Vexillum – Vessilli di guerra

Universi partoriti dalla fantasia che possono regalare momenti di svago ma anche sbattere in faccia la durezza dei giorni che viviamo. L’arte dei Vexillum è una metafora, e nel nuovo “When a Good Man Goes to War” (Scarlet Records) questo aspetto di didascalico viene amplificato dalla assurda situazione in cui attualmente languiamo.

Benvenuto su Il Raglio Michele, vi avevamo lasciato con “Unum”, un disco che probabilmente ha tracciato un solco nella vostra storia: questi sei anni di attesa sono dovuti al carico di responsabilità derivanti dal dover dare un degno successore a quell’album?
Ciao Giuseppe, intanto grazie per questa opportunità. Sicuramente “Unum”, ha rappresentato un tassello importante, un concept con cantanti importanti a duettare con Dario, è stato davvero un capitolo segnante per la vita della band. Di certo l’esigenza di mantenere alto il livello, se non alzarlo ulteriormente, è uno dei nostri obbiettivi da sempre e da qui anche il bisogno di prendere il tempo necessario perché l’ispirazione e l’energia creino la situazione giusta, come hai detto tu la responsabilità si fa sentire. Aggiungo anche che dopo la tournée di supporto ad “Unum”, abbiamo avuto la necessità, più o meno tutti all’interno della band, di occuparci delle evoluzioni delle nostre vite private e quindi di un po’ di tempo per noi.

Cosa rappresenta questo nuovo album nella vostra discografia e cosa aggiunge di nuovo rispetto alle uscite precedenti?
Questo album si riallaccia direttamente a “The Bivouac”, a quel tipo di composizioni, ma porta con se un tono più scuro, derivante da una rabbia e sentimenti che sentivamo la necessità di esternare. Questa atmosfera si rispecchia nei temi ed emerge nel sound, quest’ultimo sicuramente più ricco e ricercato rispetto al passato, è una diretta evoluzione del nostro stile, con tutti gli elementi che ci sono sempre piaciuti, ma ancora più potente e diretto. “WGMGTW” per come lo sento rappresenta un po’ l’ album “della maturità”, una sorta di passaggio all’età adulta musicale per la band, e sicuramente una linea di demarcazione tra il passato ed il futuro.

Il vostro sound base è una miscela di power di matrice tedesca con influenze celtiche, ma c’è un qualcosa che vi identifica come gruppo italiano?
E’ una domanda interessante, la cosa principale che mi viene in mente sono i nostri live, il nostro modo di fare e di intrattenere festaiolo è tipico di noi italiani, la ricerca dell’energia che deriva dalla partecipazione attiva del pubblico. Poi in questo nuovo album per la prima volta abbiamo inserito una canzone inedita in italiano, a questo giro siamo più italiani anche sul disco!

Il disco precedente era ricco di ospiti importanti e si concludeva con un paio di cover. In “When Good Men Go To War” pare quasi che abbiate espresso la volontà di rinchiudervi in voi stessi, facendo tutto da soli e senza necessariamente dover rendere il vostro tributo ai grandi del passato. Questa mia sensazione è esatta oppure no? Qualora lo sia, è stata una scelta conscia o inconscia?
Posso dire che questa scelta sia stata voluta, la sensazione di cui parli non è sbagliata, ma più che rinchiuderci in noi stessi è stata la volontà di voler affrontare questo capitolo con le sole nostre forze, nel bene e nel male. Ci siamo domandati diverse volte se fosse una scelta da valutare meglio, sarebbe stato sicuramente interessante, o se fosse una buona mossa di marketing, portare uno o più ospiti anche su questo nuovo lavoro, ma alla fine non ne abbiamo mai veramente sentito il bisogno, io personalmente non ho mai pensato ad un singolo verso di questo disco cantato da altri se non da Dario. Lo stesso discorso vale per le eventuali cover, avevamo già molto materiale nostro su cui lavorare. Con questo non vogliamo assolutamente peccare di arroganza o mancare di rispetto ai giganti a cui ci ispiriamo, le collaborazioni sono sempre e comunque molto stimolanti. A pensarci è un ottimo paragone con il setting dell’album, su una nave davanti ad una tempesta imminente da soli e devi affrontarla con le tue forze.

Il disco è stato preceduto dal singolo\video “When a Good Man Goes to War”, brano che da anche il nome al disco. All’interno dell’album questo pezzo ha un significato di rilievo?
Sicuramente, abbiamo scelto questo brano come apripista per il disco proprio perché ne incarna completamente il mood e l’atmosfera. Non per nulla da questo brano è tratto il titolo dell’intero lavoro. Nonostante ogni canzone sia una storia assestante c’è un filo conduttore sottile che viene portato avanti in ognuna. In ogni canzone il tema, le emozioni e le storie raccontate sono un tassello di un disegno più grande che trova la massima rappresentazione in “When a Good Man Goes To War”.

Il titolo del disco va anche contestualizzato al momento che viviamo oppure no?
Questo è un argomento di cui discutiamo spesso anche tra di noi, e la risposta è si, assolutamente. Nonostante la creazione di tutto il materiale sia cominciata abbondantemente prima di questa assurda situazione mondiale non possiamo fare a meno di considerare tutto quello di cui si parla perfettamente attuale. Direi sotto quasi tutti gli aspetti da quello politico a quello sociale; in alcuni casi le tematiche descritte molto prima della pandemia sono diventate veri e propri problemi all’ordine del giorno, amplificati dalla pandemia e dalla mancanza di un vero senso di comunità. Oltre che ad intrattenere e regalare un momento di svago e spensieratezza con la nostra musica speriamo che questo disco possa far riflettere chi deciderà di ascoltarlo, perché di spunti ce ne sono davvero molti e, mi ripeto, molto attuali.

Ad ogni modo, un’opera come la vostra dal sapore antico e mitologico, può rappresentare un momento di fuga dalla realtà. Quanto è importante il poter uscire, almeno mentalmente, dalla cattività in cui viviamo grazia alla musica?
Adesso è fondamentale, con la situazione della pandemia che ancora va avanti ed il mondo dello spettacolo praticamente fermo da più di un anno ogni occasione di fuga credo che sia di inestimabile valore e da cogliere al volo, per staccare anche solo temporaneamente da questa “versione ridotta” della vita a cui siamo stati abituati e per, magari, alleggerire il senso di sopportazione che volenti o nolenti subiamo da un po’. Avevamo dei dubbi se far uscire proprio adesso questo nuovo lavoro, per la paura di non poterlo sostenere con una vera e propria promozione di concerti live, ma credo che la scelta sia stata comunque giusta perchè proprio per i motivi che hai sollevato non andrà comunque “sprecato”.

Alla luce della risposta precedente, qual è il ruolo dell’artista oggi?
Il ruolo dell’artista è oggi più che mai quello di creare un ponte con una dimensione che sia migliore o comunque diversa da quella che si ha nella realtà di tutti i giorni, nella quale chi ne giova può trovare rifugio e come dicevamo prima staccare la spina per un po’. Più di una volta mi è capitato di persona di essere letteralmente “salvato” da una canzone, da un film, da una poesia. Spero anche che tutti si ricordino quanto questo ruolo dell’artista sia importante e da valorizzare, lo dico perché mi sembra che troppo spesso sia un qualcosa di dato molto per scontato dai più. Vorrei vedere tutti catapultati improvvisamente in un mondo senza arte, senza musica, quale sarebbe la reazione, forse solo in quel caso si percepirebbe la profonda importanza del lavoro e del ruolo dell’artista. Andando avanti sulla strada sulla quale siamo, spero momentaneamente, non manca tanto. Supportate l’arte e supportate gli artisti che vi piacciono!

Siete arrivati al quarto capitolo della saga, ce ne saranno altri e, se sì, avete già in mente il canovaccio dei prossimi passi?
Assolutamente si, durante il lockdown del 2020 abbiamo avuto modo di buttar giù diverse nuove idee che andranno sicuramente a formare i prossimi lavori, e con la nostra nuova etichetta abbiamo già preso accordi per i prossimi capitoli. Al momento è sicuramente presto per parlare di qualcosa di concreto o anche solo di canovaccio. Riguardo ai prossimi passi, stiamo lavorando molto per cercare di dare un supporto più “live” possibile a questa uscita, sfruttando più possibile i social network e le piattaforme di streaming, ovviamente con la speranza che riparta al più presto la possibilità di trovarsi ancora una volta tutti a scapocciare su e giù da un palcoscenico.

Stilema – La concretezza dell’utopia

Laziali d’origine, irlandesi di elezione, gli Stilema, dopo aver editato nel 2017 l’EP “Ithaka”, sono tornati con il loro primo album nel 2020. “Utòpia” (Hellbones Records) presenta una compagine ancora più attratta dalle sonorità folk irlandesi, ma, nonostante questo, cuore e lingua restano orgogliosamente italiani.

Ciao Gianni, nel giro di qualche anno siete passati da Itaca, la casa per antonomasia, il luogo del ritorno al non luogo dell’utopia. Questa contrapposizione tra i titoli dei vostri due ultimi lavori – “Ithaka” del 2017 e “Utòpia” del 2020 – è causale oppure nasconde un cambio di filosofia all’ interno alla band?
Ciao Giuseppe, è stato casuale, poi ci abbiam giocato su, per unire dal punto di vista visivo i due mondi.  E’ casuale perché “Ithaka” è ispirata all’omonima poesia di Kavafis, da un’idea della nostra ex flautista Alessia Oliva, che mi fece leggere la poesia diversi anni prima dell’effettiva pubblicazione del disco, chiedendomi se riuscivo a farne una canzone. “Ithaka” parla del viaggio, dell’esperienza che cresce ad ogni angolo di mondo scoperto, fino al ritorno a casa, quell’Itaca che si identifica con la fine della vita. Quindi è un testo molto introspettivo oltre che celebrativo dell’opera originaria. “Utòpia” ha un’origine più sociale e politica, il testo punta il dito contro la società che pensa al popolo solo come capitale e non dal punto di vista umano, che si erge a giudice che esclude invece di includere. A tutto questo si contrappone la città di “Utòpia”, un non luogo ben scolpito nelle nostre menti. Seguendo l’idea dell’artista dei due artwork, Elena Bugliazzini, abbiamo pensato di legare i due lavori attraverso le copertine. “Ithaka” è parte del mondo greco, di un mondo greco di cui ha fatto parte Platone e la sua “Atlantide”, dall’utopia greca arriviamo a quella rinascimentale, alla “Nuova Atlantide” di Bacon ad esempio. Se unisci gli artwork dei due dischi vedrai che sono come due tessere di un puzzle, un unico grande disegno, il primo rappresenta il mondo greco con la sua architettura ed i suoi strumenti musicali, che si trasformano per continuità nel secondo, nell’architettura e nei strumenti musicali propri della società rinascimentale.

Al netto del discorso ideologico, quale credi che sia il segnale più evidente di crescita tra i due lavori?
“Ithaka” è stato un primo esperimento di diversi musicisti che ad un certo punto si sono incontrati, o meglio, nuovamente incontrati, visto che c’è stata una prima fase in cui la band era totalmente acustica, cantautoriale e molto Irish, per provare a fare qualcosa di nuovo. “Utòpia” è la naturale evoluzione, soprattutto il risultato di un lavoro come una band unita. A prescindere dall’autore di un brano, remiamo tutti nella stessa direzione, ed il fine è quello di essere liberi di cambiare continuamente prospettiva, pur rimanendo sempre riconoscibili. Ci autodefiniamo una folk metal band, ma la varietà è alla base di “Utòpia” e della nostra musica. In questo disco passiamo dall’epic/power al symphonic, dal folk metal più classico al gothic, con accenni al prog, e c’è una parte persino in blast beat, per finire con una canzone d’amore con piano, voce e violino. I nostri pezzi puntano sull’emotività, i testi pesano molto in questo senso, quindi è anche giusto che i brani si esprimano nei modi più disparati. Il fine è non avere confini musicali di sorta, questa è la più grande crescita.

Dal punta di vista tecnico, il cantare in italiano non vi crea problemi di metrica?
L’italiano è la nostra lingua madre, ciò rende tutto più facile. Sono anche molto abituato ad ascoltare cantanti italiani: De Andrè, Branduardi, Battiato, fino a Caparezza, quindi questo mi aiuta molto, più ascolti cose, più accresci la tua esperienza e sai gestire meglio le cose per le tue esigenze.

Restando sempre in tema, non avete paura che una musica di così ampio respiro come la vostra possa essere penalizzata oltreconfine dall’uso dell’idioma italiano?
Anni fa cantare metal in una lingua che non fosse l’inglese era forse un’eresia più grande rispetto ad oggi. Adesso direi che sia un semi problema. Dall’estero ci hanno effettivamente chiesto il tema dei nostri testi, ecco perché nei nostri due lyric video montati per “Il Volo Eterno” e “Tra Leggende E Realtà”, abbiamo aggiunto anche una traduzione inglese. Ma siamo in buona compagnia, molte folk metal band e non, cantano ormai in lingua madre. Pensa ai Korpiklaani, ai Mago De Oz, agli Arkona, o ai Rammstein. In ogni caso, non mettiamo alcun veto, abbiamo un paio di canzoni nuove anche in inglese, ma penso sempre che si debba conoscere bene una lingua, oltre che la pronuncia, la grammatica, ci si deve convivere quotidianamente per non rendere il tutto banale o anche peggio. Non so se hai mai sentito “Frutto Del Buio” dei Blind Guardian? Se uno di madre lingua inglese deve soffrire così ogni volta che ascolta un cantante non inglese, penso sia meglio cantare nel proprio idioma.   

Siete attratti della filosofia greca, amate il folk irlandese e cantate in italiano: facendo una sintesi cosa rappresenta per voi la musica e perché sentite la necessità diffonderla?
Siamo attratti da tutto ciò che può avere un significato in un determinato momento della nostra vita, che lo si trovi nella filosofia, nella poesia, nella politica, o in “Star Wars”. Penso che ognuno di noi abbia il suo miglior modo di esprimere i suoi pensieri. Per quel che mi riguarda, la musica è il modo per me più congeniale per comunicare con gli altri. Tutti abbiamo bisogno di un dare ed un avere dall’esterno, c’è chi lo fa parlando, chi scrive un libro, noi lo suoniamo. 

E’ passato un anno e più dalla pubblicazione di “Utòpia”, in questo lasso ti tempo la percezione di questo lavoro da parte vostra è cambiata? Oggi lo rifareste uguale?
Ovviamente tutto è infinitamente migliorabile, ma siamo abbastanza soddisfatti di “Utòpia”. In gran parte lo rifarei uguale. In questo lasso di tempo abbiamo giusto equilibrato meglio “Mondi Paralleli”, che nel cd ha un’intro davvero troppo lunga ed una parte folk troppo sacrificata.

Il disco è uscito nel pieno della pandemia, siete riusciti a proporre qualcosa dal vivo tra una chiusura e l’altra?
Purtroppo la fortuna non è stata dalla nostra parte. Siamo riusciti a fare una serata a fine estate al Traffic di Roma, ed è stata l’unica data che non abbiamo dovuto annullare. Ad oggi quindi non abbiamo ancora portato in giro il disco in un tour vero e proprio. Stiamo pensando, sperando ovviamente che si possa tornare al più presto a calcare i palchi veri, almeno ad un live in streaming. Per saperne di più vi invitiamo a seguire la nostra pagina ufficiale di facebook: www.facebook.com/stilemaofficial 

Qual è il vostro maggior rimpianto legato ad “Utòpia” e alla situazione in cui stiamo vivendo?
Ovviamente non aver ancora potuto portare in tour “Utòpia” è avvilente, anche perché il feedback della critica e dei ragazzi che lo hanno ascoltato è stata positiva oltre ogni aspettativa. Ma questo non è niente rispetto a questa pandemia che ha davvero distrutto il mondo come lo conoscevamo. Il Covid ci ha semplicemente sottolineato quanto tutto ciò che siamo come essere umani, tutto ciò su cui si basa la nostra esistenza quotidiana, sia terribilmente fragile e facilmente annientabile. Noi come musicisti non facciamo che ripetere il mantra di sperare di tornare a calcare i palchi al più presto, ma il nostro è semplicemente un frammento di ciò che tutti sperano per se stessi, tornare a vivere la propria vita.

Prossimi progetti?
Abbiamo già molto materiale nuovo su cui stiamo lavorando. Dovevamo pur sfruttare questo tempo in mancanza di live. Speriamo di riuscire ad avere anche qualche ospite speciale in qualche brano. Ma per ora non ti posso dire altro. 

Fiaba – Storie magiche

Una realtà musicale italiana che il mondo ci invidia, ospite su Overthewall la mente creativa e l’anima dei Fiaba, diamo il benvenuto a Bruno Rubino!

Ciao Mirella. Grazie

Posso senz’altro dire che ascoltando i Fiaba veniamo catapultati in un mondo di favole, sogni ed incubi, il tutto accompagnato da una colonna sonora imponente, non per nulla siete stati definiti “la più grande rock band medievale del mondo”. Che effetto fa godere di una tale considerazione?
In realtà, quando abbiamo sentito questa definizione abbiamo pensato: siccome, siamo l’unica rock band medievale, è facile! Scherzi a parte, è molto gratificante avere questo tipo di riconoscimento.

Dopo otto anni dall’ultimo album, “La Pelle nella Luna”, tornate con “Di Gatti Di Rane Di Folletti e D’altre Storie”, un album atteso dai fan e che conferma ancora una volta l’originalità e l’estro creativo dei Fiaba. Perché tutto questo tempo e come mai la scelta di pubblicarlo in un periodo così ingrato per la musica e i live?
Ci sono sempre problemi quando si affronta un lavoro così impegnativo. Poi ci sono contingenze particolari che creano ulteriori rallentamenti: abbiamo dovuto smantellare il nostro storico studio “Le caverne del fauno”, un garage sotterraneo dove avevamo per altro girato anche tutti i videoclip dei Fiaba: “Angelica e il Folletto del Salice”, “I Sogni di Marzia” etc… Lì avevamo lo studio di registrazione, abbiamo iniziato le takes di questo album e quindi siamo stati costretti ad interrompere le sessioni per causa di forza maggiore. E’ stata un’operazione lunga e anche costosa, perché abbiamo dovuto smaltire anche molto materiale secondo le nuove normative. Poi, chiaramente, facendo la scelta di creare qualcosa di artistico e di non piegarci alle logiche commerciali delle major nazionali, facendo musica seguendo l’ispirazione e mantenendo la nostra libertà creativa abbiamo dovuto utilizzare budget commisurato ad una etichetta indipendente. Fortunatamente, abbiamo trovato come sempre persone che hanno apprezzato e condiviso lo spirito del nostro progetto. Questo implica il fatto che non puoi avere dei budget grossissimi, quindi per mantenere un livello artistico e tecnico alto, devi dilatare i tempi. Il rovescio della medaglia dell’indipendenza artistica è quello che devi aspettare di più per far uscire un lavoro se vuoi mantenere alto lo standard qualitativo a livello di produzione audio. Quindi, metti questo insieme alle citate contingenze relative alla sala di registrazione, e si capisce l’intervallo di tempo tra le produzioni, che ha fatto si che il disco uscisse in questo periodo così complicato per chi fa musica soprattutto in ottica di concerti live. A me però piace pensare che un lavoro importante come “Di Gatti Di rane Di folletti e D’altre Storie” sia comunque un “parto”  difficile con un travaglio altrettanto impegnativo.

“Di Gatti Di Rane Di Folletti e D’altre Storie” è il sesto lavoro discografico dei Fiaba, quanto è durata la gestazione dell’album?
La gestazione è stata brevissima perché, a parte i primi tre brani dell’album, gli alti erano tutti pezzi che avevamo già realizzato da 30 anni a questa parte. Andare a registrare i brani e realizzare il disco poi è diventato complicato per le questioni contingenti che ho spiegato poc’anzi, non per situazioni creative. Vista la coerenza stilistica mantenuta negli anni, non si trovano differenze tra i nuovi brani e quelli che erano nel cassetto. Considera che siamo andati a riprendere vecchie registrazioni, provini dei pezzi su audiocassetta, per poter riascoltare gli arrangiamenti dell’epoca nelle prima stesure e controllare che non avessimo dimenticato nessun particolare al fine di ricreare e proporre le intenzioni del momento. Non ti accorgi, per esempio, che un brano come il “Il gatto del Campo dei Biancospini” è stato fatto circa 28 anni fa mentre “Il gatto con gli Stivali” è recentissimo.

A scavare nelle favole si trova sempre un significato recondito, dietro alle filastrocche come Ambarabà Ciccì Coccò ci sono vere proprie storie legate a tradizioni e a superstizioni. Ci parli della ricerca che hai fatto su queste tematiche?
Io lavoro sempre in base all’ispirazione e alle emozioni che mi coinvolgono: ci sono cose che mi colpiscono sul momento, che possono essere immagini o narrazioni, poi vado a ricercare quello che mi interessa in merito a quei temi, anche per fare un discorso filologicamente corretto il più possibile. Alla fine, raccogli quelle cose che ti servono per la narrazione e le emozioni del momento.

A recitare in modo incomparabile i brani dell’album, il bravissimo giullare cantore Giuseppe Brancato, altro punto di forza nella band. Citiamo la line up completa?
In ordine sparso: Giuseppe Brancato – voce; Bruno Rubino – batteria; Graziano Manuele e Massimo Catena –  chitarre; Davide Santo –  basso. Io, Brancato e Catena siamo i componenti di più vecchia data.

A chi è stato affidato l’artwork della copertina e a cosa è ispirato?
È una fotografia di Marketa Novak, artista ceca che si rifà al famoso dipinto di Ophelia. L’artwork è stato realizzato dal bravissimo Marcello Magoni, un artista completo in quanto musicista e scultore, oltre che raffinato grafico. Anzi, con l’occasione per consigliare ai lettori l’acquisto di “Agreste Celeste”, album bellissimo su vinile dei Vade Aratro, band di Magoni. Lo considero un disco molto ispirato ed interessante.

I Fiaba sono una band che il mondo ci invidia ma geograficamente collocata in una regione, seppur fonte d’ispirazione, dove la musica underground o cosiddetta di nicchia, non viene valorizzata. Quanto vi ha penalizzato questo e ci sono stati momenti in cui hai pensato di mollare tutto e trasferirti altrove?
Diciamo che la cosa ci ha penalizzati ma che è anche una delle caratteristiche principali dei Fiaba è la lingua italiana. L’italiano è poco conosciuto nel mondo e questo è un punto di forza artistico ma anche un punto di debolezza a livello commerciale. Avremmo potuto decidere di scrivere in inglese ma non avendo la stessa padronanza della lingua è più difficile rendere il significato profondo dei testi, creare giochi di parole, allegorie, metafore o giochi ipertestuali, che tra l’altro in questo album abbiamo segnalato nella legenda del booklet tramite il segno di “grado di lettura”: chi verrà in possesso del disco, capirà cosa di cosa si tratta. Se ci avessero proposto qualcosa ad alti livelli, avremmo potuto fare questo tipo di operazione per raggiungere più gente possibile, anche se sarebbe preferibile scegliere un’altra lingua più per una ragione artistica che per calcolo commerciale. Avrei potuto scegliere di muovermi indipendentemente dalla band per suonare all’estero con altri ma non è capitato, ed avrei dovuto rinunciare comunque ai Fiaba. In realtà, penso che debbano essere i posti a chiamarti, allora vale la pena di muoversi .

Comunque i Fiaba hanno creato il loro progetto con la lingua italiana e forse, avessero seguito la moda dell’utilizzo dell’inglese, certe cose non le avrebbero realizzate. I Fiaba sono questi.
Sono d’accordo e c’è anche un rovescio della medaglia, se avessimo avuto un grosso contratto con una major avremmo avuto sicuramente mezzi e tempi differenti per realizzare i nostri album ma lavori come “Lo Sgabello del Rospo” o “Il Bambino Coi Sognagli” non sarebbero mai nati perché nessuna major avrebbe permesso la pubblicazione di un concept sulle rane o una suite di 18 minuti dai tempi assolutamente non radiofonici. I nostri fan devono capire che il sacrificio che abbiamo fatto, con i Fiaba diffusi nel mondo con una risonanza minore di quella che avrebbero potuto avere, è il contraltare della libertà che abbiamo di fare musica senza compromessi. Purtroppo stiamo vivendo un periodo nero per i live e la musica in generale.

Come vi siete organizzati per la promozione del disco e cosa pensi della situazione attuale?
Per la promozione, fortunatamente possiamo utilizzare internet che ci permette di raggiungere un’enorme quantità di ascoltatori in Italia e all’estero. Per l’altro discorso mi ero ripromesso di non parlarne in ambito di dissertazioni artistiche, già i media mainstream ne stanno disquisendo anche troppo. Mi sento comunque di dire che adesso è un momento molto delicato e non tutti stanno capendo ciò che succede, invito pertanto a documentarsi e farsi un’idea in base alla propria consapevolezza e comunque la si pensi, che un pangolino abbia avuto rapporti promiscui con un pipistrello o che ci siano delle responsabilità, dobbiamo cercare di restare uniti e non aver contrasti tra di noi: malgrado si possano avere punti di vista differenti, bisogna cercare elementi comuni e mettere da parte le divergenze.

L’album è stato pubblicato per la Lizard Records. Com’è nata questa collaborazione e cos’ha determinato questa scelta?
Loris Furlan, che è il mastermind della Lizard, è un amico, ci conosciamo da 30 anni. E’ stato il primo a credere nei Fiaba. Nel 1991 acquistò una nostra audiocassetta, era un demo, ed e stato lui a trovarci il primo contratto discografico, chiaramente  la fiducia nei confronti di Loris è smisurata. E’ importante collaborare con persone convinte della validità del progetto.

Dove i nostri ascoltatori possono seguirvi sul web?
Sicuramente sulla pagina Facebook dei Fiaba. E’ sempre aggiornata su tutto quanto ci riguarda.

Grazie di essere stato qui con noi!
Grazie a voi.

Trascrizione dell’intervista rilasciata a Mirella Catena nel corso della puntata del 7 Dicembre 2020 di Overthewall. Ascolta qui l’audio completo:

Ensiferum – Children of the sea

ENGLISH VERSION BELOW: PLEASE, SCROLL DOWN!

La ciurma della drakkar degli Ensiferum continua il proprio giro del mondo con la solita efficienza, conscia dell’importanza che il mare ha nella vita di ogni marinaio. Capitan Sami Hinkka e i suoi con “Thalassic” (Metal Blade) hanno deciso di rendere omaggio proprio al prezioso elemento da cui è partita la vita sul nostro pianeta.

Benvenuto Sami, potresti presentare ai lettori italiani il tuo nuovo album “Thalassic”?
“Thalassic” è l’ottavo album degli Ensiferum e, oltre ad essere un disco d’assalto, è il primo a presentare il nostro nuovo cantante / tastierista Pekka Montin ed è anche la prima volta che proponiamo un concept.

Il 10 luglio Ensiferum terrete il releasy party virtuale: potresti anticipare qualcosa sullo “Studio Live” show?
Abbiamo creato una setlist molto interessante con un sacco di canzoni nuove, vecchie e rare. Questo è uno spettacolo molto particolare perché non ci sarà alcun pubblico. Gli Ensiferum sono sempre stati “una band dal vivo” e abbiamo i fan più folli del mondo, quindi ora che manca l’interazione con la folla, abbiamo dovuto inventarci qualcos’altro per far partecipare le persone al concerto. I fan possono inviarci domande in anticipo e risponderemo a quelle durante le pause del concerto e alla fine ci sederemo e chatteremo con il pubblico. Sarà qualcosa di completamente diverso ma sono sicuro che sarà molto divertente per tutti.

Thalassic è una parola di greco antico e significa “relativo ai mari”: qual è il ruolo del mare ai nostri giorni in cui gli aerei dominano i cieli e l’uomo viaggio nello spazio?
Heh, questa è una domanda troppo difficile. Diciamo solo che senza acqua non c’è vita, questo è il ruolo più importante del mare.

Thalassic deriva dal greco antico e invece Ensiferum è una parola latina, c’è quasi una sorta di connessione tra voi e i nostri avi romani: cosa ne pensi del mio Paese?
La parola “talassico” si trova anche nel dizionario inglese, ovviamente la sua radice è il greco. L’Italia è un Paese molto carino, ho molti bei ricordi legati ai concerti che abbiamo tenuto da voi. Spero davvero che potremo tornarci presto.

Ci sono influenze folk mediterranee nel nuovo album?
Se intendi musicalmente, immagino non molte. Forse potrà essere il tema del prossimo album? Vedremo…

Tornando il passato, quali brani del tuo catalogo ti piacciono di più dal vivo?
Oh, questa è difficile. Ce ne sono così tanti, ma uno che mi manca un po’ “Warrior Without a War”.

Ho letto una tua dichiarazione su questo nuovo album, in cui l’hai definito un “altro passo avanti musicalmente”, potresti spiegare perché?
Penso che in questo album abbiamo utilizzato tutto il nostro know-how accumulato nelle precedenti uscite e che l’abbiamo sfrutto al meglio. Anche la produzione e il missaggio sono abbastanza diversi rispetto ai nostri album precedenti.

Quanto è difficile dopo venticinque anni innovare il vostro suono?
Per gli Ensiferum questo non è affatto difficile perché tutti noi abbiamo tanti gusti musicali diversi e tutti siamo molto aperti verso le nuove idee, questo ci consente di mantenere il nostro processo di composizione molto fresco.

Inizialmente siete stati inseriti nel calderone del metal estremo, ritieni che questa categorizzazione nel 2020 sia ancora valida?
Dipende davvero da cosa intendi con extreme metal. Non penso che questo termine sia mai stato usato ufficialmente sulla nostra band. Se ci paragoni a Lady Gaga, sì, si potrebbe pensare che la nostra musica sia molto estrema, ma se guardi i gruppi che suonano death metal tecnico (o quella cosa che la gente chiama così, eh eh eh), la nostra musica sembra molto leggera!

E del nuovo singolo “Andromeda” che mi dici?
Racconta il mito greco di Andromeda. È una delle mie canzoni preferite nel nuovo album.

Da “Andromeda” è stato tratto anche il vostro nuovo video: ma tu preferisci “guardare” o ascoltare musica?
Personalmente non mi piacciono molto i video musicali, ma ovviamente è bello fare uno o due per album.

A parte suonare il metal, che tipo di cose ti piace fare?
Mi piace guardare documentari, film, serie TV e cerco anche di leggere il più possibile, ma negli ultimi anni è diventato difficile trovare il tempo per farlo quanto mi piacerebbe.

The crew of the Ensiferum drakkar continue their tour of the world with their usual efficiency, aware of the importance that the sea has in the life of every sailor. Captain Sami Hinkka and his “Thalassic” (Metal Blade) have decided to pay homage to the precious element from which life on our planet started.

Welcome, could you introduce to our readers your new album “Thalassic”?
”Thalassic” is Ensiferum’s eighth album and besides of being asskicking album, it is the first album to introduce our new clean singer/keyboard player Pekka Montin and it’s this is the first time we had kinda theme on an album.

On July 10th Ensiferum will host a record release: could you anticipate something about the “Studio Live” show?
We have come up with very cool setlist with bunch of new, old and rare songs. This is very interesting show for us because there won’t be any audience. Ensiferum has always been ”a live band” and we have the craziest fans in the world so now that the interaction with the crowd will be missing we had to come up with something else to get people being part of the gig. Fans can send questions to us in advance and we’ll answer to those during the breaks we have on the gig and in the end we will sit down and chat with the people. It’s gonna be something totally different but I’m sure that it will be lots of fun for everyone.

Thalassic” is word from ancient Greek and means “relating to seas”: which is the role of the sea in our days?
Heh, that is way too big question. Let’s just say that without water there is no life. So that’s how big role seas have.

Thalassic is from ancient Greek and Ensiferum is a latin word, this a sort of connection between your band and Italy: what do you think about my Country?
The word ”thalassic” can also be found from English dictionary, obviously the root is Greek. Italy is very nice country, lots of good gig memories from there. I really hope we can return there soon.

Are there Mediterean folk influences in the new album?
If you mean musically, I guess not that much. Maybe that will be the theme for the next album? Let’s see…

Which songs of you back catalogue do you like most playing live?
Oh, this is difficult. There are so many but one that I’m missing a bit it ”Warrior Without A War”.

I read your declaration about this new album, you defined it an “another step ahead musically”, could you explain why?
I think on this album we utilized our know-how from the previous album sessions much better than ever before. Also the production and mixing are quite different than on our previous albums.

How is difficult after 25 years to innovate your sound?
For Ensiferum that is not difficult at all because we all have so different kind of music taste and everyone is very openminded with new ideas so that keeps our composing process very fresh.

Actually, you consider you sound still extreme metal?
It really depends what you mean with extreme metal? I don’t think that this term has been ever used officially about our band? If you compare us to Lady Gaga, yes one might think that our music is very extreme but if you look at the bands who play technical deathmetal (or what ever people call this genre, heh), our music sounds very easy going, heh.

What’s about your new single “Andromeda”?
It tells about the Greek myth of Andromeda. It’s one of my favorite songs on the new album.

Andromeda” is your new video too: do you prefer to “watch” or to listen to music?
Personally I’m not that much into music videos but of course it’s cool to make one or two per album.

Outside of playing metal, what kinds of things do you enjoy doing?
I like watching documentaries, movies, TV-series and I also try to read as much as possible but during the last years it’s been hard to find time to do it as much I would love to.

Falconer – Le ceneri dell’impero

Il funerale vichingo rappresentato nella bella copertina di “From a Dying Ember” (Metal Blade Records) lascia pochi dubbi sul futuro dei Falconer. Gli svedesi, anche se non hanno saputo dar seguito al successo clamoroso del proprio esordio, hanno costruito una carriera dignitosa e ricca di gemme di folk metal. Per il momento “From a Dying Ember” è un più che degno addio, nella speranza che un giorno possa rivelarsi, col senno di poi, un semplice arrivederci…

Benvenuto Stefan, come è nato “From a Dying Ember”?
Dopo aver suonato il nostro ultimo spettacolo dal vivo al ProgPower negli Stati Uniti nel 2015, ci siamo presi una pausa, proprio come facciamo di solito. Questa volta, però, è stata più lunga e non ho toccato la chitarra per quasi due anni. Avevo due-tre canzoni già pronte, che pensavo fossero davvero buone, e volevo pubblicarle, senza necessariamente scrivere un nuovo album. Non ho vissuto questa lunga sosta creativa come fosse una sfida, adoro la musica dei Falconer e so esattamente come farla, ma in quei momenti mi sembrava di essere sulla ruota di un criceto. Una cosa era certa, non mi sarei costretto a completare un album se non lo avessi davvero voluto. Dopo aver riflettuto a lungo, ho deciso di realizzare un nuovo disco, renderlo il migliore possibile e di incorporare tutti gli elementi che sono propri dei Falconer. Mi sono anche detto che questo sarebbe stato l’album finale per i Falconer e, quindi, tutti i piani, le idee e i desideri che avevo ancora, dovevano essere realizzati in questo lavoro. Ad esempio, una ballata di piano e un’altra canzone puramente folk in svedese con strumenti tipici. Non mi andava di scrivere un ultimo capitolo che fosse così così, sarebbe stato meglio non farlo affatto a quel punto. Volevo essere orgoglioso e poter dire che questo è un album killer con cui porre fine alla vita della band. Ciò ha significato che ho potuto impiegare tutto il tempo necessario, non avevo alcuna pressione, scrivevo canzoni solo quando volevo davvero. L’attesa è sicuramente valsa la pena, perché non posso che essere fiero di un commiato del genere.

Potresti spiegare la tua dichiarazione “Riassumendo, possiamo dire che “From A Dying Ember” ha alcune cose che lo distinguono parecchio da un solito album dei Falconer”?
Bene, una pura ballata di piano è qualcosa di nuovo. Inoltre abbiamo finalmente una cornamusa e una nyckelharpa (strumento tipico della tradizione svedese NDA).

In questi giorni i manifestanti di Minneapolis hanno dato fuoco alla stazione di polizia, quando ho visto le prime foto ho pensato al vostro titolo, “From a Dying Ember”: è capitato anche a te?
No, questo pensiero non mi ha attraversato la mente. Posso dire, però, che la leadership americana è sempre foriera di spunti per i testi. Accadono così tante cose strane lì, nel “miglior Paese del mondo”…

La canzone di chiusura è “Rapture”, un pezzo che si avvicina parecchio allo stile del tuo gruppo precedente, i Mithotyn, che mi dici di questa traccia?
Effettivamente all’iniziato doveva essere una nuova canzone dei Mithotyn da inserire su una compilation con tutti i demo. Un inedito per dare maggiore visibilità a questa uscita in CD. Ad ogni modo, io e Karl Beckman ci siamo resi conto che nessuno di noi voleva sprecare così il tempo impiegato per provare e registrare la nuova canzone, così ho chiesto al mio compagno nei Mithotyn se potevo utilizzarla, combinandone il testo e gli arrangiamenti, per il nuovo Falconer. Ho fatto alcuni piccoli cambiamenti e ho sostituito alcune melodie di chitarra con la voce. Mettendola come l’ultima canzone, mi sento davvero come se avessi chiuso il cerchio.

Come è stato di nuovo lavorare con Karl Beckmann ?
Naturale come in passato, anche se non ci siamo davvero incontrati, ma abbiamo semplicemente impostato alcune idee mandandoci il materiale avanti e indietro. Più o meno come avveniva in passato. Il tutto è stato molto emozionate, non sembrava che fossero passati venti anni dall’ultima volta. Alla fine sia io che Karl abbiamo scoperto fino a che punto siamo cresciuti artisticamente da allora, lui mi ripeteva sempre che i miei spunti suonassero un po’ troppo Falconer e io accusavo lui di voler riproporre i suoi King of Asgard .

Forse è arrivato il momento per ascoltare un nuovo album dei Mithotyn?
No, nel modo più assoluto. Pensa che nei mesi scorsi abbiamo più volte anche pensato di non terminare quello su cui stavamo lavorando. Quindi, escludo categoricamente l’idea che ci possa essere un nostro nuovo disco insieme.

Il mio sogno è sentire una canzone dei Falconer featuring Skyclad o viceversa …
Sì, sarebbe una bella accoppiata, ma forse il risultato non sarebbe poi così così diverso dall’originale. Ho ascoltato molto gli Skyclad quindici-venti anni fa.

Visto che parliamo di influenze, ti piacciono le vecchie folk rock band come Jethro Tull, Pentagle, The Incredible String Band?
I Jethro Tull sono la mia band preferita in assoluto, musica progressive superba. Quando parlo di musica progressiva non mi riferisco solo alle trame complesse ma anche alle grandi melodie. Ho ascoltato Rush, Pink Floyd e Porcupine ma c’è sempre qualcosa che mi convince di meno. Le altre band di cui hai parlato, in realtà, non le conosco, dovrò approfondire.

Suoni chitarra e tastiere, in passato anche il basso per i Falconer: quale strumento preferisci?
Sì, ho suonato anche il basso nei primi due album dei Falconer, ma il mio strumento di elezione è la chitarra. Non mi considero un buon chitarrista, mi serve solo per scrivere le canzoni: il nostro solista è Jimmy, è lui che padroneggia lo strumento. Alla fine, ne facciamo due usi diversi.

Invece, ti piace scrivere testi?
Non è la ragione per cui faccio musica, ma devi avere anche dei testi nelle tue canzoni, quindi cerco di renderli i più belli possibile. Alcune volte penso che risultino davvero buoni. Mi mancherebbe non scrivere testi? No, per niente. Faccio musica per la musica e non per le parole.

Sei anni senza un nuovo album potrebbero compromettere il seguito di una band o ora è più importante avere una regolare attività live?
Non ci è mai interessa l’attività dal vivo. Il motivo per cui siamo esistiti sono i processi creativi, ovvero le canzoni e gli album. Naturalmente avremmo avuto più successo se avessimo promosso il nostro lavoro con più spettacoli dal vivo, merchandising e così via. Ma… siamo stati semplicemente pigri e contenti di avere la possibilità di lavorare con un’etichetta che ci pagasse gli studios. È stato già tanto per noi.

Il vostro primo album è stato un successo clamoroso, pensi poi di aver mantenuto le promesse di inizio carriera?
Non abbiamo più avuto gli stessi riscontri del primo album. Questa domanda è davvero difficile per me, anche perché alla fine dipende più dal giudizio dei fan. La maggior parte di loro dirà sempre che il primo è il migliore, ma personalmente ci trovo una marea di punti deboli dopo tutti questi anni. Per me, “Northwind” è il migliore, e non sto nemmeno prendendo in considerazione il nuovo album, perché non ho ancora una visione prospettica che mi permetta di dare un giudizio definitivo su “From a Dying Ember”.

Dato che stiamo facendo dei bilanci, con il senno di poi sei soddisfatto della tua carriera?
Oh sì. Magari sarebbe stato interessante vedere fin dove saremmo arrivati se avessimo davvero lavorato di più dal vivo e se avessimo spinto maggiormente sulla promozione. Ma non è certo qualcosa di cui mi pento, credo che riprenderei le stesse decisioni strategiche anche oggi.

Mettiamo i Falconer e il passato alle spalle: a questo punto quali saranno le tue prossime mosse?
Non ne ho idea, al momento vorrei solo provare qualcosa di completamente diverso per divertirmi. Poi vedremo dove mi porterà il mio futuro. Ringrazio tutti i nostri fan là fuori, speranzoso che questo album finale sia un inno degno della storia della mia band.

g.f.cassatella