità personali e al loro stile, avrebbero arricchito di molto il disco; e così è stato. Per il resto la scelta è stata dettata semplicemente dalle caratteristiche musicisti. Non è semplice entrare nel mood di questo progetto e quindi è stato necessario selezionare chi aveva le attitudini adatte a renderne al meglio le sonorità.
La butto là: vi vedremo mai dal vivo? Magari con una rappresentazione teatrale… Sì, è mia intenzione portare Il Segno del Comando dal vivo. Sto infatti lavorando alla definizione di una line up stabile che oltre ai concerti si occupi dei prossimi capitoli discografici. A breve entreremo in sala prove e stiamo già pianificando una prima uscita indicativamente per il prossimo autunno.
Piccolo passo indietro: tempo fa mi è capitato di recensire l’album “TRE” dei Pierrot Lunaire, disco che conteneva degli inediti della band oltre che una sorta di appendice tributo. Voi vi avete partecipato con “Lady Ligeia”: cosa ricordi di quell’esperienza? Ricordo che quell’esperienza ha rappresentato un test importante in vista di realizzare Il Volto Verde. Abbiamo suonato tutto io e Roberto Lucanato. Ho realizzato un arrangiamento per basso e chitarra di una composizione che in origine era per pianoforte. Inoltre, mi sono concesso un ruolo melodico/tematico lasciando emergere il bassista che è in me e che ultimamente è messo sempre più da parte per lasciare spazio al compositore.
In conclusione mi sembra fuori luogo chiedere a una band come la tua quali siano i progetti futuri, lontani come siete da certe logiche, credo che dovremo aspettare un bel po’ prima di vedere del nuovo materiale. Per questo ti chiedo quali sono quelli di Diego Banchero, magari un insperato ritorno dei Malombra? Voglio fare in modo che l’attività de Il Segno del Comando diventi più regolare e raggiunga un livello prioritario. Negli anni ho sofferto molto a causa dei periodi di inattività della band. Chiaramente non voglio trascurare né gli altri miei gruppi (Ballo delle Castagne, Egida Aurea) né collaborazioni che sono per me molto stimolanti (Blooding Mask, ZSP, Lupi Gladius). Queste stanno procedendo ed abbiamo agende piene di progetti e impegni. Con gran sicurezza posso dire invece che non ci sarà un ritorno di Diego Banchero con Malombra. Questa la vedo come un’ipotesi praticamente impossibile da verificarsi.
Grazie di tutto, a te la chiusura Voglio utilizzare questo ultimo spazio per ringraziare te e la redazione per averci accolto su Raw and Wild.