Moonin Down – Il terzo pianeta

Il cambio del nome per un gruppo è sempre una scelta difficile, da ponderare bene, perché in qualche modo cancella tutto quello che c’è stato prima e ti fa ricominciare da zero. Questo è capitato agli ex Blues so Bad, oggi Moonin Down, che grazie ad Argonauta Records sono arrivati a un variegato disco d’esordio dal titolo “The Third Planet”.

Benvenuti ragazzi, dal 23 febbraio è fuori per Argonauta Records, “The Third Planet”, il vostro esordio. Vi andrebbe di presentare la band ai nostri lettori?
Ciao, la band è un trio, chitarra, basso, batteria e tutti e tre cantiamo e facciamo cori; avendo timbri diversi, scegliamo quello più adatto alla canzone che non necessariamente è stata scritta da chi canta. Ci conosciamo da una vita ed abbiamo cominciato a suonare insieme la prima volta nel 1993. Abbiamo militato anche in altri progetti, ma l’alchimia che si forma tra noi non l’abbiamo mai sperimentata in altri progetti. Il territorio di incontro dei nostri diversi gusti musicali è la Psichedelia ed abbiamo cominciato da ragazzi a proporre un repertorio di cover di brani abbastanza sconosciuti, tipo “You Never Had It Better” degli Electric Prunes ed altri presenti nella raccolta Nuggets insieme ad” Interstellar Overdrive” dei Pink Floyd.

A un certo punto della vostra storia avete semplicemente cambiato il nome Blues so Bad nell’attuale oppure per voi tra i due progetti non ci sono punti in comune, e quindi con i Moonin Down è stato come ripartire da zero?
Abbiamo suonato insieme come Blues so Bad per molti anni, il nome non fu scelto da uno di noi ma da un ragazzo che fece qualche prova all’inizio come secondo chitarrista, l’idea che stava dietro al nome era rifarsi a brani che avessero la matrice blues, ma che avevano deviato verso un’impronta più sporca e cattiva, tipo Killing Floor o Stooges. Questo tipo di radici le abbiamo sempre mantenute e le si possono riconoscere anche nei brani più psichedelici. Nei 90 la facilità con cui riuscivamo a suonare live con quel nome e repertorio, ci ha un po’ viziato e fatto andare avanti negli anni, ma ad un certo punto, avendo cominciato a proporre i nostri brani originali, avere un così chiaro riferimento al blues nel nome della band è diventato un’ostacolo perché chi poteva apprezzare la nostra musica si fermava alla parola blues, e chi invece voleva il blues non lo trovava! Dopo un periodo di stacco dai live e dedicato a comporre nuova musica, abbiamo deciso di ripartire quasi da zero con un progetto nuovo a nome Moonin Down dove è confluita tutta l’esperienza precedente e che ora ci rappresenta a pieno.

Vi presentate con una formazione a tre, oggi sempre più frequente: pro e contro dei power trio?
Possiamo dire di comune accordo che ci sono solo pro! E il fatto di essere in accordo è uno dei pro, più elementi ci sono, più difficile è andare d’accordo. Vogliamo parlare anche dei costi per gli spostamenti e delle laute ricompense che spettano alle band di cinque o più persone?

Con Argonauta Records come siete entrati in contatto?
Conoscevamo ed apprezzavamo il lavoro che svolge Argonauta ed era fra le tre etichette a cui ci eravamo prefissati di arrivare a stalkerizzare per farci rispondere! In realtà, per loro fortuna, hanno risposto subito.

Ascoltando il disco mi sono venuti in mente i Canned Heat, i Love e gli Zombies, solo per citare alcuni nomi. Galleggiate tra generi diversi, ma che si rifanno comunque a una certa epoca storica, come mai questa volontà di guardare indietro?
In questo periodo abbiamo diversi feedback ed è divertente leggere come si riescano a trovare dei riferimenti ascoltando la nostra musica, è molto gratificante. Essendo divoratori di musica da molti lustri, penso che sia fisiologico che l’inconscio restituisca in maniera random gli elementi
depositati, non c’è una volontà di guardare indietro, è più un averlo con sé nel presente, proiettati al futuro. Come abbiamo sintetizzato nei nostri comunicati stampa, ci siamo sempre nutriti di psichedelia, garage, hard blues, desert rock, e il risultato è un suono non stereotipato che chiamiamo psicHARDelic rock.

Immagino, che il titolo del disco sia un tributo ad Hendrix, no?
Veramente no, non ci avevamo pensato, ma la tua domanda ci fa ricordare che nei primi anni come Blues so Bad nelle improvvisazioni che facevamo durante i nostri lunghi concerti di oltre tre ore spesso saltava fuori “Third Stone from the Sun”! Il titolo e la copertina di “The Third Planet” si allaccia alla omonima canzone che rappresenta un Pianeta Terra ormai inospitale, desertico e tossico. La presa di coscienza dei nostri drammatici tempi che mettono a rischio la sopravvivenza del bel pianeta verde e blu e dell’umanità, hanno ispirato una visione distopica del futuro. Nel brano si descrive la condizione di un piccolo gruppo di umani che sfuggito alla catastrofe viaggia fra i pianeti per raggiungere un porto sicuro. Il parallelo è con il “Resto d’Israele” narrato dal Profeta Isaia; per quanto grande e traumatica sia la catastrofe, rimane un residuo di superstiti da cui può sorgere la speranza.

Passiamo alla composizione dei brani, sono frutto di jam oppure sono nati con un processo più “controllato”?
La varietà dei nostri brani probabilmente deriva anche dalle diverse modalità con cui nascono, può essere da una jam, da una frase che si impone alla mente e porta con sé un ritmo o una melodia, oppure un argomento con allegato il suo mood emotivo. L’inizio dell’album è una registrazione fatta con il telefono a Stefano che era arrivato in anticipo allo studio e provava la
chitarra, sentire quel suono ripetuto in lontananza e poi sempre più vicino, ha ispirato “Bones”.

I due singoli pubblicati sinora sono “Dark Sky” e “Bones”, ritenete che siano sufficienti come biglietto da visita oppure “The Third Planet” è un disco necessariamente da ascoltare alla vecchia maniera, per intero?
Non sono assolutamente sufficienti e neanche l’ascolto dell’intero album lo è, siamo già oltre, nei live che faremo di promozione suoniamo già sei brani nuovi! Per noi essere musicisti trova il suo compimento nei live, il nostro biglietto da visita è quello.

Allora, chiudiamo con la più canonica domanda: dove vi vedremo in giro, per la promozione del disco, nelle prossime settimane?
Si, è la nostra volontà, per ovviare alle difficoltà di trovare sufficienti locali per esibirci, organizzeremo anche degli eventi con altre band di Argonauta e non. Siamo dell’idea di fare rete e creare spazi ed occasioni per proporre la musica originale, con il tempo forse anche i locali che propongono solo tribute band torneranno a dare possibilità alla musica che nasce e si sviluppa sotto gli occhi e le orecchie del pubblico, è come guardare la lava che fuoriesce dalle fessure della terra, come sta succedendo questi giorni in Islanda.

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