Crampo Eighteen – Mother cloud

I Crampo Eighteen sono una rock band barese fondata dal cantante e chitarrista Nino Colaianni. Completano la line-up Michele Danza al basso, Gianluca Stero alla chitarra e Vanni Sardiello alla batteria. Hanno da pochissimo pubblicato il loro secondo full-length “Mother Cloud”, dopo l’esordio di due anni fa intitolato “Mojo Bag”. I membri della band sono già noti per aver militato in altre band altrettanto note nel nostro territorio e non solo, per conoscerli meglio, abbiamo intervistato Nino, cantante e chitarrista, e Vanni, il batterista.

Siete arrivati al vostro secondo lavoro, quali sono le differenze sostanziali con il lavoro precedente “Mojo Bag”?
Nino: Il primo lavoro, “Mojo Bag” è un disco oscuro, “Mother Cloud” invece è un album più solare perché scritto in un periodo sereno per me e ricco di soddisfazioni per la band. Per molti aspetti è più maturo nella composizione e negli arrangiamenti. A differenza del precedente, che è stato un salto nel buio, stavolta siamo entrati in studio con le idee chiare, preparati e consapevoli delle idee da riversare in musica. Naturalmente poi la magia che si compie in fase di registrazione è frutto di una combinazione di elementi. Fra noi e gli amici di Trulletto, la nostra etichetta, questa alchimia ha funzionato e confesso che non me lo aspettavo, ma per fortuna la vita ti sorprende sempre”.
Vanni: “Penso si noterà una differenza piuttosto importante nella produzione, ora abbiamo alle spalle la Trulletto Records, e in fase di registrazione e missaggio ci siamo potuti avvalere di orecchie esterne che ci hanno dato idee e contributi preziosi. Per quanto riguarda la scrittura, credo che ci sia stato un progressivo allontanamento dalle strutture un po’ stoner e/o psichedeliche dei primi lavori (compresi quelli di Nino da solo) per arrivare ad una forma canzone per certi versi più classica. Ma il nostro marchio di fabbrica si sente eccome.

Mother Cloud” è un concept album, qual è il tema che lega i brani dell’album?
Nino: Il tema che prevale nei testi è un po’ ermetico, se non li si legge attraverso una lente spirituale, possono apparire rivolti ad entità corporee, in realtà invece sono preghiere, richieste di aiuto ad una entità superiore. Questo spirito divino, nella mia visione del mondo, è la Terra, che nonostante le ferite che le infliggiamo continua a mostrarci la luce. È lei a orientarci nella scelta tra il bene e il male, se solo aprissimo gli occhi ai segnali che ci sta mandando”.

Al momento il disco è reperibile solo in digitale, sarà prevista una pubblicazione in vinile come per il precedente?
Nino: Sì, ma al momento è reperibile su tutte le piattaforme di streaming musicale e video.
Vanni: Se tutto va bene le copie in vinile dovrebbero essere disponibili per settembre. C’è un po’ di caos in giro per le uscite in vinile, ritardi, molta richiesta e ancora poca offerta. Speriamo bene. Ma noi siamo partiti con l’idea del vinile, e abbiamo pensato al disco idealmente come ad un lato A ed un lato B.

Se vi chiedessero a quale mondo musicale appartenete, come vi definireste? Quali sono state le vostre influenze musicali più importanti?
Nino: Non ricordo un giorno trascorso senza ascoltare musica, fin da quando ero ragazzino. Tutti i miei ricordi hanno una colonna sonora che spazia in tutti i generi. Naturalmente ciò che ti rimane addosso è inevitabilmente quello che ascoltavi nell’età della formazione, per cui Seattle’s sound, garage rock, psichedelia, stoner. Attualmente sono immerso nella riscoperta di r&b, soul e gospel anni 50. Tutti elementi che in fase di scrittura riecheggiano inevitabilmente nella mia testa e si riversano inconsciamente nella composizione. Confesso che sta diventando frustrante trovare un riff e doverlo scartare perché troppo simile a un brano esistente.
Vanni: Io cerco di inserire a livello ritmico, tutti quelle che sono i miei ascolti oltre che la mia esperienza dietro la batteria. Ho sempre ascoltato rock a 360°, davvero spaziando tra gli opposti e cercando di assimilare tutto il possibile dallo stile dei batteristi alle prese con le mie canzoni preferite.

Tutti i membri della vostra band hanno avuto un passato in altre band importanti del nostro territorio, Vanni, in breve facciamo una cronistoria della vostra formazione?
Nino: Io ho iniziato con i That’s All Folks dal 1990 al 2000 e nella esperienza parallela del Lily of the Valley. Stessa trafila per Luca che poi ha militato anche negli Anuseye. Michele ha suonato nei Feltura.
Vanni: Io ho cominciato con i Veronika Voss a Taranto, esperienza durata dal 1993 al 1996 e con qualche sporadica reunion in un passato recente, Esperienza formativa enormemente importante e che so, aver in qualche modo lasciato il segno sul territorio e non solo. Poi nei miei anni pisani, ho avuto un power trio di matrice post-math-rock, i Lillayell, che avevano alla voce e chitarra, il molto noto batterista degli Zen Circus, Karim Qqru. Infine, attualmente suono la batteria anche nei Comfy Pigs, siamo in quattro, abbiamo dei connotati post-punk di matrice squisitamente british e stiamo per esordire con un LP sempre per Trulletto Records, la cui uscita è prevista per fine giugno.

Sempre sottolineando il vostro passato da musicisti è più o meno difficile secondo voi rispetto a venti anni fa suonare in Italia e soprattutto al sud, oggi?
Nino: Per assurdo, il problema oggi è da ricercare nell’ audience. Ultimamente c’è un proliferare di situazioni live, anche piuttosto affollate, ma da tanta gente col cocktail in mano a chiacchierare fra loro. Io personalmente se vado a vedere una band, anche emergente, sto sempre sotto il palco. C’è poco rispetto e poca attenzione per chi fa musica in Puglia. Naturalmente ci sono realtà che fanno eccezione e sono le ultime in cui abbiamo suonato.
Vanni: Tasto piuttosto dolente, in un mondo infestato dalle cover band, ormai il pubblico sembra non avere più curiosità verso ciò che è originale e inedito. Però in qualche modo riusciamo a trovare sempre qualche posto dove c’è gente davvero appassionata, che ci concede spazi per suonare live. Stiamo anche cercando di creare una sorta di community tra musicisti e band locali, in modo da poterci scambiare contatti e avere la possibilità di suonare insieme. Ma la strada è lunga e tortuosa.

Sono previsti live imminenti per la promozione del disco?
Nino: Abbiamo un po’ trascurato il booking dei live per via delle registrazioni del disco. Ricominciamo ora con la programmazione di alcune date, sicuramente per il prossimo autunno. In estate magari ci scappa qualche festival locale o qualche secret show.
Vanni: Non nell’immediato, io purtroppo sono reduce da un delicato intervento alla schiena, spero tra giugno e luglio di essere di nuovo in perfetta forma. Sicuramente avremo un concerto nel bosco di Altamura a inizio luglio.

Per finire, il significato del vostro monicker, Crampo Eighteen?
Nino: Crampo è da sempre il mio moniker nato durante il tragitto in auto per il concerto dei Velvet Underground a Bologna negli anni 90, Eighteen rappresenta l’età musicale adulta, l’esperienza e la libertà di espressione musicale e poi suona bene, meglio di seventeen…

INTERVISTA ORIGINARIAMENTE PUBBLICATA IN VERSIONE RIDOTTASU “IL QUOTIDIANO DI BARI” IL 10MAGGIO 2022

Heat Fandango – Reboot system

Nati dalle ceneri dei Lush Rimbaud, per volontà di tre musicisti attivi già con altre realtà underground marchigiane (Jesus Franco and the Drogas, NewLaserMen, Beurk!), gli Heat Fandango hanno da poco rilasciato l’entusiasmante esordio “Reboot System” (Peyote Press). Un interessante miscuglio di influenze disparate che si rifanno a The Fall, Gallon Drunk, Suicide, Lydia Lunch, Soft Boys e Thee Oh Sees. Ne abbiamo parlato con Marco Giaccani (basso/tastierista/farfisa).

Ciao Marco, “Reboot System” è un titolo strano per un esordio, dà quasi la sensazione che ci sia dietro la volontà di voler cancellare il passato e iniziare da zero. Dato che siete una band di recente formazione, qual è quel passato dal quale volete distaccarvi?
In realtà, nessuno scheletro nell’armadio, l’idea è piuttosto quella di ripartire da zero di fronte all’evidente fallimento di molti parametri della nostra società. Lo sviluppo inteso come produzione forsennata, il consumo di risorse senza regole. Riavviare il sistema è l’ultima cosa rimasta da fare quando le hai provate tutte ma continua a non funzionare.

Da dove siete partiti? Avevate già del materiale proveniente dalle vostre esperienze passate oppure tutto è stato scritto per gli Heat Fandango?
Noi tre (Tommaso, Marco, Michele) ci conosciamo da oltre vent’anni, e suoniamo insieme da sempre. Messa in pausa l’esperienza con i Lush Rimbaud, a fine 2018 abbiamo deciso di ripartire con questo progetto e a dicembre 2019 avevamo esordito dal vivo, avevamo una decina di pezzi, ed eravamo pronti per registrare. Poi è arrivato il covid.

Il disco è stato registrato a distanza durante i vari blocchi dello scorso anno, ma era stato già pianificato – magari con un’incisione più tradizionale – oppure l’esigenza di fare qualcosa è nata durante il lockdown?
Era pianificato, ma avremmo dovuto registrare in presa diretta e invece ci siamo ritrovati in mezzo alla pandemia senza poter uscire di casa. Quasi per gioco Tommy ha registrato con la sua scheda audio un pezzo chitarra e voce e ce l’ha mandato per avere un feedback. Ci abbiamo messo sopra farfisa e drum machine e il risultato ci è piaciuto, e ci siamo detti “perché non rifare con la stessa modalità tutti i pezzi”? E così abbiamo fatto. Poi Filippo Strang del VDSS Studio di Frosinone ha fatto mix e master, Salvatore Liberti le grafiche e Bloody Sound e Araghost ci hanno permesso di pubblicare il disco, mentre Peyote press sta facendo promozione.

Le immagini promozionali del disco, almeno le due in mio possesso, vi ritraggono all’interno di un’abitazione, una in particolare in quella che sembra una soffitta. Non se sia stata una scelta conscia o inconscia la vostra, ma pare quasi che vogliate rafforzare l’idea di un album nato in casa durante il lockdown…
Quello è il nostro quartier generale, il luogo da cui è iniziato tutto. Rappresenta le nostre origini, ed è da lì che vogliamo ripartire.

Passato è un termine che sta tornando spesso nelle mie domande, ma devo tirarlo fuori anche ora, il vostro sound è una mistura di sound del passato, dal garage rock al punk passando per la psichdelia, eppure il risultato è fresco e per nulla banale: come ci siete risusciti?
Grazie, questo suona come un complimento! A parte gli scherzi, hai centrato il punto. Volevamo fare qualcosa di originale partendo dalle nostre radici, il blues malato, la psichedelia, la new wave. Siamo cresciuti con questa musica, fa parte di noi.

Chi ha avuto l’idea di utilizzare una farfisa?
Io, in realtà sono un bassista, ma per caso, girando per un mercatino dell’usato, ho visto una farfisa Vip233 con il suo ampli, sempre farfisa. Parliamo di roba di fine anni 60, non sapevo neanche se funzionasse, così il negoziante mi ha proposto di prenderla e provarla, se non funzionava la potevo riportare entro tre giorni e mi avrebbe restituito i soldi. Non mi ha più rivisto.

Che storie avete raccontato dietro i testi?
Sono pezzi di vita di tutti i giorni, sogni, riflessioni. Raccontano le impressioni, i desideri e le emozioni di vivere la vita, cosa che a volte sembra scontata, ma che è un’avventura continua.

Mentre, quale storia si cela dietro la copertina del disco?
Sono foto di viaggio di Salvatore Liberti, l’autore delle grafiche. Sono frammenti di quello che resta del mondo sovietico, scattate tra Armenia e Georgia. Sono davvero belle, struggenti e melanconiche, ma allo stesso tempo potenti. Milioni di storie e di vite sono state vissute in quei luoghi, e ora sono deserti e abbandonati.

Dal punto di vista live si sta muovendo qualcosa?
Per ora possiamo dire che il 16 ottobre presenteremo il disco al Dong di Macerata. Per il resto ci stiamo muovendo, tutto il settore è reduce da anni duri, ma spero di sì.

Turangalila – Tra liquidi e spigoli

I pugliesi Turangalila, al loro esordio con “Cargo Cult” – uscito il 14 maggio per la Private Room Records / Doppio Clic Promotions – sono una delle realtà musicali più interessanti della nuova scena heavy-psych/post-rock tricolore. Sette tracce che meritano un ascolto approfondito per un sound che riporta a band come Godspeed You! Black Emperor, Neurosis, Flaming Lips. Un debutto decisamente di spessore ed una libertà compositiva che lascia presagire un futuro luminoso e intrigante.

Ciao ragazzi e benvenuti su Il Raglio Del Mulo, il vostro esordio è uscito in tempi relativamente brevi e con già diverse esperienze alle spalle, come siete arrivati ai sette brani che compongono “Cargo Cult”?
Ciao Paolo, ti ringraziamo di ospitarci su Il Raglio del Mulo per parlare del nostro disco d’esordio. Potrebbe sembrare prematuro pubblicare un disco d’esordio dopo due soli anni di attività, infatti i nostri progetti per il 2020 erano altri inizialmente. Nel momento in cui ci siamo visti costretti a rinunciare per un tempo indefinito all’attività live e alla composizione abbiamo deciso di dedicarci totalmente alla produzione del disco.

Leggo nella cartella stampa che avete sonorizzato una pietra miliare del cinema muto “Il Gabinetto del Dottor Caligari”, com’è stato cimentarsi – e la vostra musica si presta perfettamente a questo tipo di esperimenti – con il mondo delle sonorizzazioni che è diventato quasi un genere a sé stante?
Nell’estate del 2019 ci è stata data la possibilità di prendere parte assieme ad artisti dediti a questi esperimenti, come Caterina Palazzi/Zaleska, a una maratona di sonorizzazioni dal vivo di capolavori del cinema muto all’interno del Distorsioni Sonore Festival. Abbiamo colto l’occasione per affrontare il capolavoro espressionista per eccellenza. E’ stata un’esperienza che ci ha aiutato molto a dare varietà al metodo compositivo, a uscire dagli schemi e migliorarci ad esempio sull’organizzazione temporale di lunghi flussi sonori cangianti.

Le vostre composizioni alternano momenti strumentali ad altri quasi “sinfonici” se mi passate il termine, in che maniera coniugate queste differenti anime nella band?
Il processo di composizione e arrangiamento è molto fluido e naturale, raramente ben ragionato. Tutto il lavoro è comunitario e mette insieme naturalmente i gusti e le capacità musicali di ognuno di noi. Quando realizziamo musica cerchiamo innanzitutto di offrire un immaginario sonoro senza pregiudizi su un determinato stile e di sfruttare al massimo il potenziale espressivo della musica.


Vi ponete esattamente nel mezzo tra il post-rock/metal più ragionato e l’heavy psych che è un genere più groovy, siete consapevoli che spesso l’essere poco catalogabili – e quindi molto personali – può essere un’arma a doppio taglio?
Ne siamo consapevoli, ma la nostra ricerca si pone come obiettivi sfuggire il più possibile a una facile catalogazione e indagare la musica tutta come linguaggio universale della comunicazione astratta, pur partendo da un organico tipicamente “rock” cercando di trarre ispirazioni dalle più disparate esperienze musicali, dal post rock, al noise, al doom passando per la musica contemporanea, il math, il prog, senza porci il pregiudizio di chiuderci in un particolare genere.

I vostri titoli – il nome stesso della band in sanscrito – e le parti testuali sono ricche di citazioni
molto ricercate, chi di voi si occupa di questi aspetti?

Il nome è un tributo alla carica mistico-visionaria delle composizioni di Olivier Messiaen. Riguardo
l’immaginario e le citazioni presenti nel disco abbiamo costruito un concept attorno a un input dato
dal nostro batterista Giovanni, il quale ha anche realizzato le fotografie usate per il singolo di Tone
le Rec e il disco. Per chi non lo sapesse i cargo cult sono delle “religioni” spontanee, nate durante
la seconda guerra mondiale, tra gli aborigeni che abitavano alcune sperdute isolette nell’Oceano Pacifico. L’esercito americano, in quegli anni, occupava queste isolette per usarle come base logistica, e gli abitanti, che non avevano mai visto un aereo, né una nave mercantile (“cargo”), né tantomeno un uomo bianco, pensarono che quelle entità fossero delle divinità e cominciarono ad adorarli, anche perché questi “dei” davano loro ogni tanto provviste e indumenti, mentre nel frattempo violentavano l’ecosistema dei loro luoghi e massacravano altri popoli. La solita storia dell’occidente che prima ti bombarda e poi ti dà un cerotto. Questa storia dei cargo cult ci aveva colpito e ce l’avevamo in testa da molto. Poi, nella nostra analisi, e nei testi, in realtà partiamo da lì per poi analizzare tutte le altri fedi, o meglio: l’irrazionalità che è alla base, prerogativa necessaria per ogni fede. Credere è sempre, in qualche misura, non pensare e affidarsi all’ignoto. E questa non è necessariamente una cosa brutta o sbagliata. Anzi, evviva l’irrazionalità, evviva il lato illogico
di ognuno di noi. La genuinità infantile dell’atto involontario di credere in qualcosa è bellissima e
poetica. “Cargo Cult” parla di questo.

Che cosa state ascoltando in questo periodo, quali sono le vostre maggiori influenze?
Quest’anno abbiamo quasi tutti noi ascoltato e adorato le nuove uscite di progetti quali Black Country, New Road, Pom Poko, Big Brave, GY!BE, Black Midi e Parannoul.


Cosa offre Bari e la Puglia in genere ad una band come la vostra?
Purtroppo molto poco. Negli ultimi anni qualcosa è migliorato, ma ci sono tante realtà fondamentali per band come la nostra che sono sparite, o stanno sparendo. Per fortuna ci sono tante piccole nicchie sparse da scoprire, con le quali interagire e cercare di far rete.


Augurandoci di vedervi dal vivo il prima possibile, che progetti avete nell’immediato?
Al momento siamo felicissimi di tornare a suonare dal vivo il 12 Giugno a Bari con i nostri amici Zolfo. Ci auguriamo possa essere la prima di tante altre date per promuovere il nostro album e, magari, testare alcuni dei nuovi brani ai quali stiamo lavorando. C’è anche un video in preparazione al momento. Si tratta di un cortometraggio di 20 minuti costruito sulla suite finale del disco (“Cargo Cult”, “Cargo Cult Coda” e “Die Anderen”) che approfondisce l’immaginario del concept. Molto presto sarà pronto!

Mr. Bison – Verso il mare e oltre

Raggiunto il traguardo del quarto album – “Seaward (Subsound Records) uscito ad Ottobre 2020 – i Mr. Bison impreziosiscono il loro caratteristico groove heavy psych blues con le sfumature del progressive rock e del concept album. Ne abbiamo parlato con Matteo Barsacchi, chitarra e voce del trio toscano.

Ciao Matteo, complimenti per il vostro nuovo album “Seaward”, da dove è scaturita l’idea di pubblicare un concept?
In questi ultimi anni ci siamo riappassionati agli anni 70 che avevamo lasciato un po’ in standby, soprattutto al prog rock 70, mostri sacri come King Crimson, Pink Floyd ma anche band un po’ meno conosciute come Captain Beyond e Nektar. In quegli anni molti album nascevano come concept , vedi capolavori come “Dark Side of the Moon” dei Pink Floyd o “Thick as a Brick” dei Jethro Tull, certamente lontano da noi paragonarci a band di questo livello, prendendo però in considerazione il fatto di creare un concept, anche se con una iniziale perplessità sul risultato, una volta individuato il tema, un giusto artwork e qualche buona pre-produzione in studio, tutto è andato in maniera molto naturale, con il risultato finale di “Seaward”.

Holy Oak” è stato un album importante e molto apprezzato dalla critica, è stato difficile dare un seguito ad un lavoro di tale portata? “Holy Oak” è stato il passaggio dalle influenze Hard Blues di “We’ll Be Brief” e “Asteroid”, caratterizzate da composizioni dirette con molto Groove, a “Seaward” che fondamentalmente avevamo già in mente. Con “Holy Oak” abbiamo inserito molta psichedelica lasciando sempre una buona dose di tiro hard kock, mentre in “Seaward” abbiamo inserito molto progressive. Sarebbe stato un passaggio troppo netto senza un terzo album in stile “Holy Oak”. Siamo una band in continua evoluzione e stiamo già sperimentando cose nuove con ulteriori aggiunte di stili.

Nel vostro lavoro ci sono molte influenze che vanno dal folk al prog oltre a naturalmente l’heavy psych, da dove traete ispirazione?
La maggiore ispirazione sono ovviamente gli anni 70, come ho detto nella prima domanda, mostri sacri come King Crimson e Pink Floyd, Black Sabbath, ma anche band meno note come Captain Beyond e Nektar…. Per quanto riguarda le band di nuova generazione siamo molto ispirati da band come Elder e Motorpsycho.

Siete un trio come ce ne sono tanti nella scena heavy psych blues ma con due chitarre e senza basso, la band è nata già con questo assetto o stato qualcosa che è avvenuta con il tempo?
Agli esordi la formazione era composta da chitarra, basso e batteria, dopo pochi mesi integrammo un secondo chitarrista ma il bassista causa impegni lasciò il progetto. Io cominciai a sperimentare soluzioni sonore per fare a meno del basso, utilizzando octaver e accordature più basse, e proseguimmo così. Questa nuova soluzione ebbe un grande riscontro live ed il sound che ne usciva ci piaceva molto, quindi decidemmo di proseguire così. Negli anni ovviamente lo sviluppo e la sperimentazione sonora ci ha portato alla soluzione tecnica attuale molto più complessa ma davvero molto interessante, ossia l’utilizzo di doppio amplificatore chitarra/basso pilotati da una centralina artigianale che riesce a trasformare all’occorrenza con un click le chitarre in basso/hammond/mellotron.

Il nuovo album ha degli arrangiamenti molto ricchi, dal vivo come lo presenterete? Non deve essere facile – e lo dico da musicista – riproporre dal vivo un lavoro del genere.
Collegandomi alla domanda precedente, per quanto riguarda l’aspetto live, restiamo abbastanza fedeli al disco, con le nostre pedaliere riusciamo a gestire basso, hammond e mellotron, in più il batterista riesce a suonare live dei droni/pad che abbiamo prodotto precedentemente ed inserito come sampler da suonare.

Non sarò probabilmente il primo a dirlo ma, trovo il vostro lavoro molto vicino alle atmosfere degli ultimi Motorpsycho (che personalmente adoro): cosa ne pensate?
Beh, a mio parere i Motorpsycho sono la band di nuova generazione migliore del genere, hanno un songwriting complessissimo ma raffinato e reso di semplice ascolto dalla maestria tecnica che hanno. L’ultimo album è clamoroso, sperando non passi come messaggio polemico, mi sembra curioso che in moltissime classifiche di settore dei migliori album 2020 non siano stati neanche nominati. “The All Is One” è un capolavoro, fra l’altro ultimo capitolo di una trilogia sublime, “The Tower” e “Crucible” sono anch’essi album incredibili. E’ certo che band di questo tipo hanno bisogno di un ascolto attento e ripetuto per coglierne la grandezza. Lungi da me paragonarci a loro ma sicuramente anche la nostra musica ha bisogno di un ascolto ben focalizzato, non è musica diretta, “Seaward” è un concept album basato su un argomento ben preciso, sicuramente un ascolto consapevole sul tema e sull’artwork renderebbe l’ ascolto più’ coinvolgente.

Ci sono altre band della scena italiana che apprezzate o con cui avete in qualche modo legato magari on the road?
In Italia ci sono moltissime band meravigliose, il livello è molto alto nella scena heavy psych stoner e prog; nello stile più stoner sicuramente, Black Rainbows, e Black Rlephant, nella psichedelia direi Giobia e da Captain Trips, nell’heavy psych citerei Humulus, Tuna de Tierra e Lee Van Cleef, nel doom e post rock/metal direi Messa e Vesta…. Ma sono stato molto breve, ci sono davvero moltissime band di alto livello che non sanno muoversi bene che purtroppo non hanno grande riscontro mediatico e quindi trovano pochi spazi qui in Italia e all’estero.

Cosa ne pensate dei concerti in streaming? Può essere un’opportunità o è solo un “palliativo” a causa della situazione attuale?
Faccio davvero molta fatica ad accettare il concerto in streaming, per adesso non abbiamo ancora ceduto al farlo e spero che questa situazione riparta il prima possibile. Abbiamo avuto la fortuna di fare un release ad ottobre con pubblico seduto e distanziato, sicuramente non è lo stesso dello stare in piedi fronte palco, ma credo che sia un ottima soluzione per far ripartire pian piano le cose e soprattutto per sostenere tutto il settore, club, tecnici e musicisti.

Avete altri progetti musicali oltre ai Mr. Bison o vi dedicate esclusivamente a questa band?
Ognuno di noi ha altre cose, è importante avere side project per liberare e sviluppare tutte le idee che possono essere meno idonee ad un unico progetto.

Grazie per la disponibilità e speriamo di potervi vedere “dal vivo” il prima possibile
Ringraziamo tutto lo staff del Raglio del Mulo per questa intervista, ringraziamo inoltre tutti gli addetti al settore promozione, webzine, magazine, uffici stampa, blogger per il loro tempo prezioso alla divulgazione del meraviglioso underground Italiano.

KHN’SHS – Le frequenze dell’anima

Ospite di Mirella Catena ad Overthewall Stefano Bertoli per parlare di “Close Eyes Visions” (Hellbones Records) il nuovo album dei KHN’SHS.

Benvenuto su Overthewall Stefano! Sei presente nella scena musicale da oltre vent’anni. Ci parli del tuo percorso artistico?
Ho iniziato nella prima metà degli anni 80 come batterista percussionista, l’amore per il free jazz e l’avanguardia prima e la passione per le percussioni etniche, soprattutto asiatiche poi, mi hanno portato a sviluppare una sete di ricerca per sonorità inusuali. Nei primi anni 90, dopo lo scioglimento dei Malà Strana, un combo heavy progressive in cui suonavo la batteria, insieme ad Antonella fondammo gli Iconae, un progetto che fondeva musica sinfonica e folk apocalittico in un modo decisamente inusuale. Calcola che ai tempi per vivere facevo il turnista e in quel periodo feci una ventina di date con gli Ordo Equitum Solis insieme ad Elena Previdi, proprio nel periodo in cui uscì il primo CD dei suoi Camerata Medioanense. Decisamente la dark wave e tutto ciò che ne è limitrofo hanno avuto un forte peso specifico su di me e sulla mia crescita come musicista.

KHN’SHS è il tuo progetto solista fuori da ogni schema. Ci spieghi il significato del moniker?
“Close Eyes Visions” è, invece, il tuo lavoro discografico pubblicato quest’anno e contiene una citazione di Terence Mckenna “uno sciamano non è un pazzo, uno sciamano è un pazzo che ha guarito se stesso”. Ci parli di questo album?

Il moniker ha un’estetica molto dura e diretta, priva di vocali, in realtà per suono e significato (Conscious, che ha preso Coscienza) lascia intendere la volontà di ricerca e sperimentazione del lato più profondo e spirituale della musica. E’ un progetto dedicato al drone, alla musica rituale meditativa, negli anni l’ho arricchito di esperienza spirituale e psichedelia, vedi soprattutto l’ultimo CD: “Closed Eye Visions” (Hellbones Records) che ripercorre gli studi di Terence McKenna, ma senza mai trascendere quello spirito di “immediatezza” che lo ha caratterizzato fin dall’inizio. Il suono è ottenuto esclusivamente da sintetizzatori modulari molto vecchi (un EMS Synth A del ’73, negli ultimi 6sei anni e due dischi) processato da echi a nastro. Nient’altro, puro, diretto e monolitico.

Suoni generati da sintetizzatori, ispirati alla musica rituale meditativa. Come vengono fuori le melodie? Segui uno schema compositivo, se così possiamo chiamarlo?
Tutto parte sempre da un singolo suono, una frequenza che sento dentro di me e che inizio a riprodurre con le mie macchine infernali poi l’evoluzione, costante e ciclica dello stesso attraverso lo spazio tempo con elissi sempre più dilatate, punti di partenza e di incontro che si fondono l’uno nell’altro senza in realtà mai sfiorarsi.

Come ti sei avvicinato alle discipline orientali e come ciò ha cambiato il tuo modo di concepire la musica?
Un’esigenza personale, quella spirituale, nata circa vent’anni fa e cresciuta poi in modo esponenziale, proprio nel periodo in cui KHN’SHS prendeva forma. Inevitabilmente, quando ho stabilizzato i frutti di questa ricerca ho cominciato a sentire l’esigenza di portare la mia esperienza anche all’esterno della mia classica e tradizionale sfera di appartenenza musicale fatta di dischi e concerti. Da questo nascono i bagni armonici, un’evoluzione del classico gong bath di tradizione Tibetana ma anche gli sleep concert e i concerti per meditazione che ho sviluppato in questi anni, eventi di lunga durata rispetto ai concerti tradizionali, dalle tre/quattro ore fino a tutta una notte, dove il “pubblico” perde il ruolo passivo e diventa parte di un rituale collettivo molto più ampio, sempre completamente immerso in suoni acustici ed elettronici.

Come si svolge un tuo live? Te lo chiedo per chi, come me, non ha mai assistito a rappresentazioni di questo tipo. Che rapporto si instaura con il pubblico?
Sono seduto al centro del palco, scalzo, con un sintetizzatore e un’unità eco, nient’altro. Niente fumi e raggi laser niente poser pose o altra scenografia, ci sono io c’è il pubblico e c’è la musica. Quello che avviene è un rituale, una forma di comunione dove ognuno abbandona se stesso e si trova all’interno della musica ed è straordinario. Non per tutti certo, ma solo per chi vuole comprendere e farsi portare all’interno di questo rituale.

Hai fatto diverse tournèe affiancato ad altri importanti artisti. Ci sono stati luoghi in cui ti sei trovato particolarmente a tuo agio?
Con Phurpa ho fatto due tournee in Italia, qualche giorno prima di iniziare la seconda abbiamo registrato “Yugasanti” (Torredei Records), un termine sanscrito che identifica lo “scontro fra due forze di diversa natura”. Live e one take nella nostra splendida Abbazia di San Bernardino.
Allerseelen invece mi chiamò, inizialmente, per registrare una parte di Theremin, nel remix di un suo vecchio brano, “Styx”. L’intesa è stata immediata nonostante abbiamo lavorato esclusivamente via web, tanto che su quel brano finii, prima per incidere anche le percussioni, poi per realizzare anche il video clip promozionale. Da allora ho suonato Taiko e sintetizzatori su altri tre brani e realizzato il video di “Staubdamonen”, che dovrebbe uscire su CD/Tape nel 2021. Avrei dovuto suonare con loro, come percussionista, in un festival in Germania, in Agosto, poi, è successo quello che è successo. Difficile dire cosa bolle in pentola, visto il periodo, posso dirti però che, prima del Covid, c’erano in programma altre collaborazioni ed altri concerti internazionali, soprattutto in Giappone, spero sinceramente di poter riprendere il discorso da dove si era interrotto, appena si sarà posata la cenere

Dove i nostri ascoltatori possono seguirti sul web?
Sono su tutti i social principali:
https://www.facebook.com/stefano.bertoli.666/
https://www.facebook.com/khnshs
https://www.facebook.com/Acusmatica1881

In un mondo sempre più alla deriva e sempre più pieno di incertezze, qual è il messaggio che vorresti arrivasse agli altri attraverso la tua musica?
La risposta siamo noi, sempre. Per tutta la vita ci fanno sentire “inadeguati” in una posizione di costante debolezza: non hai soldi, non hai una laurea, non hai una posizione sociale, non hai una macchina di lusso o dei vestiti costosi e se, per disgrazia, ce l’hai allora chiunque può averla, non sei speciale lo possono fare tutti. Tu non conti, tu sei solo marginale di fronte alla famiglia, allo stato, all’autorità. La grande lezione che ci hanno dato gli psichedelici è che noi siamo al centro dell’universo, l’occhio stesso del ciclone, l’immoto all’interno del caos, un Io senza Ego: la Risposta

Grazie di essere stato con noi
Sempre grazie a te per tutto il supporto. Namastè.

Trascrizione dell’intervista rilasciata a Mirella Catena nel corso della puntata del 28 Dicembre 2020 di Overthewall. Ascolta qui l’audio completo:

23 and Beyond the Infinite – Musica dall’infinito

Buona serata da Mirella, anche oggi diamo voce ai musicisti validi che popolano la scena musicale italiana, questa è la volta dei 23 and Byeond the Infinite, autori del nuovo album “Elevation To The Misery”.

Avete portato avanti un percorso evolutivo di otto anni attraverso i territori dello psych rock, del post punk, del primo shoegaze e della sperimentazione noise, e siete giunti con “Elevation To The Misery” all’attuale sound: questo cammino è stato spontaneo oppure il frutto di scelte programmatiche?
La nostra composizione è sempre frutto dell’incontro tra i background musicali e le idee, in continua evoluzione, delle quattro persone che compongono la band. Non abbiamo mai pianificato i nostri dischi a tavolino né avuto un’idea precisa di quello che volevamo fosse il sound o la composizione di un disco, tutto nasce in sala prove e lì viene sviluppato e affinato finché non ci soddisfa. Di conseguenza il nostro è un percorso evolutivo sempre molto naturale e spontaneo.

Cinque lavori in otto anni non sono pochi, da dove arriva questa costante ispirazione?
Per fortuna in tutti questi anni non abbiamo mai perso la voglia di suonare, nemmeno quando ci siamo trovati a dover sostituire il batterista per motivi lavorativi. Suonare è per noi un modo di esprimerci e cerchiamo di farlo il più possibile, in primis per noi stessi.

Rimanendo in tema di album pubblicati, oggi conta più il singolo brano o l’intero disco: in parole povere, ha ancora senso pubblicare un disco?
Sicuramente viviamo in un’epoca in cui siamo inondati da informazioni a cui abbiamo accesso pressochè in tempo reale, tutto è diventato rapidissimo e di conseguenza i singoli hanno assunto un’importanza crescente. Tuttavia, soprattutto in ambito indipendente, il disco riveste ancora una notevole importanza. Un album è la sintesi di un percorso, nonché la base di uno spettacolo live e gli appassionati di musica ancora riescono a trovare tempo ed energie da dedicare all’ascolto di un disco.

Il vostro disco in versione digitale è già disponibile, mentre si attenta la versione fisica, avete novità al riguardo ?
Purtroppo il lockdown di marzo ha bloccato un bel po’ di cose in quasi tutti i settori, ma con qualche mese di ritardo siamo pronti: il disco è disponibile, oltre che su tutte le piattaforme digitali, anche in CD, acquistabile attraverso tutti i canali social della band e delle etichette che lo hanno coprodotto, e presto lo sarà anche in cassetta. Mai come in questo periodo è superfluo ricordare agli appassionati di musica quanto sia importante dare il proprio contributo alle band in qualunque modo possibile, in attesa di poter ripartire anche con i concerti.

Il titolo potrebbe sembrare a uno sguardo superficiale pessimista, invece è un invito a rialzarsi anche nei momenti difficili: mi sbaglio?
“Elevation to the Misery” è diventata la nostra filosofia di vita, cercare di ottenere il massimo con quel poco che si ha e farlo nella maniera più personale e sincera possibile. Più che pessimismo, parleremmo di realismo e concretezza.

Siete originari di Benevento, ma vi siete spostati a Bologna per la registrazione del disco. Come mai?
Avevamo la necessità di fare le cose in tempi molto rapidi per partire per un tour europeo tra marzo e aprile (poi rimandato causa covid). Abbiamo sondato il terreno con diversi studi di registrazione, Enrico Baraldi, che già ci conosceva e aveva piacere a lavorare con noi, ci ha fatto una proposta che ci ha affascinato. Poi a Bologna avevamo l’ospitalità e il supporto di un po’ di amici… E insomma alla fine la scelta è stata abbastanza facile.

Avete scelto di utilizzare una tecnica particolare quella registrazione su nastro in prese diretta, cosa vi ha spinto verso questa decisione?
“Elevation to the Misery” è un disco passionale e impulsivo, frutto di circa tre mesi di lavoro intenso in sala prove e dunque fortemente rappresentativo dell’impatto live della band. Quando Enrico ci ha proposto di registrare in presa diretta, a nastro, sfruttando le dinamiche spontanee della nostra esecuzione e i riverberi naturali del Vacuum Studio, ci è sembrata la scelta giusta.

Qual è lo stato di salute della scena psichedelica italiana?
Come un po’ in tutti gli ambiti della musica indipendente, in Italia esistono tante valide realtà, alcune delle quali anche molto attive, ma tutte un po’ frammentate. Non esiste una rete unitaria e compatta attraverso la quale esprimersi e ognuno sgomita come può per cercare spazi. L’altra faccia della medaglia è che per fortuna, l’era della comunicazione ha reso l’Europa più vicina. Non a caso, noi come altre band della scena neo-psych italiana, cerchiamo quando possibile di proporci per tour europei, anziché solo italiani.

Avete già avuto modo di proporre i nuovi brani dal vivo prima del blocco?
Durante la lavorazione del disco abbiamo fatto alcuni live in cui abbiamo suonato in anteprima anche qualche pezzo nuovo. È fondamentale rodarli dal vivo in vista del tour ed erano anche quelli che ci rappresentavano meglio in quel momento, quindi perché no.

Quali sono i ricordi più belli legati alla vostra attività dal vivo?
Come tutte le band, spesso tra di noi ricordiamo episodi divertenti successi vivendo insieme in tour. Ma i ricordi più belli sono sicuramente i momenti di condivisione e scambio di energie come le partecipazioni ai festival o le aperture a band internazionali. Avevamo grosse attese per la data al Supersonic di Parigi in compagnia dei Camera, una delle più interessanti realtà post punk contemporanee, originariamente prevista per fine marzo scorso e che speriamo di poter recuperare quanto prima.

Trascrizione dell’intervista rilasciata a Mirella Catena nel corso della puntata del 14 luglio 2020 di Overthewall. Ascolta qui l’audio completo:

Black Rainbows – La poesia del diavolo

Con la forza di una tempesta di sabbia, tornano sulle scene gli italianissimi Black Rainbows, autori, a mio avviso, di uno dei migliori album dell’anno in ambito stoner. Sentiamo cosa ha da dirci in proposito Gabriele Fiori, leader della band.

Ciao Gabriele, benvenuto su rawandwild.com!
Ciao a tutti.

Parto subito con una “leccata” in pieno stile: nella mia recensione vi ho citati come unici veri eredi dei Kyuss. Te la senti di smentirmi?
Ti ringrazio per l’immenso complimento, ma diciamo che siamo in tanti ad aver usufruito della lezione musicale dei Kyuss. Comunque sì, ci rifacciamo molto a loro sound, sembra evidente. Sicuramente non ci siamo inventati nulla e il nostro vuole essere un tributo a loro e a tutta quella musica che viene dagli anni 60-70. Magari in Italia siamo poche band a dividerci la scena e quindi questo ci lascia più spazio. Questo stile continua a fare proseliti, nonostante sia un genere mainstream. La scena al momento è più ricca che mai. Per rispondere più precisamente alla tua domanda, beh, magari ora come ora non lo siamo, ma speriamo un domani di diventarlo!

Ti va di presentarci “Carmina Diabolo”?
“Carmina Diabolo” è il nostro nuovo lavoro, edito da Longfellow Deeds Records in cd e doppio vinile rosso, con un fantastico artwork firmato da Angryblue, grande illustratore americano. Rispetto al precedente album, “Twilight In The Desert”, che è nato in studio e non è mai stato provato live, per “Carmina” abbiamo cominciato a suonare i pezzi sul serio, con Daniele alla batteria e con Marco al basso, facendo decine e decine di concerti. Abbiamo eseguito i brani che sarebbero stati poi registrati, in modo da sapere come funzionavano e avere così un’idea più precisa di come sarebbero venuti in studio. Abbiamo aspettato il momento esatto affinché ci fossero i brani giusti per riempire l’intero album. Di canzoni ne avevamo parecchie, e così abbiamo potuto scegliere le migliori. L’album è composto da 10 tracce e il running time è di 45 minuti.

Cosa significa il titolo?
Il titolo in latino vuol dire “canzoni per il diavolo” . In ogni disco mi piace affrontare un tema diverso: in “Twilight” c’era il deserto a farla da padrone; qui ci siamo voluti spingere in argomenti più accattivanti come il diavolo. Nulla di esoterico, intendiamoci, volevamo solo usare questa figura come tematica per l’album. L’artwork esprimere in pieno quest’idea!

Pur essendo rimasto colpito alla grande dal vostro esordio, devo ammettere che questo secondo capitolo è superiore in tutto. Quali credi che siano le maggiori differenza fra i due album?
Come ti dicevo precedentemente, questo disco è nato da ore di jam. Provando e riprovando, portandolo in tour, e vedendo un po’ le reazioni del pubblico ai vari brani. La produzione in questo caso è di qualità estremamente superiore. Ho sempre registrato personalmente i dischi che ho fatto, questa volta pero è stata dedicata molta più attenzione ai particolari, solo per il suono di chitarra sono stato una settimana chiuso in studio a cambiare amplificatori, spostare i microfoni per avere quello che cercavo. Alla fine sono stato molto soddisfatto. Per la batteria anche, sono andato fino a Fiuggi da un amico per farmi prestare uno strumento con delle dimensioni enormi! In “Carmina” credo che i pezzi siano più tirati, e a livello compositivo più definiti e leggibili e diretti anche a un primissimo ascolto.

Il mio curriculum di amante dello stoner rock dovrebbe permettermi di affermare, senza mettere a repentaglio la mia incolumità fisica, che talvolta il limite di questo genere è l’eccessiva somiglianza dei brani contenuti all’interno di uno stesso album. Voi come siete riusciti a scongiurare questo rischio?
Aspettando quasi tre anni dall’uscita del precedente disco, in modo da avere più materiale possibile tra cui scegliere e avere la capacita di accostare i brani giusti tra loro. Una delle mie band preferite sono i Motorpsycho, un’entità talmente poliedrica da poter passare dall’heavy psychedelia al rock ‘n’ roll, mentendo un proprio stile. Sono d’accordo con quello che affermi a proposito di questo genere, a volte ha un grande limite. Trovi delle band meravigliose, che però si perdono con pezzi tutti troppo simili tra loro, e ascoltando un live o un disco dopo quattro brani fai fatica a seguirli perché sai già come sarà il pezzo successivo. Non ti stupiscono mai variando un po’ qua e là in modo da farti recuperare un po’ di attenzione nell’ascolto. Comunque, cerchiamo proprio a tavolino di scongiurare questa cosa. Suonando da parecchio, capisci che il pubblico vuole essere stimolato il più possibile. Se gli appiattisci l’ascolto, non ti da più fiducia! Noi abbiamo appena inserito due brani nel live show, uno di Eddie Cochran, “C’mon Eeverybody”, del 1958 e un pezzo dei mitici MC5, proprio per smuovere un po’ il set.

Meravigliosa nella sua semplicità la copertina dell’album…
Sì semplice e costosa soprattutto! L’artwork è stato affidato ad Angryblue, illustratore americano che ci ha fatto aspettare 6 mesi per avere un paio di suoi disegni, ma credo ne sia valsa la pena, perché ha fatto un lavoro veramente eccellente. Con questa grafica poi sono stati fatti flyer, magliette e vario merchandise, quindi grafica sfruttata al massimo e comunque a pagare è stata l’etichetta… quindi ancora più contenti!

Parlami allora un po’ di questo merchandising…
E’ gia in vendita da tempo, insieme a Straight to Hell. Abbiamo fatto quest’edizione limitata di maglie ad alta fattura. Stampate in fronte e retro, con la migliore qualità di tessuto in commercio e stampa a 3 colori. Le immagini le potete trovare sul myspace della band.

Dal vivo come state messi?
Dal vivo quest’anno abbiamo suonato molto proprio per promuovere l’uscita del disco. In particolare, due diverse tournee: la prima in Germania di dieci date e un’altra in Svizzera e Austria di cinque. Beh che dire, un esperienza davvero bella, quasi un avventura sotto certi punti di vista. Siamo riusciti a caricare tutto su un piccolo van e siamo partiti pienissimi, full backline quindi con tutti gli strumenti, per andare incontro (in Germania) all’inverno più freddo e nevoso degli ultimi trent’anni! Lì abbiamo cominciato subito aprendo un concerto per i Nebula, in un locale molto bello nel centro della Germania, e in seguito abbiamo suonato anche con Vic du Monte e Alfredo Hernandez storici componenti dei Kyuss! Poi siamo stati in città come Amburgo, Berlino, Lipsia, Salisburgo, sempre in club molto gradevoli e soprattutto pieni di pubblico, anche in mezzo alla settimana. La cosa bella è che di gente ce ne è parecchia che esce, magari sul presto, infatti i concerti cominciano sempre prima delle 23! Tutte le persone seguono il concerto dall’inizio alla fine anche non sapendo chi sei, e facendo sentire sempre il loro supporto… abbiamo riscontrato questo anche nelle vendite del merchandise! Non c’è mai stato il minimo problema né con il pubblico né con i locali: il sound nei posti è stato sempre ottimo (al contrario della maggior parte dei posti in cui si suona in Italia!) e la gente in generale sempre molto disponibile e molto socievole… cosa che non sempre succede qui da noi. In Svizzera e Austria è successo più o meno lo stesso, siamo stati a suonare a Zurigo, Winterthur, Lucerna sempre ottimo pubblico e tanta birra! In Italia stiamo suonando un po’ ovunque, anche a Roma aprendo per gli Airbourne all’Alpheus, dove ci saranno state 800 persone, poi Dead Meadow, Fatso Jetson…

L’incidere per un’etichetta francese, credi che vi dia una maggiore visibilità all’estero?
Non è detto a priori…dipende da come uno lavora. Nel nostro caso ci ha detto bene. Lavorano al meglio e investono nella band, con un contratto per tre dischi e pagandoci artwork, il vinile doppio, che deve essere costato un occhio, e la promozione. Sicuramente tutto ciò stimola sia noi come band che l’etichetta a guardare più al mercato, non solo italiano ma anche internazionale, soprattutto in posti come Germania, Austria e Svizzera, dove il rock tira di più.

A te la chiusura…
SUPPORT YOUR LOCAL SCENE … comprateve il disco ..soprattutto il vinile costatoci sforzi sovrumani e più di un anno di lavoro! Rock on!

g.f.cassatella

Intervista originariamente pubblicata su www.rawandwild.com nel 2010 in occasione dell’uscita di “Carmina Diabolo”
http://www.rawandwild.com/interviews/2010/int_black_rainbows.php