Out Of The Blue – Pirate queens

“Pirate Queens” è il titolo dell’album del duo Out Of The Blue formato da Annie Saltzman Pini alla voce e Giovanni Pollastri, polistrumentista. L’album è dedicato alle donne pirata, piratesse. Realmente esistite. Un album unico nel suo genere, “Pirate Queens’”include dieci brani dedicati a piratesse, o come venivano definite Pirate Queens, che hanno combattuto fianco a fianco con i leggendari pirati della storia, lasciando un marchio indelebile nel mondo della pirateria. I brani raccontano le avventure di alcune tra le figure più leggendarie grazie alla particolarissima voce di Annie Saltzman Pini, nata a New York City, Giovanni Pollastri ha invece prodotto e suonato quasi tutti gli strumenti presenti nelle registrazioni. Entrambi vivono a Milano. Ogni brano è dedicato a una piratessa descrivendone le gesta, a volte narrando la storia della sua vita, a volte soffermandosi sul carattere e sul difficile rapporto con un mondo, quello della pirateria, totalmente maschile, dove non veniva dato alcuno spazio alle donne per emergere. Abbiamo intervistato il duo, per conoscere meglio questo interessantissimo progetto.

Giovanni, come è nata l’idea di dedicare un progetto al tema ‘piratesse’? Cosa esattamente ha scatenato il tutto?
L’idea è nata ascoltando “Rogue Gallery”, un bellissimo album prodotto da Johnny Depp e Gore Verbinski, regista dei primi due film “I pirati dei Caraibi”. È un disco dedicato ai cosiddetti Sea Shanties, canti del mare legati al mondo dei pirati, traditionals reinterpretati da Nick Cave, Bono, Sting, Brian Ferry e molti altri artisti, tra cui anche alcune cantanti donne come Robin Holcomb e Lucinda Williams. Ascoltandole ho pensato se stessero parlando di donne pirata, e da lì è nata l’idea che ho poi sviluppato insieme a Annie. Le ho mandato un messaggio e lei mi ha risposto da Provincetown, nel Massachusetts, e in quel momento era proprio davanti a un museo di pirati! Che coincidenza!”

Annie, i brani sono da te cantati, cosa ci raccontano?
Abbiamo scelto una serie di piratesse che hanno lasciato un segno indelebile nel mondo della pirateria. Quando Giovanni mi ha mandato quel messaggio, sono entrata nel museo e ho visto che c’erano dei libri dedicati alle “Pirate Queens”, il modo in cui venivano chiamate le piratesse. Ho praticamente studiato a fondo le loro storie e ho scelto quelle più interessanti. Ogni brano è dedicato a una piratessa, per cui in alcuni casi i testi raccontano la loro vita, in altri il carattere. Mi piace l’idea di aver scritto dei testi non su me stessa, cosa che di solito si fa quando si scrive un brano, ma sulla vita di altri.

Giovanni, questo progetto ha avuto una gestazione molto lunga, quanto tempo ci avete messo per realizzarlo? E come?
Colpa mia! Diciamo che cerco sempre di prendere bene la mira quando realizzo qualche cosa, per cui se serve ci impiego anche più tempo del previsto, però in effetti questa volta sono passati addirittura degli anni! Il risultato però ci sta dando molte soddisfazioni perché è esattamente come volevamo che fosse. Io ho registrato tutte la parti musicali mentre Annie si è occupata dei testi. Collaboriamo molto bene insieme per cui a volte lei interviene sulle mie parti e io sulle sue, e in questa maniera sviluppiamo meglio l’idea di base.

Hai arrangiato, suonato e prodotto quasi tutto l’album, è la tua prima esperienza di questo genere o hai in passato prodotto o partecipato a simili progetti, se sì, quali?
Ho già lavorato con molti artisti in ambito produzione, tra cui il mitico Lou Reed, dato che ho realizzato un brano insieme al suo storico produttore Fernando Saunders. Abbiamo ripreso un brano dei Velvet Underground intitolato “Jesus” e l’ho un po’ stravolto, aggiungendo delle parti, cambiando totalmente il sound e l’atmosfera del brano, semplicemente seguendo il mio istinto. Sia a Fernando che a Lou è piaciuto molto per cui lo abbiamo realizzato per l’album di Saunders intitolato “Happiness” nel 2012. Ho avuto anche la possibilità di collaborare con Joe Cocker e Andy Summers tra i tanti artisti con cui ho lavorato.

Annie, il tema “piratesse” ha un risvolto attuale, anche metaforico, inteso nella attuale società in cui viviamo?
Ancora oggi, purtroppo, il dibattito relativo al ruolo della donna nella società è ancora molto aperto. Le piratesse hanno combattuto in prima persona per ottenere un riconoscimento e una uguaglianza in un mondo che era totalmente maschile, basti pensare che le donne non potevano salire sulle navi dei pirati. Loro però sono riuscite nel loro intento e hanno ottenuto la cosiddetta parità. È un po’ come guardare al problema da una angolatura differente, ossia in maniera positiva: loro sono riuscite a ottenerla l’uguaglianza.

Il vostro è un duo, come è nata l’amicizia artistica e non solo?
Io sono di New York City e sono cresciuta nel mondo di Broadway, andavo a vedere tutti i musical che potevo, e poi ho esordito all’età di dodici anni in un coro alla Carnegie Hall. Quando mi sono trasferita in Italia negli anni Ottanta ho incontrato molti musicisti che apprezzavano la mia voce e ho iniziato a lavorare con alcune band, tra cui i Casbah, con cui sono andata in tour aprendo i concerti di Vasco Rossi. Negli anni Novanta una nostra amica in comune mi ha fatto conoscere Giovanni e da lì è iniziato un bellissimo percorso artistico dapprima creando una band grunge, gli Street Tease (un nostro album intitolato “The Grunge Years” lo si può ascoltare su Spotify), e negli anni successivi sviluppando altre idee, fino ad arrivare a questo album. Siamo ottimi amici e artisticamente abbiamo una grande affinità.

Giovanni, come è lavorare con Annie?
Quando ho sentito la voce di Annie ho capito subito che era unica! È riconoscibilissima, molto personale, oltretutto perfetta per impersonare le piratesse. Mi trovo veramente bene a lavorare con lei, abbiamo lo stesso approccio nei confronti della musica, ci piace dare al pubblico un prodotto che sia il più professionale possibile e viaggiamo veramente sugli stessi binari. Ci confrontiamo a vicenda sui nostri ruoli, io come compositore e lei come autrice, e spesso è dal confronto che riusciamo a sviluppare ancora meglio i brani. E poi siamo sempre un po’ un vulcano di idee, non finiremmo mai di scrivere e suonare!

INTERVISTA ORIGINARIAMENTE PUBBLICATA SU “IL QUOTIDIANO DI BARI” IL 12 APRILE 2023

Ataraxia – Aura magi

Tornano sulle colonne virtuali de Il Raglio del Mulo gli Ataraxia, che avevamo intervistato in occasione della pubblicazione di “Quasar”. “Pomegranate – The Chant of the Elementals” è l’ennesima riprova che, nonostante la band abbia alle proprie spalle una carriera più che trentennale, la vena creativa degli Ataraxia è ben lungi dall’esaurirsi.

Bentornati, ai tempi dell’uscita di “Quasar” nella nostra intervista definiste quel disco una “terapia in musica”: in parte o in toto descrivereste così anche il nuovo lavoro “Pomegranate”?
Ogni album che realizziamo e lasciamo fluire attraverso di noi è un atto terapeutico, la musica stessa può essere un deliberato o inconscio atto terapeutico sia perché le frequenze portano energie di qualità sia perché i contenuti sensoriali e spirituali ci aiutano a fare esperienza e conoscere meglio se stessi. “Pomegranate” è un abbraccio appassionato di elementi naturali, figure mitologiche e floreali, mondi e parole magiche e sensuali. Un “viaggio-terapia” in musica.

E’ azzardato affermare che “Pomegranate” è forse uno dei vostri dischi più istintivi?
E’ un album profondamento sentito e voluto, abbiamo vissuto i nove mesi della sua gestazione in profonda concentrazione e libertà espressiva. I brani sono nati come per magia uno dopo l’altro in studio e nel nostro rifugio alchemico, la sala prove. Tutto è fluito naturalmente, istintivamente. I nostri archetipi zodiacali e le nostre caratteristiche personali differenti ci hanno guidato a dipingere col suono, canalizzare o interpretare questo o quell’elemento e fra noi abbiamo vissuto una comunione creativa libera, profonda, condivisa. Insieme abbiamo potuto realizzare il tutto come tante gocce singole che si fondono in un solo mare. Purificati e nuovi, abbiamo avuto accesso a vari regni in un tripudio di prati fioriti, profumi, colori, sensuali sussurri, essenze, cori aurorali ed arie incantatorie. Ma poi l’entropia ed il chaos del mondo in cui stavamo vivendo ci ha spinto ad inanellare un nuovo ordine di purezza adamantina anche se per giungervi abbiamo dovuto attraversare la pelle di caverna del dio Dioniso, fino ad essere calamitati nel suo mondo minerale, animale, umano e divino. Certamente, è un disco istintivo ma un istinto filtrato da intuito, percezioni e sensazioni sottili.

Il disco ha un sottotitolo, “The Chant of the Elementals”, possiamo quindi definirlo un concept?
Certamente. E’ una corsa poetica attraverso i quattro elementi aria, acqua, terra e fuoco (ognuno dei brani ne porta le frequenze in musica) per arrivare alla Quinta Essenza, il quinto elemento che li incorpora tutti e li trascende. Il fuoco bianco di cielo ci ha portato alla fusione con” Hlara Aralh” (primo brano), portatore del coraggio del cuore (coraggio= agire col cuore). Il dispiegarsi delle note ci infonde un senso di libertà e leggerezza onnicomprensivi e pervadenti. Le lingue di fiamma cristallo che purificano senza bruciare ci avvolgono e ci portano al sentire più puro, istintivo e vivificante. Il viaggio alchemico dell’eroe, il viaggio di tutti noi, prosegue e si inoltra nell’elemento terra rappresentato dal profondo del bosco e dalla danza cosmica del cervo. “Oruphal” (secondo brano) ci conduce nell’underworld al cospetto della nostra ombra che è necessario guardare, accogliere ed integrare. Quali bestie sanguinanti e sfinite, ci troviamo in bilico tra un portale mistico ed uno strapiombo. Intorno a noi crepacci sulfurei, montagne e segrete spiagge. Poi irrompe il vento e ci trasforma in quarzo di luna. Un nuovo movimento alchemico ci accompagna dalla nigredo all’albedo dove ci accoglie “Ozoonhas” (terzo brano), spirito elementale che ci attraversa come aria per un passaggio in alto. Siamo antenne? Raggiungiamo ogni volta il punto più alto per farci canali di frequenza, ci eleviamo in spirale attorno al caduceo di Mercurio per risettare il nostro DNA e muoverci tra gli astri. In alto, nelle lunghe notti d’estate, contempliamo le stelle. Le silfidi, spiriti elementali dell’aria, ci ispirano insufflando in noi l’intelligenza sottile. Dalle altezze agli abissi uterini, tra spirito e materia, avvolti dalle correnti liquide di “Nevenhir” (quarto brano), spirito elementale dell’acqua. Nei fondi abissali seminiamo doni e facciamo crescere piante sonore, appariamo e spariamo con ali leggerissime ricamando sogni. Quali cellule stellari rimaniamo espansi e sospesi prendendo forme magiche e sorridendo dentro. Poi si accede all’ultima fase del viaggio, la Rubedo. Siamo nel campo mentale superiore, “Aura Magi” (settimo brano) In questo spazio l’etere dipinge distanze siderali, ci dà potere di visione, la capacità di comunicare con ogni cosa e con le forze divine degli intramondi. E’ un passaggio iniziatico di rinnovamento e pace intensa, una mistica carezza. Contempliamo i misteri, forme che si manifestano, e siamo fuoco sottile avvolto da carni mortali. Il viaggio sonoro si conclude con una outro che ci catapulta di nuovo nella materia delle origini come creature rinnovate.

Cosa simboleggia il melograno in questo contesto?
Il melograno è un simbolo potente, certi miti raccontano che sia nato dal sangue di Dioniso che feconda la terra (Dioniso è una delle due divinità a cui è dedicato un brano dell’album), inoltre è uno dei frutti sacri ad Afrodite insieme al melo (Afrodite è l’altra divinità a cui è dedicato un brano), Persephone, regina del mondo ctonio sotterraneo ed inconscio, il mondo dell’ombra ne mangia alcuni chicchi per diventare da fanciulla a donna consapevole grazie anche alla guida di Ade. Il melograno è un frutto afrodisiaco e le spose greche intrecciavano i capelli coi suoi rami. Il frutto è simbolo di prosperità e fortuna e rappresenta anche il micro ed il macrocosmo, dentro al globo del frutto tanti altri piccoli globi. Questa pianta era anche diffusa nei giardini dell’antico Egitto poiché resisteva alla siccità e quindi denotava forza. Era anche attributo della Grande Madre nel mondo mediterraneo, colei che da la vita, è fertile e colei che la toglie. Spesso si trova questo frutto nelle decorazioni pittoriche del rinascimento, anche nella Madonna con la Melagrana di Botticelli appartenente alla scuola neoplatonica fiorentina. Abbondanza, vita/morte, energia vitale, fecondità, la rappresentazione dell’universo stesso, del “così è in alto come in basso”. Abbiamo sentito forte questo richiamo.

Restando in termini di simboli, nella copertina risalta il rosso in un mare di luce: in qualche modo ha un significato recondito anche questa scelta?
E’ sorprendete come tutto sia legato da un fil rouge senza che neppure ce ne accorgiamo o lo pianifichiamo. Tutto avviene in un flusso incredibile di intenti inconsci e magici senza essere preventivato. Abbiamo scelto di realizzare il servizio fotografico in un giorno qualsiasi e quel giorno c’era la luce dorata perfetta nelle nostre colline e Francesca ha scelto il rosso apparentemente per caso e si è trovata immersa in dettagli dello stesso colore che punteggiavano la natura e alberi di melograni attorno a noi offrivano i loro frutti maturi. Ci siamo accorti di essere in un quadro che ha ispirato i brani prima che fossero scritti, abbiamo iniziato a comporli a novembre e in quel giorno di settembre tutto era già racchiuso negli scatti fotografici che poi sono diventati copertina e parte dei booklet. Il rosso vivace e variegato del melograno porta la vita, il codice del nostro sangue, della passione, del coraggio, vitalità che fluisce nella luce dell’equinozio, una luce di balance, equilibrio in cui 12 sono le ore diurne e 12 quelle notturne e 12 è un numero magico poiché dodici sono i mesi, gli archetipi zodiacali, etc. Abbiamo scattato le foto durante l’equinozio d’autunno 2021 e l’album esce a celebrare l’equinozio d’autunno del 2022. Inoltre l’oro è un colore alchemicamente importante, è la pietra filosofale, estrarre oro dal piombo, estrarre la Quintessenza della nostra dimensione animica dalle scorie della materia pesante. L’etichetta poi ha scelto di realizzare i vinili in colore oro e oro marmorizzato nero. Abbiamo il ciclo del sole ed ogni elemento che si sposa a questa creazione.

Ritenete che tutti i vostri ascoltatori siano in grado di decodificare la vostra arte per goderne al meglio oppure credete che ci siano più livelli di percezione di un vostro disco, ognuno diverso ma ognuno comunque soddisfacente allo stesso modo?
La tua domanda esprime intelligenza sottile e sensibilità. Esiste un inconscio collettivo, un mondo archetipale dove esistono elementi in comune a tutti gli esseri umani ma esiste anche l’individualità che riesce a volte a sganciarsi dalle norme culturali, dagli “stampi” emozionali e reattivi a cui siamo sottoposti e che ci hanno plasmato sin da pochi anni dopo la nostra nascita. L’arte e la musica in particolare riescono a bypassare tutto questo se ci si affida liberamente e consapevolmente a questo flusso. Credo i nostri ascoltatori siamo soliti abbandonare ratio e cultura dominante per accedere a quel mondo superconscio o spirituale in senso lato che porta ad un ascolto musicale che diviene un ascolto interiore, un viaggio alla scoperta di se, dei propri luoghi dell’interiorità a cui la musica e la natura da cui siamo ispirati fanno da specchio. Quindi, certo, chi entra in risonanza con la nostra arte trova e scopre sempre codici personali ed universali per assimilarla e viaggiare, ci sono più livelli di percezione e anche sensazioni differenti ma ognuna di queste è buona e giusta per la persona che la vive. Sono tanti i sentieri che portano ad un luogo speciale, alcuni più irti, altri delicati e plananti, altri scoscesi ed impervi, altri densi di dolcezza e colori anche se tutti arrivano alla stessa Sorgente.

Nel 2020 avete festeggiato il vostro trentennale in un momento storico molto particolare, in qualche modo gli avvenimenti legati alla pandemia hanno sancito un prima e un dopo oppure per voi le cose sono tornate più meno sui soliti binari dopo un periodo di assettamento?
In tutta sincerità niente torna mai sugli stessi binari, diciamo pure che i binari ci stanno stretti e che abbiamo sempre preferito aprire nuovi varchi e sentieri nei boschi sonori che ci hanno accolto e che abbiamo scoperto strada facendo. Inoltre, per la legge dell’ottava, ogni cosa che si ripete avviene sempre ad un’ottava diversa a seconda di ciò che abbiamo appreso, delle debolezze, dei punti di forza, delle scoperte, delle paure e del coraggio che abbiamo dimostrato ed esperito la volta precedente. Per confrontarci con esperienze così forti, stimolanti e sfidanti, per non rimanere annichiliti o passarci in mezzo da ciechi, sordi ed evitanti col rischio di finire in altre esperienze simili come in un loop di un girone dantesco, abbiamo scelto la creatività. Ad un certo punto ci siamo concentrati, aperti alle infinite vie della creazione ed abbiamo deciso di realizzare questo album. Immersi in un universo di idee, sensazioni, percezioni e stimoli artistici abbiamo dato un senso a tutto ciò che accadeva “originando” un mondo nostro di Bellezza, Armonia e Grazia che potesse essere condiviso e potesse essere un dono per noi e tutti coloro che ci ascoltano e ci ascolteranno.

Avete delle date in programma a supporto del disco?
Avevamo una serie di date in previsione (anche se non facciamo mai specifici tour legati ad un album, ogni nostro concerto è una “dimensione” a sé, preparato ad hoc a seconda del luogo che ci ospita, del nostro stato d’animo e di tanti altri fattori), purtroppo alcune sono saltate per problemi organizzativi dell’ultimo minuto, avremmo dovuto suonare in un grande festival in Romagna, un altro in Umbria e via dicendo. Saremo in Germania ad un festival legato al sole a fine novembre e faremo un concerto semiacustico nel giardino di una casa colonica in forma semi privata (ad invito) il 1 ottobre (per chi fosse interessato a prenotare un posto può scriverci via Facebook). E’ in preparazione un tour oltreoceano nel 2023 inoltrato dove spesso siamo richiesti e dove per questioni di forza maggiore abbiamo dovuto rimandare negli ultimi due anni. La dimensione dal vivo è un rituale, un atto magico profondamente condiviso tra noi ed il pubblico, un pubblico attivo con cui si scambiano correnti energetiche. Essendo stati molto impegnati nell’ultimo anno in studio di registrazione e con i vari artisti che hanno collaborato alla parte visiva di “Pomegranate”, abbiamo ora un po’ di tempo per preparare una performance ad hoc, provare i brani nella versione live e realizzare un video da proiettare ai concerti come supporto immaginativo.

Di solito siete molto prolifici, loro dimostra la vostra cospicua discografia. Mi incuriosisce sapere, in chiusura: nonostante abbiate rilasciato da poco un disco, state già lavorando a dei nuovi pezzi?
In questi mesi siamo stati molto impegnati con la realizzazione di alcuni video ed un video documentario ispirati a “Pomegranate”. Giovanni, il nostro tastierista, ama molto il lato visivo oltre che musicale di un nuovo concept e quindi ci siamo immersi nella natura selvaggia dei nostri Appennini per evocare i 4 elementi alchemici presenti nell’album tra fiumi, pareti rocciose, laghi, cascate e boschi. Ogni elemento che vediamo “fuori di noi” è anche dentro di noi, quindi frequenze sonore e frequenze cromatiche si mescolano per portarci ad aprire “portali” che ci permettono di cominciare e proseguire il viaggio. Questi sono i link dei primi due video, “Nevenhir”

e “Hlara Aralh”

Inoltre questo album esce in numerosi formati (due formati in vinile, due formati in CD) ed ognuno ha un proprio ricco booklet di immagini e scritti ed il vinile include anche un vero e proprio artbook 30×30 realizzato in collaborazione con Insetti Xilografi (visita la pagina instagram di insetti_xilografi) e Nicolas Ramain (il nostro grafico) che contiene numerose opere pittoriche ognuna a tema con un brano e gli scritti poetici di Francesca che hanno ispirato poi i testi ed il concept. Questo book è una piccola opera d’arte. Quindi siamo ancora pienamente immersi in questa atmosfera ed è un po’ prematuro gettare il seme per un nuovo concept album poiché è necessario fare un po’ di spazio come tra un respiro ed un altro, una stagione ed un’altra, una nota e la seguente. Siamo inoltre impegnati nella realizzazione di un brano esclusivo per una serie di un amico americano, The Sorrow, e Francesca ha cantato due brani del prossimo album di Autumn Tears sempre in uscita per The Circle Music nella primavera 2023. Ad ogni modo qualche suggestione è già presente, vediamo come si modulerà nei mesi e nel tempo a venire. Come diciamo spesso, ogni cosa è già scritta dobbiamo solo portarla sul piano della materia “condensando” ciò che per ora è sul piano energetico e sottile.


Bengala – Il sonno della provincia agricola

Partito nel 2017 con sonorità heavy rock strumentali, il progetto Bengala, capeggiato dal bassista Miky Bengala (Gordo, Long Dog Silver, Temple of Dust, Svetlanas), con l’ultimo stupendo Ep, “Il sonno della provincia agricola” (Mightallurgia Pesante), è giunto una forma di neo folk dalle tinte oscure e dal forte sapore evocativo.

Benvenuto Miky, innanzi tutto dobbiamo parlare di Bengala o dei Bengala?
Direi che Bengala è la forma più corretta, oltre tutto non è un nome d’arte ma è il mio cognome. La nascita e il processo evolutivo di questo progetto hanno come unico perno la mia presenza fissa mentre le collaborazioni avvengono quasi solo in fase di registrazione e di arrangiamento aggiuntivo. La formazione live varia a seconda della situazione, attualmente prevede il duo basso/voce e percussioni con Fabrizio Carriero dietro le pelli oppure la versione solista con voce basso e stompbox che attualmente mi ha consentito di esibirmi in strada e in alcuni secret show tra i colli briantei.

E’ da poco fuori “Il sonno della provincia agricola”, mi daresti prima di tutto la tua definizione di provincia agricola?
La provincia agricola è un concetto che descrive un luogo e un modo di vivere ormai quasi andato perduto; qualcosa di antico che fa parte del territorio in cui vivo, che si nasconde tra i muri di pietra e nei vecchi cascinali dove fin da ragazzino trascorrevo il tempo a suonare. La provincia agricola sta ai margini della società moderna, è un luogo dove ci si rifugia quando si comincia ad essere stanchi di certi ritmi. Non lo penso come luogo di aggregazione culturale bensì di auto isolamento.

All’interno del contesto da te descritto, come va intenso il concetto di “sonno”?
Si riferisce al sottosuolo, dove le radici del tempo hanno lasciato la loro impronta e dove gli echi di antiche tradizioni risalenti a un passato remoto respirano lente, dormienti ma ancora vive.

Può esserci un equilibrio tra provincia agricola e rete? Alla fine, noi in questo momento stiamo sfruttando uno strumento globale per parlare di un’ideale di provincia…
Nonostante ci si sforzi di essere cittadini del mondo e ci si affanni a stare al passo con la modernità, trovo che spesso ci si dimentichi che siamo e viviamo in un enorme provincia, la stessa che qualcuno parecchi anni fa ha definito “periferia dell’impero”. Non siamo nati al di là della manica o in Scandinavia e neanche negli Stati Uniti e molto di ciò che abbiamo fa parte di un flusso culturale unilaterale imposto dall’esterno. Parlare di provincia in un mondo globalizzato non è solo un atto di consapevolezza rispetto a ciò che si è veramente, è anche un piccolo ma feroce tentativo di riscatto e di distacco dalle solite logiche esterofile adottate per esempio da numerosi colleghi musicisti, che personalmente comincio a considerare ridicoli.

Come sono nati i brani de “Il sonno della provincia agricola”?
I brani de “Il sonno della provincia agricola” sono nati in tempi molto brevi durante il primo lockdown ma sono il frutto di un percorso intrapreso negli ultimi quattro anni ovvero da quando sono tornato a vivere in Brianza, nei luoghi della mia adolescenza. A differenza delle mie produzioni precedenti il punto di partenza dei singoli brani di questo progetto è stato il testo, successivamente sviluppato metricamente attraverso basso e tastiere. La difficoltà nel potermi esibire nei locali causata delle condizioni sociali imposte dalla pandemia ha poi influenzato il risultato finale dell’Ep.

Riconosci in queste tracce la band che hai fondato nel 2017?
Sì, riconosco l’approccio istintivo e sono consapevole di essermi allontanato anni luce dal primo Ep prodotto nel 2017 e questo per me è motivo di orgoglio. Per quanto riguarda il genere penso solo che sia un semplice metodo di espressione che trasformo ed evolvo. La scelta di passare da Femore Prod a Slaughterhouse Recordse poi successivamente per Fuzz Prod di Luca Ciffo è stata consequenziale al tipo di sound che volevo ottenere. Per quest’ultimo lavoro mi sono affidato a Claudio Guintini dello Scatola Nera Studio che è riuscito a ricreare un ottimo sound neofolk.

Racconti delle storie nelle tue canzoni, credi che potrebbero essere scisse dalla musica oppure non esiste un vero confine tra le note e le tue parole?
Penso che in questo caso le parole possano essere estrapolate dal contesto musicale. Non mi dispiacerebbe affatto se qualcuno un giorno decidesse di trasformare questi brani in qualcos’altro. La musica e le parole possono diventare arte visiva per mano di un illustratore o il racconto di uno scrittore. Io stesso ho romanzato in queste canzoni dei fatti storici realmente accaduti e li ho tradotti nel mio linguaggio.

Hai già proposto i nuovi brani dal vivo?
Sì e ho l’abitudine di arrangiarli in più versioni, da one man band fino al quartetto elettroacustico. La versatilità è uno dei concetti base per cui porto avanti questo progetto, chi viene ad ascoltare i miei live può ritrovare gli stessi brani che ho suonato il giorno prima su un palco in formazione completa, eseguiti il giorno dopo in versione folk totalmente acustica.

In coda ti chiedo: quanto è vicina la tua realtà attuale al tuo ideale di vita da provincia agricola?
Attualmente passo molto più tempo tra i campi e nei boschi a suonare che nel mondo civilizzato. Diciamo che nella modernità ci sono entrato con un ben assestato calcio nel sedere, ma sto rimediando all’errore anche se con estrema fatica. Tra i progetti futuri sarà fondamentale vendere la macchina e comprare un mulo.

Corde Oblique – The dry side of the moon

Esistono realtà, come i Corde Oblique di Riccardo Prencipe, che si muovono ai confini dei generi, rendendo così tanto impervia la catalogazione quanto affascinate la propria musica. Il nuovo “The Moon is a Dry Bone” (Dark Vinyl Records \ Metaversus Pr) non è da meno, affascinante sin dal criptico titolo, trasporta l’ascoltatore in un mondo parallelo che pare creato dal pennello visionario di De Chirico.

Riccardo, benvenuto su Il Raglio del  Mulo, con “The Moon is a Dry Bone” arrivi al settimo sigillo con iCorde Oblique, lo avresti mai immaginato all’indomani della fine dell’avventura Lupercalia? 
In effetti, si tratta del mio nono album in studio, il decimo se calcoliamo anche il live “Back Through the Liquid Mirror”. E’ molto difficile giudicare sé stessi e spesso i creativi dicono cose molto meno intelligenti di quelle che producono. Direi semplicemente che ero molto determinato a fare tanto e bene, spero di esserci riuscito.

Cosa aggiunge di nuovo questo album alla tua già nutrita discografia?
Sicuramente il sound: utilizzo anche chitarre elettriche e molti effetti, per la prima volta inoltre abbiamo introdotto la fisarmonica (di Carmine Ioanna). Dopo un album molto ricercato come “I Maestri del Colore” è venuto da sé un naturale ritorno alla forma canzone, anche se, in alcuni casi, molto audace.

Credi, invece, durante il tuo cammino artistico di aver perso qualche peculiarità che avevi all’inizio?
Forse quell’attitudine neofolk è un po’ più evanescente, in favore di una svolta prog. Anche se i nostri ascoltatori più fidati, per fortuna, continuano a seguirci nonostante la nostra voglia incessante di rimetterci in discussione.

Il titolo “The Moon is a Dry Bone” cosa significa?
“La luna è un osso secco”, un momento storico di stasi e di disincanto. Tutto ciò non ha assolutamente nulla a che vedere con il virus, lockdown etc. La luna era già un osso secco da tempo. L’egotismo di questo momento storico ha prosciugato la fertilità ricettiva del pubblico. Ci sentiamo ormai tutti su un palcoscenico virtuale.

Ancora una volta degli ospiti illustri, ti andrebbe di parlarne?
Non ho mai badato alla “fama” dei miei ospiti, nei miei dischi ci sono sia nomi “illustri” che perfetti sconosciuti. In questo disco sicuramente le novità sono due voci maschili: Andrea Chimenti e Miro Sassolini. Ho iniziato ad aprirmi e ad ascoltare la new wave italiana degli anni d’oro. Il risultato è una bella contaminazione di sensi. In realtà, c’è una terza voce maschile: Sergio Panarella, degli Ashram, con cui abbiamo collaborato già diverse volte. Un’altra voce che spero continuerà ad essere parte delle nostre sonorità anche in futuro è Rita Saviano, con cui lavoriamo anche live. Rita ascoltava e conosceva molto bene i nostri brani già da prima di cantare con noi, questo ha dato molto al progetto, è stata sicuramente una grande e nuova energia. Il dato tecnico conta poco se non c’è quello sensibile e una consonanza di gusti. Un altro nome non nuovo è Denitza Seraphim. Considero Denitza una sorta di sorella sonora, a mio parere una piccola grande erede della immensa Lisa Gerrard.

Quella degli ospiti è una costante nei tuoi album, mi verrebbe quasi da dire che non possano neanche essere definiti tali, che siano, anche se diversi di volta in volta, dei membri aggiunti. Teoria senza senso la mia?
Assolutamente vero! Da sempre gli ospiti sono parte integrante del progetto: Corde Oblique è una bottega. Di certo la band vera e propria è quella live, fatta da me, Edo Notarloberti, Umberto Lepore, Alessio Sica, Rita Saviano. Ma molti di questi ospiti sono di fatto parte integrante della formazione: Caterina Pontrandolfo ad esempio collabora con noi da oltre 15 anni, stimo molto il suo percorso creativo e la qualità dei suoi lavori, a prescindere dalla collaborazione con i Corde Oblique. Stesso discorso per Luigi Rubino.

Altra costante è la presenza di cover nel vostro repertorio, che piacere ti da lavorare sui brani altrui?
Esatto. Ogni volta che lavoro su una cover è un po’ come se dovessi distruggere qualcosa per poi ricrearla. Ha senso fare cover se sei disposto a rimischiare le carte. Per farlo bisogna porsi in modo disinibito verso di esse. A volte è difficile, poiché spesso ci si confronta con brani con cui si è cresciuti, ma la differenza tra una copia e una rivisitazione è proprio questa. Proviamo a “rivisitare” i brani con il nostro stile.

Su “The Stones of Naples” troviamo “Flying” degli Anathema, gruppo a cui hai reso tributo anche nel nuovo lavoro con “Temporary Peace”: come mai sei così attratto dal repertorio degli inglesi?
Ascolto gli Anathema da “Silent Enigma”, fu un disco che cambiò molto il mio modo di percepire la musica estrema a cui ero molto legato. Sentivo per la prima volta in quel lavoro delle sonorità che ai tempi avevano a che fare con il doom metal. Successivamente Daniel Cavanagh apprezzò molto la nostra cover di “Flying” ed aprimmo un suo concerto. Nell’album “A Hail of Bitter Amonds” c’è invece una collaborazione con Duncan Patterson.

In chiusura, mi soffermerei sul rapporto musica\immagini, dalla title track è stato tratto un video: come è nato?
Conoscevo il regista lituano “Rytis Titas” per i suoi bellissimi video per i Diary of Dreams, gli inviai il brano e gli proposi di realizzare una clip in stile noir con citazioni delle foto del disco, scattate da Paolo Liggeri. La donna sogna di svegliarsi e di correre nel bosco, ad un certo punto è attratta dalla luce della luna, ma quando si avvicina arriva il disincanto, la disillusione: la luna è un osso secco.

Foto (© Sabrina Ardore)