Iscuron – Frammenti di infelicità

Quantità e qualità certe volte possono coesistere senza esse una l’opposta dell’latra. Questo accade con la one-man black metal band Iscuron, capace di aprire (con “The Nothing Has Defeated Atreyu”) e chiudere (con “The Pursuit of Unhappiness”) l’anno con ben due dischi, entrambi di ottima fattura.

Ciao Iscuron, hai iniziato e finito il 2021 rilasciando due album, è stata una scelta pianificata oppure si è trattato di un caso?
Un caso. Per varie ragioni di post-produzione, è passato un po’ di tempo da quando ho ultimato la produzione del primo album a quando l’ho effettivamente pubblicato. In quel lasso di tempo stavo già componendo le canzoni del nuovo album. In generale non mi do alcun tipo di obiettivo in termini temporali e non ho strategie, è un’attività no-profit nel senso letterale del termine: quando ritengo che un album sia pronto, semplicemente lo pubblico. Non suonando dal vivo e facendo tutto da solo, le tempistiche sono inoltre molto compatte: oggi, a due settimane dall’uscita del nuovo album, sto già lavorando ad alcuni riff dell’album successivo.

Credi che sia possibile riscontrare delle differenze o, addirittura, un’evoluzione tra “The Nothing Has Defeated Atreyu” e  “The Pursuit of Unhappiness”?
L’obiettivo auto-imposto per “The Pursuit of Unhappiness” è stato quello di migliorare alcuni aspetti specifici del primo album, non ho pianificato una ricerca di evoluzione generale. Ho proattivamente ricercato un drumming migliore ed una maggiore presenza delle chitarre. Ascoltato il lavoro ultimato in realtà ho anche osservato un miglioramento nella struttura delle canzoni: mi sembrano più varie e meglio strutturate. Credo che, a meno che ci si auto-imponga programmaticamente di non cambiare una virgola, una certa dose di evoluzione tra un album e l’altro avvenga inevitabilmente, addirittura inconsapevolmente.

Entrambi i titoli dei tuoi dischi sono persuasi da un velo di malinconia, se non di fatalismo: non c’è nessuna speranza per l’uomo?
Di tanto in tanto devo curare la depressione e in generale ho una personalità depressiva anche quando “sto bene”.  Consapevole del condizionamento di questo sulla visione che ho di me stesso e dell’umanità, mi ritengo una persona molto lucida. Quello che osservo mi porta a ritenere la direzione generale attualmente scelta dall’umanità come latrice di infelicità per la maggioranza. In verità io auspico per me stesso e per la collettività una ricerca della felicità coronata da successo, auspicare il contrario sarebbe probabilmente contro la stessa natura umana. Temo tuttavia che non saranno le generazioni attualmente in vita a godere degli effetti di un eventuale cambio di direzione che, peraltro, ancora non intravedo nemmeno nelle intenzioni. Quindi sono pessimista più che fatalista.

In questo contesto l’arte in generale e i tuoi dischi in particolare quale funzione hanno?
Esprimere con un linguaggio atmosferico, metaforico e visuale quello che un linguaggio comunicativo diretto non potrebbe esprimere altrettanto efficacemente e immediatamente. Per chi vede le cose come me credo ci siano mix di sensazioni, atmosfere, sentimenti che senza un linguaggio comunicativo artistico sia quasi impossibile comunicare nel loro insieme in un unico output e in tempistiche comunicative “immediate”. La musica o un quadro, ad esempio, lo possono fare. Un linguaggio scritto o parlato, come un libro ad esempio, lo possono fare, ma servono tempistiche più lunghe per assimilare il messaggio nel suo insieme. Chi ha sofferto di depressione, ironicamente io direi chi ha la sfortuna di percepire le cose come sono davvero, credo condivida con me la difficoltà a descrivere le proprie sensazioni se non come un mix di componenti difficile da dipanare.

Hai scelto una forma di black metal che unisce anche alla base estrema la musica sinfonica e quella medievale. Cosa ti attira della musica del passato e perché credi che questa si sposi bene con un genere estremo come il black?
Dal mio punto di vista la musica è principalmente la creazione condivisibile di un’atmosfera, la vedo come un’esperienza atemporale. Io cerco sempre di utilizzare qualunque “ingrediente” musicale (strumenti, melodie, arrangiamenti) che ritengo possano contribuire a creare l’atmosfera che ho in mente. Siano tali ingredienti attinti dal metal, dalla musica classica, folk o addirittura elettronica, di qualunque epoca. Il mio obiettivo è il risultato atmosferico complessivo a tutti i costi. Il black metal per me si presta a contenere diversi elementi proprio in quanto atmosfericamente estremo, potenzialmente si può sposare bene con qualunque cosa se c’è un’intenzione atmosferica ben armonizzata. A rischio di risultare “blasfemo” credo che il black sia indiscutibilmente nato dal rock e dal metal ma che se ne sia poi distaccato, è un genere a sé stante, un contenitore atmosferico. Io ascolto praticamente solo black metal da ormai oltre 25 anni, ma non mi sento parte di un ambiente “rock”, anzi tale ambiente addirittura è arrivato ad infastidirmi.

Iscuron è una one man band, quanto è difficile per una persona sola creare una musica così ricca di sfaccettature?
La difficoltà principale è che per una persona sola (o quantomeno per me in particolare) è impegnativo eccellere in ciascuna delle componenti. Di conseguenza è necessario operare delle scelte ed investire nell’apprendimento e nel miglioramento di componenti specifiche per ogni album. Il miglioramento complessivo richiede quindi tempo e procede passo a passo. Si vive quindi in una condizione di insoddisfazione permanente e serve pazienza verso sé stessi. Al momento la mia lista di cose da migliorare è lunga ma non include, intenzionalmente, la produzione. Potrei permettermi di esternalizzare mix e master a persone più competenti di me, ma mi sembrerebbe come ritoccare con Photoshop una foto o un dipinto. Scelta lecita, ma non la mia scelta.

I brani del nuovo disco sono collegati da un concept o comunque da un filo comune?
Non nelle mie intenzioni per questi primi due album. Musicalmente per me ogni canzone è stata un viaggio atmosferico a sé stante. Forse i testi possono involontariamente risultare più collegati tra loro in quanto, seppur trattandosi di metafore in ambientazione fantasy, riflettono la mia visione delle cose. Ed essa che va al di là della mia volontà.

Mi soffermerei su “Europa”, un titolo che si discosta dagli altri: di che parla questa canzone?
Sarò di parte, ma ritengo che il mix di natura, architettura, cultura, arte e fascino in generale che c’è in Europa è unico al mondo e i flussi turistici lo dimostrano oggettivamente. In questa canzone espongo il mio punto di vista sul motivo: l’eterno conflitto tra i diversi popoli che caratterizza la storia di questo continente. In forme e modalità differenti a seconda dell’epoca storica in Europa c’è una guerra costante. Proprio questo eterno conflitto secondo me genera bellezza. Al contrario l’armonia, soprattutto se artefatta o addirittura ipocrita, genera staticità e declino. Spero il conflitto non si plachi.

Possiamo aspettarci a breve un altro disco oppure dopo la doppietta in un anno ti fermerai per una pausa creativa?
Non mi pongo alcun obiettivo e non faccio previsioni di tipo temporale, posso dire che sto già cominciando a comporre nuove canzoni. La parte creativo-compositiva, tra le tante cose da fare in un progetto solista, è la mia parte preferita e quindi mi aspetta comunque un periodo piacevole.

Nerascesi – La sorgente del vuoto

I Bastard Saints, dopo una serie di pubblicazioni, arrivarono nel 2012 all’agognato primo album, però “The Shape of My Will”, invece di dare il via a una proficua carriera, si rivelò il canto del cigno dei lombardi. Dalle ceneri di quella formazione, sono nati i Nerascesi, autori dell’ottimo esordio omonimo pubblicato dalla Iron, Blood and Death Corporation \ Grand Sounds Promotion. Dopo aver raccolto l’entusiasmo dei due Andrea (Marino e Serrao), siamo certi che “Nerascesi” si rivelerà il primo passo di una lunga e prolifica carriera.

Ciao ragazzi, i Nerascesi nascono dalle ceneri dei Bastard Saints, storico gruppo attivo dal 1997. Come mai quella avventura è finita?
Andrea Marino: L’avventura è finita perché volevamo trasformare in qualcos’altro l’esperienza della band. Volevamo rendere più cupe e dirette le tematiche proposte con Bastard Saints. Il nostro approccio alla musica che proponiamo si è fatto altro rispetto al passato e ci sembrava giusto lasciare il nome Bastard Saints. Abbiamo suonato e conosciuto molte persone durante l’attività del gruppo. Abbiamo conosciuto anche altre persone. Per esempio Sean che non ha militato nei Bastard Saints ha estremizzato di più tutte queste tematiche e reso il nostro sound più tetro e di pesante. Necessitava un altro nome.

Cosa vi ha spinto a iniziare da zero come Nerascesi?
Andrea Serrao: Nerascesi ha rappresentato indubbiamente un nuovo inizio, pur volendo mantenere una continuità in termini di intenti. Sicuramente ci siamo resi tutti conto del fatto che qualcosa fosse cambiato nel nostro modo di intendere la musica estrema, ma anche nelle finalità per le quali suonare e il nostro rapporto con la scena musicale. Personalmente diverse attività mi hanno allontanato nel corso degli anni dall’ambiente musicale, passioni e attività lavorative differenti, pur mantenendo un legame fortissimo con la musica e la voglia di farne di nuova. Nonostante questo è chiaro che non essendo più integrato in un contesto cambiano le influenze e le motivazioni, portandoti a voler sperimentare cose diverse: venendo meno un certo scambio comunicativo e maturando le idee in maniera isolata, per così dire, per forza cerchi un linguaggio tutto tuo, facendo un percorso indubbiamente più personale: è una strada che stiamo percorrendo con tutta la tranquillità del mondo, senza stress o missioni da portare a termine.

Cosa vi portare dietro di quella esperienza e cosa, invece, avete tagliato definitivamente del vostro passato?
AM: Non abbiamo tagliato nulla da passato. Sempre stati fieri di quello che abbiamo fatto e come l’abbiamo fatto. Ci portiamo dietro bellissimi anni di live underground e corrispondenza sparsa in giro per il mondo.
AS: Purtroppo nei Bastard Saints ho passato davvero poco tempo, essendo stato l’ultimo membro ad essere integrato nel gruppo nell’ottobre del 2012, per poi chiudere il capitolo assieme al resto della ciurma nel marzo 2015. Siamo amici da una vita a prescindere dalla strada condivisa a livello artistico, persone che mi sono sempre state a fianco anche quando ero in altre band, spesso condividendo il palco assieme. Loro come tutti gli amici di altre formazioni con i quali ci sentiamo ancora e passiamo del tempo assieme. Non tagliamo nulla, teniamo tutto, ne vale davvero la pena!

“Nerascesi” è il vostro disco d’esordio, è un metal estremo old school che pesca dal death e dal black delle origini. Avete una predilezione particolare per uno di questi generi o vorreste che le due componenti fossero ben bilanciate tra loro?
AM: Non facciamo troppi bilanci in fase di composizione. Quello che dici è corretto perchè sono i generi che seguiamo in modo particolare e da più tempo. Inoltre sono i più adatti a proporre le nostre tematiche oltre il fatto che da suonare sia in sala prova che dal vivo sono i genere migliori al mondo.
AS: Nessuna preferenza. In ambito estremo penso di aver suonato praticamente di tutto e mai nella sua forma più pura. Continueremo nel nostro percorso di ricerca personale di un suono che sia 100% Nerascesi senza decidere delle coordinate stilistiche ereditate dai nostri ascolti passati o presenti. Certo, questo disco ha dei riferimenti palesi ad alcuni dei nostri gusti musicali, ma c’è da tener conto che è la sintesi di periodi molto differenti, ognuno con le sue influenze ed interessi.

Quanto “Nerascesi” si avvicina all’idea di sound che avete in mente quando avete fondato il gruppo?
AM: Credo che trovare il sound perfetto sia una cosa che non si esaurirà mai. Siamo sempre felici di trovare qualche suono nuovo o particolare. Sta di fatto che questo disco è proprio come lo volevamo e come l’abbiamo concepito. Nonostante i pezzi sono stati composti nell’arco di molti anni siamo riusciti a fondere tutto in un unico contenitore che trasmettesse quel lato macabro e onirico della vita.
AS: Il primo criterio in base al quale abbiamo pensato ad un suono tutto nostro è stato “riff con meno note per cortesia, non abbiamo più l’età e la testa per ricordarcele tutte”.

I pezzi sono stati scritti per “Nerascesi” o alcuni erano già stati composti e mai registrati per altri progetti precedenti?
AM: Come dicevo ci sono un sacco di riffs che arrivano dal passato. Pezzi che non sono mai stati registrati oppure che non sono mai stati finiti. I membri di Nerascesi si conoscono da più di vent’anni ormai e in questo periodo abbiamo collaborato ad altri progetti e in qualche modo suonato assieme. Diciamo che questo disco ha avuto la capacità di sintetizzare parte di questi anni.
AS: Ci sono alcuni riff che risalgono al 2001, per la precisione quelli delle prime due tracce, “Le Sorgenti del Vuoto” e “Diluvio e Benedizione”. Gente che li ha suonati con me in vent’anni fa scoppierà a ridere quando li sentirà (o a piangere, dipende). “Ancora ‘sta roba?!?”. Sì, ma parecchio rivista e resa più diretta e primitiva. Sean ha dato una bella spinta a tutto e un contributo enorme: nonostante sia quello con le bacchette in mano, è stata la persona che ha composto una percentuale davvero consistente del materiale che senti nel disco.

State esordendo in un periodo in cui l’attività live è fortemente condizionata dall’emergenza sanitaria che stiamo vivendo, non temete che l’impossibilità di poter portare in giro il disco potrebbe in qualche modo minare la crescita di popolarità della band?
AM: Non ci interessa la popolarità. Ci interessa arrivare a chi piace questa musica fino al midollo. A chi è fatto per queste tematiche e a chi ci si riconosce in tutto questo. Tutte queste persone sono archeologi e ci trovano anche senza live. Poi il live è un qualcosa in più all’esperienza solitaria dell’ascolto. Quest’ultima l’ho sempre prediletta al fine di fare mio un disco e un messaggio. Il live rende solo questo messaggio terreno e possibile.
AS: Le poche volte che abbiamo suonato dal vivo abbiamo fortunatamente raccolto dei buonissimi frutti: chi ci ha visto è sempre rimasto ben impressionato. La cosa mi fa piacere e non nego che in passato per me aveva un bel peso: insomma dai, ci sta, i complimenti non sono tutto nella vita di un gruppo, ma ogni tanto un po’ di concime per nutrire le piantine ci vuole. Ora come ora mi farebbe piacere rimettere piedi su un palco, ma non lo considero così indispensabile: la cosa che più mi diverte è sperimentare nuove soluzioni con i miei compagni di gruppo in sala prove, e uscire da questa vedendo tutti appagati dalla sessione di scrittura dei brani. Andare avanti, in questo momento non fermarsi è tutto.

In questo momento storico quanto diventano importanti le piattaforme digitali e i social per la crescita di un gruppo?
AM: In questo momento i social sono molto utili. Rimangono solo uno strumento però. Secondo la mia visione non apportano nulla in più. Facilitano la comunicazione e velocizzano i processi legati alla tua musica. Se non si fanno andare le mani rimangano bytes in un server.
AS: Permettono alle persone di conoscere nuovi artisti senza comprare dischi a scatola chiusa. Dici poco? Il loro utilizzo però va dosato: vedo tante band pubblicare anche le volte che vanno al cesso tra una ripresa in studio e l’altra, mentre sarebbe il caso di permettere alle persone di focalizzarsi sull’essenziale: va bene far sapere che sei al lavoro, ma la musica non deve essere il contorno, anzi. Pensa ai Deathspell Omega: una formazione apprezzatissima, matura, molto conosciuta dagli amanti del genere, eppure mi pare che non abbiano tutta questa attività sui social media in ballo. In tal senso il loro esempio risponde perfettamente alla tua domanda.

Chiudo l’intervista tornando al punto di partenza: i Bastard Sainsts pur avendo avuto una carriera pluridecennale alla fine, a fronte di molti split, hanno pubblicato solo un full-length nel 2021. Con I Nerascesi punterete a dare una maggiore continuità alle vostre uscite oppure non forzerete la mano pubblicando solo come e quando vorrete?
AM: L’idea di continuare per molti anni a comporre dischi e suonare dal vivo è sempre il nostro obiettivo. Bastard Saints come Nerascesi sono creature che possono fermarsi e diventare altro anche distanza di anni. Quando si forma un alchimia con delle persone attorno a delle note e un messaggio tutto è possibile. Vedo tutto come della brace che può sempre prendere fuoco da un momento all’altro.
AS: Sicuramente l’importante è pubblicare qualcosa di cui sei veramente convinto. Ho sempre pensato fosse preferibile una discografia contenuta e un contenuto numero di esibizioni di qualità a un’attività musicale con ritmi da catena di montaggio. Sulla quantità è innegabile che il tuo lavoro ne risenta. Non faremo né troppo, né poco: uscirà quello che è giusto esca e suoneremo in un altrettanto sensato numero di concerti.

EvilSpell – Padre vostro

Abbiamo contattato Filo e Paul degli EvilSpell per discutere del nuovo album dei milanesi, “Padre Vostro” (Blasphemous Records / Grand Sounds Promotion), un rumoroso e violento attacco frontale alla morale benpensante.

Benvenuti ragazzi, per una band old school come la vostra quanto conta il trascorrere del tempo? Ve lo chiedo perché tra le vostre ultime due uscite passano ben sette anni, ma per chi come voi non va dietro le mode del momento, una lunga pausa non dovrebbe aver creato grossi scompensi, no?
Ciao, che dire hai già detto tutto te… Eheheh, non seguiamo le mode, non abbiamo fretta di fare mille uscite, non ci interessa seguire le correnti. Effettivamente guardando il panorama metal underground molte band nate domani fanno già live, pagine social, viuuus ecc ecc ecc noi, da sempre molto tarallucci e vino, abbiamo aspettato che fossimo pronti non il momento prepuzio…

Quando avete ripreso a provare, i nuovi brani sono venuti fuori in modo spontaneo e semplice, oppure è stato complicato rimettere in moto la macchina?
Intendi ripreso a suonare per pause dettate dal covid? Beh, non ci ha scalfito avendo fortunatamente il nostro bunker dove poter chiuderci a emanare rumori molesti. Più che altro, ora con l’uscita di “Padre Vostro” siam un attimo più vecchi, stanchi e pigri… Ci stiamo allenando per poter dare un live degno di noi…

Alcune delle canzoni preesistevano o sono state tutte scritte per “Padre Vostro”?
Dopo “Necrology” tutto ciò che abbiamo prodotto è dentro “Padre Vostro”.

Quali sono i brani più rappresentativi del disco?
Non sapremmo che dire, ciò che è rappresentativo per uno di noi magari non lo è per un altro… Ogni canzone ha la sua storia, la sua vita. Ci siamo trovati in questa posizione di scelta quando la Blasphemous Record ci ha chiesto quale canzone usare come “singolo”, tutte non potevamo metterle e abbiamo deciso “Masonic Scum”. Dopo una riunione molto accurata di noi quattro (praticamente il tempo di due birre e pessime decisioni) abbiamo optato per lei… Ma solo per scelta obbligata.

Tornate con album che ha un titolo in italiano per la prima volta, ma comunque avete preferito, come sempre, l’inglese alla nostra lingua nei testi. Come mai?
Musicalmente l’inglese è molto più musicale, passateci il termine. Per ora a livello di liriche abbiamo tenuto la lingua della Regina, anche se alcuni ritornelli e il titolo in italiano danno quel tocco di grezzo, ignorante e voglia di fare come piace a noi. Fregandocene di ciò che pensano gli altri…

“Padre Vostro” dà l’idea di una volontà di staccarsi dalla massa, una sorta di “non siamo figli dello stesso padre, non siamo come voi”. Va inteso così il titolo?
Bravo, preciso così. Non ci uniformeremo mai al gregge, se una cosa vogliamo farla la facciamo, punto. Sia essa scelta religiosa, politica, musicale, ecc ecc… Sempre per la nostra strada, anzi più ci dite che non va bene, che non si fa così, noi carichiamo a testa bassa ancora di più la mano. “Padre Vostro” appunto va a metter subito in chiaro che siamo liberi da qualsiasi vincolo: i vincoli vostri teneteveli per voi.

Il disco uscirà per la Blasphemous Records, in formato digitale e fisico, e sarà distribuito in modo capillare in tutto il mondo. Per una band old school come la vostra, che valore ha il prodotto in digitale?
Per rispondere a questa domanda farei un passo indietro, cioè guardare come va il mondo: ok, non abbiamo più 20 anni quando, nell’rodine, vinili, cassette e CD, erano la normalità. Ora c’è il digitale, lo streaming, il cloud, e volente o nolente bisogna ammettere che è comodo. Ovviamente, vinili, cassette e CD nel 2021 suonano come prodotti nostalgici e da collezione. Beh, per molti è così, per altri no. Abbiamo scelto il doppio formato (CD e digitale), perché noi usiamo quelli. Forse più avanti faremo anche cassette e vinili e, perché no ,incisioni rupestri… Saranno da collezione? Saranno da nerd? Chissene’, se vogliamo farlo, lo faremo. E come sempre, mai per moda…

La copertina è folle, chi l’ha disegnata?
Eheheh, bella vero? Disegnata da Dp Art, dopo qualche giornata insieme a Filo, che portava tutte le idee, abbiamo partorito questa bella minestra di blasfemia… Non sarà la classica copertina ma un’idea nostra, che (come sempre) non passa da ciò che è moda. Darà fastidio? Meglio!

Vi state organizzando per un’eventuale promozione dal vivo del disco oppure preferite aspettare di capire come si evolveranno le cose dal punto di vista sanitario?
Per ora abbiamo solo la data di presentazione del disco. Abbiamo giusto due cose da sistemare in famiglia Evil e poi faremo di tutto per farci qualche tournée. Son due anni che siamo con il culo sul divano e aspettiamo di uscire. Non ce lo faranno fare? Amen, lo faremo lo stesso!




Underball – The worst is yet to cum

Sotto la patina esteriore (ma non domandiamoci di che sostanza sia), gli Underball sono un gruppo impegnato. Impegnato a fare casino e a divertirsi, ma anche a divertirci, e “The Worst Is Yet To Cum” è il loro manifesto.

Ciao Carlo (Zorro, chitarra) dal 16 luglio è fuori il vostro primo album, “The Worst Is Yet To Cum”, come avete fatto a trattenere l’orgasmo sino a quel momento?
Considerando la lentezza per rispondere a questa intervista, direi che sicuramente non abbiamo avuto problemi nel trattenere l’orgasmo. Il concerto del 16 è stato un bel momento, soprattutto considerando che eravamo fermi da parecchio tempo. È stato bello presentare la nostra “ultima fatica”…. un po’ come quando sei un po’ costipato, ma alla fine riesci a farla uscire… dopo mesi.

Il disco presenta una copertina dai contenuti forti, una metafora dei tempi che viviamo?
Diciamo che se fosse una metafora della vita, sarebbe davvero una vita di merda. Di base volevamo una copertina che si distaccasse il più possibile dal classico album metal o hardcore. Abbiamo cercato di visualizzare il titolo del disco e il mood degli Underball con questo concetto visivo: è fico, è fatto bene, fa pure ridere ma, alla fine, comunque fa schifo. E’ lo specchio della nostra anima.

Non c’è stato bisogno di scomodare mio cugino, psicologo disoccupato, per capire che siete ossessionati dal sesso? Pubertà complicata?
Tuo cugino psicologo credo che cambierebbe lavoro dopo la seduta. Fondamentalmente di che vuoi parlare? La politica è di quelli impegnati o dei giornali, satana è dei metallari, il macismo e le gare a chi ce l’ha più lungo sono per l’hip hop, l’amore e l’introspezione sono per X-Factor… rimanevano solo la cacca e il sesso. Dimentichiamo qualcosa, per caso?

Scherzi a parte, non temete che questa vostra ironia alla fine possa far perdere un po’ di vista i contenuti musicali?
Effettivamente potrebbe essere un’arma a doppio taglio. Però se cominci sempre a pianificare con l’obbiettivo di fare qualcosa che piaccia alla gente che cosa lo fai a fare er metal? Tanto valeva imparare a pronunciare male l’italiano, effettare la voce con l’autotune e piegarsi a novanta col culo ben aperto.

Sia musicalmente che esteticamente mi sembrate affascinati dagli anni 80, cosa avete preso di buono da quel periodo e cosa vi avete aggiunto di vostro?
Esteticamente può sembrare: metterci gli spandex ci è sembrato un modo accettabile per metterci in ridicolo più di quanto non faccia già l’alcool. Musicalmente in realtà c’è anche molto degli anni 70; sicuramente la parte hard rock e il glam vengono da lì. Non a caso abbiamo fatto anche la cover di “20th Century Boy” dei T-Rex (la trovate sul nostro canale youtubbbbo).

I pezzi di “The Worst Is Yet To Cum” sono diretti e senza fronzoli, sono nati in modo spontaneo o sono il frutto di numerose prove di affinamento?
Il songwriting è sempre stato abbastanza fluido ed immediato, salvo dover tenere a bada certi eccessi artistici. Tipo Pekkia che non vorrebbe scendere sotto i 300bpm o SexLex che si ispira a Whitney Houston.

Il primo singolo ha un titolo, “John Von Love”, che fa pensare che dietro ci sia una storia di vita vissuta. Chi è il protagonista del brano?
In tutte le canzoni c’è sempre qualcosa di vero. Ogni brano racconta di esperienze vissute dai membri (intesi come organi) della band. Ma differenza degli altri, “John Von Lovers” è nato in America, più precisamente a Tampax (Florida), sei è trasferito in Italia nel 2014, quindi non sappiamo tutto di lui… per fortuna.

Immagino che “Dwarfs” si inserisca nel solco della tradizione lirica di un certo power italiano…
’n che senso? (detto alla Verdone). Guarda alla fine è facile: a Zorro piacciono gli AC/DC > gli AC/DC sono nani > visto che siamo deviati il protagonista è un clitoride > il suddetto clitoride è talmente grosso che pare il cazzo di un nano. Facile no?

L’Italia pare che stia aprendo nuovamente ai concerti, siete pronto a darle il colpo di grazia dopo due anni difficili andando in tour?
Considerando i due mesi trascorsi per rispondere a questa intervista ti farà piacere sapere che abbiamo già ripreso. Abbiamo ricominciato solo con il Lazio ma a breve usciranno date nel resto d’Italia e, incrociando le dita e non i flussi, anche in Europa.

Veil of Conspiracy – Ai margini del buio

I Veil of Conspiracy tornano alla carica dopo un paio d’anni dall’esordio, “Me, Us and Them”, con una line-up parzialmente modificata e uno spirito oscuro e malinconico che ha le proprie fondamenta nel doom anni 90. Luca ed Emanuela ci hanno parlato di “Echoes Of Winter”, disco pubblicato dalla BadMoodMan Music \ Grand Sounds Promotion lo scorso fine agosto.

Benvenuti su Il Raglio, vi avevamo lasciato con “Me, Us and Them”, disco d’esordio uscito nel 2019. Sono passati solo due anni, ma di cose ne sono accadute sia a livello globale, basti pensare alla pandemia, che in seno alla band, dove ci sono stati alcuni cambiamenti di line-up. Vi andrebbe di ricostruire il periodo a cavallo far i due album?
Il periodo a cavallo fra i due album non è stato proprio dei migliori, sia – come hai giustamente sottolineato – a causa della pandemia che si è purtroppo scatenata a livello mondiale, che per via di alcune vicissitudini interne alla band che ne hanno modificato la line-up. Nonostante ciò, questa pausa forzata dettata dalla pandemia ci ha permesso di dar vita ad un lavoro profondamente sentito, quale è “Echoes of Winter”, e di accogliere all’interno del gruppo un musicista che stimiamo moltissimo, cioè Alessandro Sforza.

Credete che questi cambi di formazione abbiano inciso sui contenuti del nuovo album o tutto sommato il nucleo compositivo della band è rimasto immutato e con esso anche il vostro sound?
Il nucleo compositivo della band è rimasto invariato, ma ovviamente l’entrata di Alex in formazione ha permesso di sviluppare al meglio molte delle idee che non riuscivamo ad esprimere totalmente e al meglio in precedenza, con quelli che sono stati gli ex membri della band. Alex è stata per i Veil of Conspiracy una vera e propria ventata d’aria fresca.

Oggi più che mai avete i piedi ben piantati nella scena doom anni 90, cosa vi affascina di quel movimento?
Innanzitutto, le atmosfere che il doom riesce a creare e le sensazioni che evoca nell’ascoltatore. È uno stile musicale che permette di attuare una molteplicità di soluzioni musicali e melodiche quasi infinite.

Mentre quali sono le variazioni personali che avete apportato rispetto alla lezioni di quei maestri dei 90?
Più che variare, ci riesce naturale collegare alcuni momenti delle nostre composizioni a generi che esulano un po’ dal doom vero e proprio, come ad esempio il black metal di stampo norvegese.

Tra i nuovi membri mi avete citato Alex, già attivo con gli Invernoir, band con la quale condividerete il palco in occasione del release party di “Echoes of Winter”. Mi dareste più dettagli dell’evento?
Per noi sarà una grande emozione tornare a suonare dal vivo dopo tutto questo tempo dovuto allo stop causa pandemia, d’altronde manchiamo dal palco ormai dal dicembre 2019, data dello show di spalla ai Dark Funeral all’Orion di Roma. Siamo quindi eccitatissimi solo al pensiero di poter suonare dal vivo tutto “Echoes of Winter” e di condividere il palco con l’altro progetto di cui Alex fa parte, gli Invernoir.

Prima del blocco di concerti siete riusciti a presentare dal vivo ance l’esordio o approfitterete di questa serata per farlo per la prima volta?
“Me, Us and Them” ha avuto il suo release party subito dopo l’uscita, nell’aprile 2019, seguito da diversi live con i Fallcie, gli …In The Woods, gli Shores of Null e quello già citato con i Dark Funeral. Dedicheremo quindi l’intera serata del 24 settembre ad “Echoes of Winter”.

Cosa rappresenta metaforicamente quell’inverno citato nel titolo?
L’album è scaturito da un forte desiderio di rendere omaggio all’inverno, la stagione che più ci rappresenta, musicalmente parlando, e che abbiamo tentato di evocare nei brani di “Echoes of Winter”. È un chiaro rimando alla solitudine del genere umano, che nulla può al cospetto della natura, che insieme all’inverno è l’altro tema principale di tutto l’album.

La canzone che dà il titolo all’album la troviamo all’inizio della tracklist, credete che sia il brano più rappresentativo del disco?
Ci teniamo a chiarire che la prima traccia del disco si intitola “Woods of Nevermore”, non ha quindi lo stesso titolo dell’album. Questo errore è scaturito da alcune recensioni e notizie relative (la tracklist riportata nel promokit è errata Nda) all’album che sono state pubblicate sul web da più siti, ai quali abbiamo segnalato l’errore.

Mi è parso di capire che il disco sia sta ben accolto dalla stampa internazionale, queste soddisfazioni leniscono o accrescano il dispiacere di non poter fare un vero e proprio tour di supporto a “Echoes of Winter”?
Sicuramente non può che farci tantissimo piacere ricevere così tanti pareri e recensioni positive da parte della stampa internazionale, ma anche dalle persone che hanno ascoltato o acquistato il disco. Speriamo che la situazione dovuta alla pandemia migliori, così da poter riuscire ad organizzare qualche altra data per promuovere il disco.

Mandragora Scream – Nothing but the best

“Nothing But The Best”, la raccolta pubblicata dalla Music for the Masses per festeggiare i 20 anni di carriera dei Mandragora Scream, si è rivelata un ottimo pretesto per contattare Morgan Lacroix e parlare con lui di passato, presente e futuro della sua longeva creatura.

Benvenuto Morgan, in occasione del ventennale del vostro esordio discografico con l’album “Fairy Tales from Hell’s Caves” la Music for the Masses pubblicherà il prossimo 24 settembre il vostro primo greatest hits, “Nothing But The Best”. A chi è venuta l’idea di questo disco celebrativo?
Ciao, grazie per questa intervista innanzitutto, l’idea è venuta al nostro manager Simone Gagliardi, il manager dell’era “Volturna”, che è stata quella per noi più proficua, sotto tutti i punti di vista, abbiamo sempre lavorato molto bene assieme, raggiungendo traguardi veramente importanti. Ora che ha fondato la Music for the Masses, ci è sembrato veramente naturale tornare a lavorare con lui, inoltre, credo che la raccolta sia il giusto tributo alla nostra carriera dagli inizi a oggi.

Oggi, tra streaming, download e tante altre fonti di musica, ha ancora senso pubblicare una raccolta? Mah… sai…  sarebbe come dire ma in mezzo a migliaia di webzine, ha senso averne una? La risposta secondo me è sì! Questo è il nostro meglio, dal nostro punto di vista, e una fotografia che immortala i Mandragora Scream dall’inizio a oggi. Il prodotto fisico rimane, lo streaming, se cade un server non esiste più, inoltre non vogliamo pensare che il prodotto fisico non serva più, sarebbe veramente molto molto triste.

Il disco conterrà alcuni brani inediti come “Jeanne D’Arc” e “Spiritual Leadin” e alcune anticipazioni dal prossimo album. Vi andrebbe di descrivere questi nuovi brani?
Diciamo che “Jeanne” e “Spiritual” non sono inediti, semplicemente non sono mai apparsi su CD, erano compresi nel DVD del box uscito anni fa per Self Distribuzione “Dragonfly” e pertanto diciamo, non riproducibili su un normale lettore compact disc e ci sembrava giusto renderli disponibili per un ascolto più facile a chi ci segue, visto anche che tanti fan ci hanno scritto al riguardo. I tre brani inediti faranno parte del nostro album che uscirà a fine 2022 sul quale stiamo lavorando, e abbiamo scelto tre pezzi che rispecchiano le nuove influenze e songwriting dei Mandragora Scream, che sono sempre più variegate.

I brani che finiranno nel prossimo disco sono già in versione definitiva o li troveremo arrangiati diversamente sul nuovo album?
Sicuramente Terry preparerà delle modifiche sostanziali sugli arrangiamenti dei  brani che entreranno nel nuovo album, ma l’ossatura delle track è quella.

Come avete scelto, invece, le altre canzoni già edite da inserire in questa raccolta?
Ci siamo seduti, abbiamo stappato del buon vino, e abbiamo litigato scegliendo i brani più significativi e ai quali eravamo più legati: il risultato è stata una tracklist da 30 pezzi improponibile. Dopo varie trattative abbiamo scelto queste 17 tracce e devo dire che il risultato mi soddisfa pienamente e offre una visione totale della produzione dei Mandragora Scream dagli inizi a oggi.

Ti andrebbe di fare una veloce retrospettiva sui vostri cinque album sinora pubblicati?
Mah direi “Whisper” e “Fairy Tales” un inizio col botto, anche per via del contratto con Nuclear Blast, che poi ci ha assolutamente rallentato negli anni a venire. “Madhouse” un album maturo e con la nostra hit più grande, “Dark Lantern”. “Volturna” la svolta a livello di pubblico e di conoscenza della band da parte di fan e addetti ai lavori ottenuta con il duro lavoro nostro e del nostro manager senza alcuna spinta di case discografiche e la possibilità di andare in tour con The 69 Eyes e Cradle of Filth. “Luciferland” indipendenza totale da qualsiasi fattore/entità esterna alla band.

Alla luce dell’entusiasmo con cui furono accolti i primi dischi, credi che forse la vostra carriera sarebbe potuta andare meglio o siete soddisfatti così?
Chiaro che mentirei se dicessi che va bene così, ma allo stesso tempo siamo soddisfatti del nostro percorso. Non credo siano molte le band Italiane del nostro genere, senza grossi padrini mediatici, che in carriera hanno venduto quasi 100.000 copie. Forse, per nostra indole personale non abbiamo mai accettato compressi anche molto vantaggiosi per la nostra carriera, che sono stati una costante nel tempo, una miriade di proposte che personalmente non ho mai accettato per non svilire il nostro pensiero artistico sul lavoro della band, ma alla fine guardandoci allo specchio, non abbiamo nulla di cui vergognarci, anzi credo di essere un bel po’ a credito con il fato.

Quale è stato il momento più alto e quale quello più basso in questi 20 anni?
I momenti più alti sono stati sicuramente come ti dicevo prima l’inizio con Nuclear Blast e “Volturna”, che è stato il nostro apice assoluto. I più bassi, le delusioni da parte di almeno un paio di etichette tedesche che cercavano di boicottare i nostri sforzi, per motivi non proprio etici.

Se le condizioni sanitarie lo permettessero, promuoverete questa raccolta con un tour?
Sarebbe bello, magari più che un vero e proprio tour, delle mirate “date evento” per ripercorrere in musica tutta la carriera dei Mandragora Scream e per vedere volti che sono cresciuti con noi.

Dark Redeemer – Nel nero dipinto di nero

Quando gli Aleph nel 2018 annunciarono la volontà di interrompere la loro carriera, un po’ tutti abbiamo sperato in un ripensamento. Invece quella decisione appare irreversibile, poco male però, dopo tre anni ritroviamo i protagonisti di quella splendida parentesi alle prese con un nuova creatura che pare la nemesi degli Aleph: i Dark Redeemer hanno un approccio old school, benché arricchito da splendide trame di tastiera, che mostra un piglio più ben più aggressivo rispetto al passato. Abbiamo parlato del loro ottimo esordio, “Into the Deep Black” (Blasphemous Records / Grand Sounds Promotion), con Dave e Giulio, rispettivamente voce\chitarra e tastiere.

Benvenuti ragazzi, non è un mistero che i Dark Redeemer nascono dalle ceneri degli Aleph. Quella avventura si era conclusa con queste parole “Questa scelta non nasce da divisioni tra di noi ma dalla consapevolezza di aver detto tutto quanto avevamo da raccontarvi”. I Dark Redeemer vi permettono di raccontare qualcosa che con gli Aleph non era possibile fare?
(Dave) Ciao a te! Beh, non è un mistero perché lo abbiamo esplicitato! Sentivamo di non avere più bisogno di strutture così progressive per esprimerci e abbiamo deciso di tirar fuori il lato più aggressivo e senza briglie della nostra musica, raccontando qualcosa che agli Aleph era precluso.

Come è nata la band e che aspettative avete?
(Dave) La band è nata dalla voglia di continuare a scrivere e suonare insieme, metterci alla prova su canzoni più dirette, che comunque conservano il nostro spirito. Ci aspettiamo, o meglio ci auguriamo, di suonare in giro un bel po’, visto che non accade dal 2018. Per il resto, questo ultimo anno e mezzo ci obbliga a stare un po’ a vedere come tutto potrà andare.

Il dover iniziare da zero con una nuova band immagino che vi abbia dato entusiasmo, ma come lo si mantiene vivo questo entusiasmo quando la novità passa ed iniziano ad arrivare i problemi e gli scazzi della vita ordinaria di una band underground?
(Giulio) Essendo noi quattro insieme, in un modo o nell’altro, da un mucchio di anni dovremmo avere una risposta… Io personalmente non ce l’ho! O almeno non una sola. Non basta l’amore per quello che fai, serve una grande capacità nell’immagazzinare entusiasmo anche dalle piccole e piccolissime soddisfazioni, un legame forte coi tuoi compagni, moltissima pazienza…

Come detto, i Dark Redemeer hanno sicuramente un approccio più diretto rispetto agli Aleph. Questo cambio di marcia è stato voluto o i brani sono venuti così inconsciamente?
(Dave) Abbiamo cercato intenzionalmente di rispettare questo approccio, ma una volta iniziato a lavorare sui brani abbiamo trovato la nostra solita fluidità.

Quando avete iniziato a lavorare sui primi pezzi dei Dark Redeemer?
(Dave) Tre di questi pezzi avrebbero dovuto essere sul quarto disco degli Aleph, quindi i primi embrioni risalgono al 2016-17; una volta deciso di seppellirli li abbiamo riarrangiati e resi totalmente Dark Redeemer.

Ho particolarmente apprezzato le tastiere di Giulio Gasperini perché su una base molto swedish old school mi hanno ricordato i primissimi Tiamat, che adoro, e perché contrariamente a quanto avviene spesso nel death, non hanno un suono freddo, ma sono quasi riconducibile alla scena horror\dark metal italiana. Come sono state sviluppate queste parti?
(Giulio) Ti ringrazio molto, hai colto il mio amore per suoni e arrangiamenti, diciamo horror, e l’intenzione con cui ho affrontato gli arrangiamenti. L’obiettivo era quello di conferire a brani già comunque “autosufficienti”, ulteriore colore, centellinando il più possibile gli interventi. Avere delle tastiere in una band che vuole suonare death metal vecchio stile poteva risultare una contraddizione, ma siamo stati credo bravi a trovare il giusto bilanciamento, sia a livello di partiture che di mix.

Il rapporto con la Blasphemous Records come è nato, avete avuto difficoltà a trovare un’etichetta?
(Giulio) Abbiamo avuto la fortuna di avere Simone come primissimo discografico ai tempi del debutto con gli Aleph nel 2006…. E quella di ritrovarlo nel 2021, questa volta con una label tutta sua, la Blasphemous appunto.

Il disco uscirà a settembre, avete già programmato delle date o preferite aspettare di capire come si evolverà la situazione sanitaria?
(Dave) Abbiamo appena annunciato il release party, di cui puoi trovare i riferimenti sulla nostra pagina Facebook. Per il resto abbiamo delle conversazioni aperte per concerti in giro per l’Italia. Dati i tempi, tutto è ancor più complicato di prima. Viviamo nel regno dell’assurdo e chi fa musica, professionalmente e no, vede benissimo come questa è considerata nel Paese dell’arte.

Secondo la vostra esperienza, paradossalmente in un Paese come l’Italia, in cui gli spazi e gli eventi dedicati al metal dal vivo sono pochi, il blocco dei concerti ha avuto sui gruppi un impatto minore rispetto ad altre nazioni in cui c’erano un maggior fermento e un numero superiore di show oppure ne usciremo ulteriormente impoveriti da questa pandemia?
(Dave) Cito Quèlo: “la seconda che hai detto”. E’ una mia impressione, ma credo che il disastro sia maggiore dove le strutture, l’organizzazione sono carenti, a prescindere dalla quantità precedente degli eventi ma spero di sbagliarmi.

Tetramorphe Impure – Il cimitero delle speranze

I Tetramorphe Impure in tempi non sospetti, nel 2008, rilasciarono un primo demo totalmente devoto alle sonorità doom inglesi. Oggi la one man band torna con quello che originariamente doveva essere un EP di due brani, ma che col passare del tempo è diventata una sorta di compilation che raccoglie la coppia di pezzi inediti e quel primo demo. Con Damien abbiamo parlato di “Dead Hopes / The Last Chains” (Solitude Productions \ Grand Sounds), cogliendo l’occasione per fare il punto sulla carriera passata e futura del gruppo.

Benvenuto Damien, ti ringrazio per lo splendido viaggio nel doom anni 90 offertomi dai tuoi Tetramorphe Impure: quando hai deciso di dare vita a questo progetto e perché hai scelto proprio questo tipo di sonorità?
Mi fa molto piacere che tu abbia apprezzato quest’ultimo lavoro dei Tetramorphe Impure. Sono sempre stato un grande fan del doom/death metal. Mi ricordo ancora oggi quando da ragazzino per la prima volta mi avvicinai a questo genere: ascoltai album come “The Silent Enigma”, “Turn Loose the Swans”, “Hope Finally Die” e ne rimasi completamente folgorato. Da quel momento capii che quello che volevo veramente suonare era quello … Band come Decomposed, Disembowelment, Dusk, Evoken, Mournful Congregation, Esoteric hanno lasciato un grosso segno sul mio modo di fare musica e penso che questo si capisca subito ascoltando i Tetramorphe Impure. Molte atmosfere sono anche frutto di influenze più “dark” di band quali Dead Can Dance ( “Within the Realm of a Dying Sun” soprattutto ), Swans e Lycia.

La prima pubblicazione a nome Tetramorphe Impure è stato il demo “The Last Chains”, una sorta di fuoco di paglia perché poi il progetto poi si è fermato per svariati anni. Cosa mi racconti di quella pubblicazione e come spieghi il lungo stop successivo?
La fase iniziale della band non è stata delle più semplici. All’inizio i Tetramorphe Impure erano composti da tre persone per poi ritrovarmi da solo qualche mese dopo. Da quel momento mi sono occupato di tutto, anche delle registrazioni. Dopo il completamento della demo “The Last Chains” ho passato un periodo difficile, principalmente dovuto a problemi personali. Ma posso dirti che ora sono totalmente devoto ai Tetramorphe Impure e sono molto motivato nel portare avanti la band con nuove release.

Quei due brani, comunque andarono a finire in uno split album con i Black Oath, immagino che oggi abbia un bel valore per i collezionisti, no?
Sì esattamente, i due pezzi furono pubblicati nel 2010 nello split con i Black Oath, band italiana che rispetto molto. Uscì per Unholy Domain in sole 66 copie ! Devo essere onesto, non saprei dirti se nel giro degli anni abbia acquisito valore, dovrei fare una ricerca su Discogs per capire meglio.

Finalmente in questo 2021 sei tornato a pubblicare qualcosa, come consideri “Dead Hopes / The Last Chains”, un vero e proprio album o una sorta di raccolta?
È a tutti gli effetti una “compilation”. In realtà “Dead Hopes” era nato come EP, successivamente con la Solitude abbiamo deciso di includere anche i due pezzi del demo, considerando la tiratura limitata dello split risalente al 2010. Devo dire che sono soddisfatto di questa scelta, I pezzi di “The Last Chains” a mio avviso suonano ancora oggi molto validi ed avevano proprio bisogno di un maggiore risalto e valorizzazione.

Hai presentato tu l’idea alla Solitude Productions o ti hanno contattato loro?
Mandai io il materiale. La Solitude è stata una delle prime etichette che ho contattato dopo il completamento dei pezzi. A mio avviso stanno facendo un grande lavoro, sono una label molto operosa e composta da persone con una grande e sincera passione per il genere.

Come sono nati i due brani “Deception” e “Dead Hopes”?
Sono pezzi relativamente recenti, risalgono ad un anno fa circa e sono i primi due pezzi composti dopo molti anni di inattività. Alcune parti erano già state scritte nel 2009/2010 soprattutto per quanto riguarda il pezzo “Dead Hopes”. Non è stato semplice rincominciare dopo tutti questi anni, soprattutto se consideri che mi sono occupato anche delle registrazioni di tutti gli strumenti e del mix.

Come hanno retto alle insidie del tempo, secondo te, i due classici “The Last Chains” e “Eternal Procession”?
Secondo me molto bene, nonostante siano passati tutti questi anni li sento ancora “miei” e molto attuali. Solitamente sono molto critico con le mie composizioni riascoltandole dopo tempo, ma in questo caso devo dire che sono pienamente soddisfatto.

Hai altro materiale inedito da sfruttare per un nuova uscita a breve?
Ho quasi finito di comporre il materiale per un prossimo full, al momento sono quattro pezzi per circa 40 minuti di musica. Ti posso anticipare che I nuovi pezzi presentano molte influenze death metal old school, soprattutto in vena Autopsy (“Mental Funeral” era) ed Asphyx. Per il resto ti puoi aspettare la solita pesantezza ed oscurità tipica dei TI.

Credi che in futuro la line-up della band potrà coinvolgere altra gente o preferisci mantenere la tua indipendenza?
Per il momento i Tetramorphe Impure rimarranno una one man band. Penso che sia la dimensione naturale per una creatura come questa. Di sicuro mi piacerebbe molto suonare dal vivo ma solo nei giusti contesti con band simili ai Tetramorphe Impure. Magari in futuro prenderò in considerazione l’idea di una formazione soltanto per i live.

Nanga Parbat – La montagna assassina

I Nanga Parbat hanno iniziato un cammino tanto personale quanto avvincente. La prima tappa di questa marcia è “Downfall and Torment” (Sliptrick Records), lavoro complesso, capace di ammaliare e stordire l’incauto esploratore che osa sfidare la Montagna Assassina…

Benvenuto Andrea (voce), dopo tre singoli è arrivato finalmente per voi il momento di dare alle stampe il vostro album di debutto, “Downfall and Torment”. Cosa significa avere fuori un disco, un segno tangibile dei vostri sforzi, soprattutto ora che non potete realizzarvi come artisti su un palco?
Per noi è un grandissimo traguardo, è stato un cammino lungo e faticoso, ed essere arrivati a questa meta ci riempie di orgoglio. Oggi viviamo un periodo di grande incertezza per tutto il panorama artistico ma grazie a “Downfall and Torment” stiamo riuscendo ad entrare nel cuore delle persone anche attraverso uno schermo. Sicuramente avremmo preferito un bel release party ed una serie di live promozionali in tutta la Penisola ma ci rendiamo conto che ci sono altre priorità al momento!

Tornerei ai tre singoli che hanno preceduto il disco, ho notato che nell’album questi pezzi vengono proposti di seguito e si trovano quasi al centro: ritenete che siano il cuore dell’opera e che da soli possano rappresentare al meglio il vostro stile?
La posizione dei tre singoli all’interno della tracklist è stata pressoché casuale, sicuramente i trebrani sono stati scelti poiché sono gli unici ad avere una struttura ed una durata più “canonica” e quindi più fruibile come singolo e come base per un video musicale. La seconda parte del disco invece è incentrata sui due brani più complessi e progressivi che sono “Curse of the Thaw” e la titletrack, quindi potremmo dire che i tre singoli sono sì dei brani chiave all’interno del disco ma non sufficienti da soli a rappresentare il genere e il messaggio dell’opera che rimane descritto dalla totalità delle nove tracce di “Downfall and Torment”.

Resterei sullo stile che proponete, il vostro approccio al death metal è molto complesso, con venature progressive, quasi in controtendenza rispetto alle uscite attuali che tendono a privilegiare sonorità più old school: non temete che questa scelta possa penalizzarvi?
La nostra non è stata una scelta di stile, abbiamo composto le canzoni senza sapere prima in che parte della tassonomia del death metal saremmo andati a finire. Non ci siamo dati regole o canoni, abbiamo semplicemente lavorato molto a lungo sugli arrangiamenti e sulla costruzione del concept del disco e questo è ciò che ne è uscito. Se questo possa penalizzarci è difficile a dirsi ma crediamo che “Downfall and Torment” sia un disco sufficientemente ricco da poter essere apprezzato sia dagli ascoltatori più moderni che da quelli più “old school”.

Altro fattore che dimostra come vi muoviate ai limiti e che non temiate di allontanarvi da quelli che sono i cliché del genere è la scelta del vostro nome: come mai avete deciso di chiamare il gruppo come un monte della catena dell’Himalaya e non con un prosaico nome più oscuro?
Come dicevamo appunto nella risposta precedente non abbiamo cercato di definire la musica secondo dei canoni ma piuttosto di far definire i canoni dalla nostra musica stessa. Proprio per questo motivo, il nome è stato scelto successivamente alla composizione del disco, avevamo bisogno di un nome che fosse particolare ma allo stesso tempo altisonante e richiamasse a qualcosa di ignoto e tenebroso. Il Nanga Parbat, la nona montagna più alta della Terra e una delle più mortali, soprannominata appunto la montagna assassina, un nome che si associa perfettamente alla nostra musica.

Nei testi, invece, quali tematiche trattate?
Nei testi cerchiamo di dare risalto alla potenza e all’indomabilità del mondo naturale. Spesso ci siamo trovati a narrare di ambienti estremi o di fenomeni atmosferici inarrestabili. Abbiamo fatto molte ricerche anche su diverse figure leggendarie e mitologiche come si può evincere dai brani “Tidal Blight” e “Demon in the Snow”. Il primo narra infatti del grande cetaceo bianco cacciato dal Capitano Ahab ed il secondo di una tigre fantasma che secondo alcune leggende abiterebbe la taiga russa. Nei nostri testi dunque amiamo inserire sia figure appartenenti al mondo animale che generalmente a quello naturale, cercando di infondere significati specifici a figure già molto evocative.

La copertina cosa rappresenta?
La copertina rappresenta le disfatte che si autoinfligge l’uomo per cupidigia, orgoglio e illusione di grandezza. Questo conflitto che l’uomo vive con se stesso e con il resto della sua specie si staglia sullo sfondo della natura. Quest’ultima si trova spesso colta nel fuoco che viene da entrambi gli schieramenti, relegata ad un ruolo secondario in tutte le vicende umane. La nostra copertina vuole riportare l’attenzione sul vero colpevole di tutto il male che ogni giorno si scatena sulla terra: l’uomo.

Nel disco compaiano numero si ospiti, vi andrebbe di presentarli?
Certamente! Per arricchire il lavoro abbiamo fatto contribuire alcuni nostri amici musicisti che hanno impreziosito l’opera. Edoardo Taddei: Giovanissimo Guitar Hero romano (Classe ‘99) che ha scritto e suonato l’assolo di “Through a Lake of Damnation”. Davide Straccione: Storico frontman degli Shores of Null e degli Zippo e mastermind del Frantic Fest, amico di vecchia data della nostra band ha cantato alcune strofe pulite della titletrack. Vittoria Nagni: Violinista classica, ex-Blodiga Skald, ha suonato le parti di violino solista sull’intro e su “Tidal Blight”. Fabiana Testa: Formidabile session woman blues e jazz sia elettrica che acustica, ha suonato l’intro acustica. Martin Vincent: Amico della band, inguaribile metallaro, ha vissuto molti anni in America ed ha quindi recitato la strofa di “Tidal Blight” estratta dal Moby Dick di Herman Melville. Francesco Ferrini: Dulcis in fundo, uno dei fondatori dei Fleshgod Apocalypse, orchestratore e arrangiatore di fama mondiale, ha lavorato alla produzione delle orchestre insieme al nostro Edoardo.

Alla luce del grande lavoro fatto in studio, quando potrete tornare ad esibirvi dal vivo, sottoporrete i brani a un riarrangiamento o li proporrete in modo fedele sul palco?
L’obiettivo è sicuramente quello di proporre i brani nel modo più fedele ed autentico possibile, siamo convinti che tutto ciò che è stato proposto nel disco sarà ugualmente fruibile e godibile anche in un contesto live. Resta da decidere l’effettiva setlist per i futuri live ma stiamo già lavorando in questa direzione per rendere le nostre performance non solo energetiche ma anche iconiche e fluide. Vogliamo portare un grande show e stiamo già escogitando vari sistemi per farlo ma per questo dovrete aspettare ancora un po’!

La prossima cima da scalare?
Ovviamente, il prossimo disco che stiamo già componendo! Il mondo della musica dal vivo è ancora troppo incerto per pensare ai palchi mentre invece un momento come questo è perfetto per ricominciare a comporre nuova musica.