Arctic Plateau – Songs of shame

La vergogna come propellente, come detonatore per la creatività. Gli Arctic Plateau di Gianluca Divirgilio, partendo da questo sentimento, hanno scritto un album, “Songs of Shame” (Shunu Records / Metaversus Pr), dal fascino introspettivo, capace di catturare l’ascoltatore in un vortice nero sin dal primo ascolto…

Benvenuto Gianluca, “Songs of Shame”, il nome del tuo nuovo album, è sicuramente un titolo forte. Quando parli di vergogna ti riferisci a un sentimento personale o generale, magari una sorta di vergogna collettiva della società odierna?
Ciao ai ragazzi de Il Raglio del Mulo e a tutti i lettori; per indole personale e non amando i ruoli di primo piano, nella vita mi sono spesso ritrovato a schierarmi dalla parte delle marginalizzazioni, cercando di essere diretto e meno diplomatico possibile. Nelle mie canzoni cerco di raccontare esperienze dirette anche se la tavolozza dei sentimenti umani è così vasta che credo che ognuno si sia trovato prima o poi a scontrarsi emotivamente con i disagi suscitati dagli stati della propria coscienza, in relazione alle innumerevoli contraddizioni che contraddistinguono l’era che stiamo vivendo. Contraddizioni che spesso rischiano di trasformarsi in convenzioni negative. Una delle armi di manipolazione di massa maggiormente utilizzate dal medioevo ai giorni nostri è quella della vergogna; una convenzione ormai così forte che può ancora rappresentare un modo per controllare, espiare, reindirizzare il pensiero di interi strati sociali. Crescendo infatti in un sistema in cui “ti dovresti vergognare”, dai la possibilità alla tua mente di creare una scissione all’interno di te stesso. un veicolo di inibizione di cui nessuno però sembra preoccuparsi troppo. Penso ora ai ruoli e ai meriti che la scuola, la chiesa, o la famiglia stessa non sono stati in grado di attribuire al singolo; incoerenze sulle quali un giovane più che mai si interroga, sempre, puntualmente, di generazione in generazione. Se una società evita puntualmente di porsi delle domande non potrà mai dare neanche delle risposte. Ci tengo a precisare comunque, al di là del lato filosofico e personale che l’album “Songs of Shame”, a differenza dei precedenti miei album, non è un concept e che tali miei pensieri si riferiscono esclusivamente al singolo che porta il nome dell’album.

Come è possibile tirar fuori da quello che uno dei sentimenti più intimi, che per definizione si tende a mantenere privato, un’opera che invece per sua natura è destinata a diventare pubblica?
Parlandone. Quando scrivo di certi argomenti cerco di andare talmente a fondo che il significato delle cose, anche il più doloroso, assurga a connotato artistico tale da sublimarne gli aspetti più drammatici. Questo mi aiuta a scrivere di cose anche molto dure prendendo la giusta distanza. Scrivere in questo modo credo sia rispettoso nei confronti della vita, che di suo ti restituisce tutto. Qualche giorno fa un ragazzo dell’Est Europeo mi ringraziava per la musica che scrivo, come se io l’avessi commissionata per lui, come una colonna sonora della sua intera vita. Quando succedono queste cose il tuo lavoro diventa un dato impagabile ed è in sostanza la vera e propria ricompensa, il vero carburante per questo mestiere, non certo il denaro o la vendita, fine a se stessa.

Dovendo mettere sui due piatti della bilancia il dolore della vergogna e il sollievo della confessione pubblica, oggi, a qualche mese dalla pubblicazione di “Songs of Shame” l’ago da che parte pende?
Sento di avere ancora tanto da dire, non ho bisogno di confessare niente della mia vita per sentirmi libero; dolore e sollievo sono facce della stessa medaglia. A volte provo imbarazzo per l’arrivismo che vedo attorno a me nel mondo della musica, non soltanto nel mainstream. Provo sempre molto dispiacere per chi sostiene di fare arte ma farebbe carte false per firmare un contratto discografico con questa o quell’altra label perché spesso alla base di certe prerogative non c’è neanche la conoscenza dello stato delle cose. La morte della Musica non è stato l’avvento del digitale ma l’involuzione creata dall’ esibizionismo del costume, dove è più importante la marca del contenuto, dove si confonde il fine con il mezzo. Di questo ed altro ci si potrebbe tranquillamente “vergognare”, senza temere alcuna controindicazione.

Il disco, nella sua oscurità, è un compendio di vari generi, il post-punk, la new wawe e una certa tradizione più intimistica che fa riferimento ai grandi poeti del rock. Di volta in volta come hai capito quale fosse il suono più adatto per ogni singolo passaggio della tua espiazione musicale?
“Songs of Shame” è il primo album di Arctic Plateau in cui oltre ad essere autore dei testi e compositore delle musiche ricopro anche il ruolo di produttore. Da questo punto di vista è stato molto semplice per me rapportarmi a quel tipo di linguaggio perché il genere di dischi che hai citato mi hanno accompagnato sin da quando ero bambino. Avevo in mente questo suono già dalle pre produzioni quindi tutto è andato definendosi in modo molto naturale nel mio studio mentre realizzavo i missaggi dell’intera produzione. In particolar modo ho amato prendermela piuttosto comoda nel realizzare i bilanciamenti e gli spazi sonori senza avere la preoccupazione del calcolo sul tempo investito in studio, che era invece il dato che mi aveva infastidito di più per le precedenti sessioni di missaggio dei vecchi dischi. Questa libertà di produrre e modellare il suono che ho nella testa e soprattutto il poterlo fare liberamente ad ogni ora del giorno o della notte in uno studio di mia proprietà, mi rendono particolarmente felice e creativo e pur non essendo un fan di quei progetti musicali che sfornano un disco all’anno, mi aiutano a stare al passo con i tempi sull’ampliamento del repertorio discografico di Arctic Plateau. Tecnicamente a livello compositivo per questo album ho cercato di inserire elementi del post rock nella forma canzone o se vuoi puoi vedere questa sorta di “formula” viceversa. Volevo realizzare un disco di canzoni senza un fil rouge; uno dei ricordi più belli è di quando ho scritto il tema centrale di “Venezia” con una chitarra classica un pomeriggio di primavera di tanti anni fa mentre alloggiavo dalle parti del sestiere di Cannaregio… indimenticabile.

All’interno di questo tuo autodafé, questo tuo mettere in piazza i tuoi sentimenti, come si inseriscono gli altri musicisti coinvolti negli Arctic Plateau? Che ruolo hanno avuto?
Molti di loro appaiono nei miei dischi sin dagli esordi. Fabio Fraschini suona come turnista in studio con il sottoscritto sin dal 2006 e tutti sono amici miei oltre ad essere ottimi professionisti del settore. Per quanto mi riguarda sono abbastanza diretto, conosco bene e considero importanti le conflittualità che si trovano alla base della natura umana così come conosco i miei limiti, per cui non riesco ad interagire in studio e nei live con persone che non stimo a livello umano; al di là del lato tecnico sullo strumento quindi ho necessità di instaurare da subito un rapporto umano autentico con i turnisti che mi seguono, a partire dalla sala prove. Per questo e altro non è una cosa semplice per me suonare con altri che non siano loro.

Ti andrebbe di presentarli?
Oltre al già citato Fabio Fraschini che non ha certo bisogno di presentazioni c’è Massimiliano Chiapperi alla batteria, che considero un fenomeno. Molto metodico, molto preparato tecnicamente; affidare le parti di batteria in studio a lui significa avere un valore aggiunto sul suono finale. Live è preciso e puntuale. Simpatico, mai avido e molto estroso nella vita reale. Carlo Di Tore Tosti alla chitarra è un nuovo ingresso; nasce come bassista nel 2012 (suona il basso elettrico nel brano “The Bat”) e cresce come chitarrista in Arctic Plateau nel 2021. Carlo mette tutto se stesso nel progetto ed è il mio braccio destro sul palco. Nell’album “Songs of Shame” la metà delle chitarre sono state suonate in studio da Dario Vero, compositore moderno di grande talento e confidente con il quale in passato mi sono intrattenuto in piacevoli chiacchierate a base di musica classica. Ci terrei poi a precisare il ruolo di Andrea Sperduti dell’agenzia Area Design Agency di Roma che è il regista dei video dei singoli (“Song of Shame” e “Chlorine”) che accompagnano l’album e che ritengo sia un vero e proprio elemento di estensione del progetto Arctic Plateau perché in grado di trasformare le mie visioni in idee vere e proprie. Andrea, che è oltretutto il batterista dei Modern Stars, band Italiana che adoro (http://themodernstars.com/) ha creduto nelle mie idee sin da subito ed ha saputo interpretarle con generosa passione, dedizione ed intenzione.

Sinora abbiamo parlato di vergogna, ma vorrei ribaltare le cose chiedendoti: cosa ti rende orgoglioso?
La dignità nell’essere riuscito a crescere pur in mezzo a tante, spesso troppe difficoltà, senza provare più alcun sentimento di vergogna per le ingiustizie che ho dovuto affrontare durante il mio percorso artistico.

Siete riusciti a portare dal vivo “Songs of Shame”?
Il disco è stato presentato il 3 Dicembre 2021 a Roma e pur con le dovute limitazioni del covid il pubblico ha accolto molto bene questo terzo album in una location intima ed accogliente.

Avete delle date in programma o preferite aspettare tempi migliori?
Arctic Plateau nasce come progetto in studio; ogni data live è da prendere al volo….

You, Nothing – Due terzi rumore, un terzo pop


Gli You, Nothing sono un giovane quartetto con sonorità che oscillano tra lo shoegaze, il dream pop e il post punk che si sta ritagliando uno spazio di tutto rispetto nell’attuale panorama underground tricolore. Un notevole gusto pop per le melodie e un’aggressività chitarristica di matrice quasi punk, che può ricordare l’irruenza di pesi massimi quali Buzzcocks e Siouxsie and the Banshees. Anticipato dai singoli “Waves”, “Reflectie” e “Gazers”, “Lonely//Lovely” è il loro album d’esordio uscito il 7 Maggio per Floppy Dischi, Non Ti Seguo Records e Dotto.

Ciao ragazzi e complimenti per il vostro album, un esordio davvero maturo e dal respiro internazionale. Dalle note biografiche leggo che la band è nata nel 2019, ma come nascono gli You,Nothing?
Siamo nati tra settembre e ottobre 2019, grazie ad un annuncio su Facebook di Federico (chitarrista). Era da tempo che cercava componenti per un progetto con influenze shoegaze/post-punk/ambient , ma senza risultati, fino a quando Gioia, Giulia e per ultimo Nicola hanno risposto all’annuncio. Da lì siamo partiti a mille, ci siamo chiusi in sala prove e abbiamo iniziato subito a scrivere i pezzi dell’album.

Parlatemi un pò del processo creativo, come riuscite a coniugare l’urgenza punk che si avverte nei vostri brani con le melodie sognanti e assolutamente “catchy” che vi caratterizzano?
E’ sicuramente il risultato delle influenze musicali di ognuno di noi, che fuse in modo molto spontaneo, danno vita a brani a volte completamente diversi tra loro. E’ una caratteristica che vogliamo portare avanti nella nostra musica perché fa parte della nostra essenza.

Ultimamente si sta diffondendo qui da noi una notevole scena che guarda allo shoegaze e ai fasti degli anni ’90, che ne pensate? A volte si parla di revival anche se cosa non lo è nel rock and roll?
Si è vero, è un genere che a tratti torna a farsi sentire, ci sono ottime band italiane che ci piacciono molto che l’hanno riportato in voga, alla fine la musica è circolare e volenti o nolenti si viene contaminati dal passato, è inevitabile.

Ricordo un citazione – forse di Keith Richards – che diceva che l’album perfetto dovrebbe durare non più di mezz’ora, il vostro dura 25 minuti circa ma non manca nulla, avete fatto una scrematura o effettivamente sono i vostri primi brani?
Siamo assolutamente d’accordo con questa citazione, la scelta di inserire 8 brani per un totale di 25 minuti, non è stata casuale. Inizialmente pensavamo ad un Ep, ma dopo aver scritto un paio di pezzi in più che volevamo a tutti i costi inserire, abbiamo optato per l’ album in quanto 8 canzoni ci sembrano eccessive per un Ep.

L’album è stato anticipato da tre videoclip – “Waves”, “Gazers” e “Reflectie” molto evocativi, chi li ha realizzati?
“Waves” è stato il nostro primo video, realizzato sulla costa del lago di Garda a Brenzone, da Ilenia Arangiaro, che per noi ha realizzato anche l’artwork di “Lonely//Lovely” e il nostro primo set fotografico. Per secondo è uscito il video di “Reflectie”, che visto il periodo di zone rosse/arancioni e quindi l’impossibilità di trovarci, abbiamo girato in autonomia. Ognuno ha contribuito con brevi video girati con il cellulare ed infine sono stati accuratamente montati da Federico. Per ultimo “Gazers”, ideato e realizzato da Tobia Gaspari, presso il Colorificio Kroen di Verona. La caratteristica principale di questo video è la tecnica del Ghost Cut, ovvero l’illusione all’occhio dello spettatore, che la ripresa sia unica e continuativa, dall’inizio alla fine del video.

Cosa offre Verona dal punto di vista musicale? Ci sono realtà affini alla vostra?
Verona conta tantissimi musicisti, ma al contrario, troppi pochi posti dove esibirsi dal vivo per quanto riguarda la musica originale. Al momento, forse anche per colpa della sospensione dei live, non abbiamo ancora conosciuto nella nostra città progetti con influenze musicali simili alle nostre, ma in noi c’è grande speranza che anche a Verona possa nascere una scena che faccia rivivere a dovere questo genere.

In questo periodo poveri di eventi dal vivo voi fortunatamente avete partecipato al Verona Digital Music Fest e ad un live al Colorifico Kroen, com’è andata? Se non erro sono i vostri primi concerti..
E’ corretto, da quando ci siamo formati, abbiamo avuto la possibilità di esibirci dal vivo solo due volte, una al Colorificio Kroen con circa 100 persone sedute e distanziate, la seconda invece al Verona Digital Music Fest, senza un pubblico durante le registrazioni, e mandata poi in live su twitch. In entrambi i casi sono state esperienze pazzesche nonostante le varie restrizioni, anche perché quando noi quattro suoniamo insieme, che sia su un palco o in sala prove, siamo come immersi in un mondo parallelo tutto nostro, non importa chi e quanta gente ci sia intorno.

Come accade spesso, “Lonely//Lovely” uscito per ben tre etichette, è stata una vostra scelta?
In realtà eravamo abbastanza inesperti da questo punto di vista e non sapevamo neanche da dove partire, ancora meno che si potessero avere più etichette. Finite le registrazioni, abbiamo proposto il nostro album a qualche etichetta indipendente italiana per vedere il riscontro, e da lì abbiamo conosciuto Mirko di Floppy Dischi e Pietro di Non Ti Seguo Records che già hanno collaborato per varie realtà simili alle nostre e che si sono subito proposti per portare avanti il nostro progetto. Per ultimi si sono aggiunti anche i ragazzi di Dotto, con super entusiasmo. Più che scelta nostra, ci siamo fidati ciecamente di tutte queste persone che ci stanno aiutando a realizzare i nostri sogni e ci affiancano in questo percorso pieno di dubbi e scelte da prendere. Siamo molto grati di tutto questo.

Quali sono le band che vi hanno influenzato? Cosa state ascoltando in questo periodo?
Le band che più influenzano il nostro sound sono gli Slowdive, i Beach House (di cui è presente anche una cover sul nostro canale YouTube), i My Bloody Valentine, i DIIV e i Joy Division. Ultimamente invece, stiamo scoprendo e ascoltando un sacco di nuove band underground come i Westkust, Slow Crush, Whispering Sons e la cantautrice Fritz.

Cornea – Il suono di quello che non vedi

I Cornea sono un power trio proveniente da Padova dedito a sonorità ipnotiche, pesanti, decadenti ma allo stesso tempo oniriche ed introspettive. I sei brani che compongono l’album d’esordio “Apart” (2020 Jetglow Recordings / Doppio Clic Promotions) – tra chitarre shoegaze immerse nel riverbero e la pesantezza atmosferica tipica del doom – sintetizzano e fotografano il percorso artistico di una band in costante evoluzione. Ne abbiamo parlato con Nicola Mel, chitarrista e grafico della band.

Ciao Nicola e benvenuto su Il Raglio del Mulo. Parlami della genesi della band, provenite tutti da altri act con un passato discografico – Owl of Minerva e Dotzauer – ma come nasce il progetto Cornea?
Ciao Paolo, innanzi tutto grazie per questa intervista, speriamo possa contribuire alla diffusione del progetto Cornea! La band nasce nell’estate del 2015 da un mio desiderio di esplorare un genere più libero e slegato dai soliti cliché del rock, che mi permettesse di sperimentare e creare una musica più intimista, avvolgente, che ti prenda per mano accompagnandoti in un viaggio che mi piace definire “personale”. Ho sempre vissuto la musica come una colonna sonora di immagini e film nella mia testa, e con questo progetto volevo rendere bene l’idea creando un sound più “cinematico” che possa fare da colonna sonora alla vita dell’ascoltatore, o rimandarlo a particolari eventi vissuti in passato. Abbiamo passato non poche disavventure per definire una line up solida e soprattutto per fornire all’ascoltatore un prodotto pensato e sentito, che non fosse l’ennesimo disco post rock, e dopo quattro anni e più eccoci qui.

“Apart” il vostro disco d’esordio è uscito in piena pandemia mondiale, è stata una scelta obbligata o ben ponderata?
“Apart” era pronto per la sua uscita, sebbene con delle differenze e arrangiamenti diversi, alla fine del 2017. Purtroppo però abbiamo avuto la “sfortuna” dell’uscita di due membri dalla band (seconda chitarra e basso) poco prima della release, quindi abbiamo fermato tutto… non ce la sentivamo di far uscire un prodotto che non avrebbe rispecchiato la band dal vivo, non ci abbiamo visto un senso. Abbiamo passato tutto il 2018 alla ricerca di altri componenti, riarrangiato i pezzi per farli funzionare al minimo, cercando solo membri essenziali per tornare operativi e facendo un uso più pesante dei synth. Non ci andava di gettare “Apart” nel dimenticatoio (non si chiamava nemmeno così all’epoca, ma semplicemente “Cornea”) avevamo lavorato tanto a quei brani e sentivamo che significavano qualcosa per noi. Nel 2019 abbiamo completato la line up trovando Sebastiano al basso, è scoccata la scintilla per entrambe le parti, abbiamo lavorato con lui per integrarlo il più possibile nella band con il materiale già presente, lasciandogli spazio creativo senza obbligarlo a replicare le parti di basso precedentemente scritte, e in fine abbiamo registrato nuovamente tutto nella sua nuova forma… così è nato “Apart”. Poi è arrivata la pandemia di Covid19, il lockdown e tutto il resto… l’ennesimo ostacolo… ma non ci siamo fatti abbattere, è un disco che fa viaggiare e la gente era costretta in casa, l’abbiamo sentita come una vocazione, “Apart” doveva uscire… per liberare le persone, almeno virtualmente.

La vostra musica genera un flusso costante di emozioni, da cosa traete ispirazione? Quali sono le vostre band di riferimento?
Difficile dirlo. L’ispirazione viene dalle emozioni stesse, a volte da film mentali, come una febbre da smaltire, un demone da esorcizzare mettendo tutto quello che proviamo in musica. Stiamo anche ore a jammare insieme, cercando di andare in dimensioni alternative per poter portare indietro qualcosa per l’ascoltatore, siamo come tre sciamani. A livello di band non ci ispiriamo a nessuno direttamente anche se le influenze sono spesso chiare, ci paragonano ai classici God Is An Astronaut e This Will Destroy You, ma sebbene amiamo le suddette band, le nostre radici sono sicuramente nel rock psichedelico, Pink Floyd su tutti, ma anche Black Sabbath, Cure, Isis… il doom metal e lo shoegaze sono ingredienti che ci piace mescolare insieme per creare il nostro linguaggio, ma non siamo ne uno ne l’altro. A livello personale ognuno di noi ha influenze diverse.

Mostrare ciò che non si può vedere con gli occhi attraverso la musica è il vostro fine. Nella musica strumentale – soprattutto dal vivo – spesso per essere vissuta a pieno ci si serve di visual & di immagini, voi ci avete mai pensato?
Concordo con te, ma non è facile. In Italia le strutture e le situazioni dove le band emergenti possono esibirsi non hanno quasi mai la pazienza e la volontà di permettere alle band di preparare scenografia, luci e tutto il resto, spesso sono situazioni standard. In passato (ahimè quando si potevano ancora fare concerti) abbiamo giocato molto con luci sincronizzate e tanto fumo, ma spesso trovavamo resistenza da parte delle venue, solitamente vige l’idea di “sali, suona, scendi e non rompere le scatole”. Ci piace molto lavorare con i video, e ci stiamo attrezzando per offrire show sempre più immersivi, ma bisogna cercare di tenere il tutto molto “smart” e soprattutto trasportabile.

Il format power trio ha sempre avuto infinite possibilità, ultimamente sia in ambito stoner rock che post/rock e metal c’è un rifiorire di questo tipo di assetto, la vostra è stata una scelta casuale o magari logistica?
Come ti dicevo prima inizialmente eravamo in quattro, poi contro la nostra volontà siamo rimasti in due e al momento della ridefinizione della line up abbiamo voluto tenere le cose al minimo, l’essenziale diciamo. Con la formula del power trio sentiamo che ogni strumento ha il suo spazio e può portare un contributo più ampio, potendosi esprimere liberamente senza saturare oltremodo i brani. C’è più ordine… è anche più difficile però!

La grafica di copertina è favolosa, chi ve l’ha curata?
Ti ringrazio, l’ho creata io tramite A Spring Of Murder, il mio nickname per i miei lavori d’illustrazione. Il filo conduttore che domina “Apart” è la separazione, molte canzoni sono state scritte per esorcizzare adii, sentimenti di esclusione, dolore… ma tutto è così selvaggio, a tratti tribale, primordiale. A due creature innocenti viene impedito di stare insieme, tutto si separa, anche la carne, la vita, la corona separa il popolo, mentre la natura ci guarda silenziosa. Ogni cosa ha un significato, magari anche solo personale, però penso di essere riuscito a convogliare un sentimento di dolore e rinascita, la presenza dei fiori ha un motivo, nel folklore i ciclamini erano visti come una protezione dai malefici, tutto rifiorisce.

Ho notato nella vostra pagina Facebook un minitrailer dell’album, avete intenzione di pubblicare un videoclip prossimamente?
Ci piacerebbe molto. Stiamo creando tanti trailer e mini video, sfruttiamo l’inattività live per creare più contenuti possibile. Sui nostri social potete vedere delle “video pills” che stiamo creando per ogni brano del disco, immagini che aiutino a convogliare emozioni e stati d’animo parallelamente ai brani di “Apart”. Ci piacerebbe creare anche un video ufficiale di una canzone, stiamo ancora pensando se farlo con “Apart” o aspettare il nuovo materiale (in scrittura), vogliamo farlo bene evitando video banali, la pandemia non ci ha permesso di farlo in contemporanea con l’uscita del disco.

Sperando di potervi vedere presto dal vivo – immagino che il vostro show fosse pronto da tempo – avete pensato di proporre un live in streaming? Che ne pensate di questa modalità che sta prendendo piede?
Anche noi speriamo di tornare a suonare live al più presto, non vediamo l’ora che questa situazione di blocco finisca, tantissimi locali stanno chiudendo e tantissimi artisti rimangono congelati senza un’audience reale, è molto grave e deve finire al più presto. Per quanto riguarda live in streaming, ci abbiamo pensato e sarebbe molto bello organizzare qualcosa, non siamo molto pratici delle piattaforme streaming, siamo una band indipendente e facciamo praticamente tutto da soli. Per quanto riguarda le esibizioni live “alternative” mi piacerebbe cogliere l’occasione per promuovere il nostro ultimo progetto “The October Tapes”, ovvero un paio di canzoni registrate live in studio, sia audio che video. Il primo brano è già online da pochi giorni, in premiere sul canale di Where Post Rock Dwells, si intitola “Pink” ed è un brano inedito non presente in “Apart”. Siete tutti invitati a guardarlo, fateci sapere cosa ne pensate!