Ufomammut – L’urlo della fenice

Loro nel 2020 ce l’avevano detto che si trattava di un arrivederci e non di un addio. All’indomani dell’abbandono dello storico batterista Vita, gli Ufomammut si sono presi una lunga pausa, un silenzio interrotto finalmente con il nuovo album “Fenice” (Neurot Recordings / All Noir) , il primo con Levre dietro le pelli…

Benvenuti ragazzi, nel gennaio del 2020 diffondevate un comunicato stampa nel quale annunciavate una pausa a tempo indeterminato all’indomani della fuoruscita dalla band di Vita. Quando avete capito che era il momento giusto per riprendere l’attività del gruppo?
Urlo: Poia ed io non abbiamo mai pensato di smettere. Avevamo bisogno di prenderci una pausa, di pensare, di capire i nostri errori e di ripartire dagli sbagli fatti. Anche Ciccio, il nostro sound guy non ha mai pensato per un attimo di chiudere con questa avventura. E Levre, amico e parte della famiglia da tanti anni, è stata la scelta ovvia per noi per continuare questo percorso.
Poia: fermarsi è stato inevitabile. E subito dopo è arrivata la pandemia. Ma la brace covava sotto la cenere…

Al momento della ripresa, è stato difficile togliersi di dosso la ruggine dovuta all’inattività?
Urlo: Un pochino. Ma ci è voluto poco per essere pronti e lucidati a nuovo!
Poia: difficile non direi. La memoria corporea aiuta, basta avere pazienza. Come andare in bicicletta, o nuotare… magari il fiato non c’è ancora ma i movimenti sono sempre quelli.

Da Vita a Levre, come è cambiato il vostro modo di lavorare in studio?
Urlo: L’approccio e la voglia di fare. Siamo tutti molto più focalizzati su quello che vogliamo dalla band.
Poia: Levre ha un background musicale differente rispetto a Vita. Abbiamo iniziato a suonare insieme qualche anno prima, in un progetto parallelo ad Ufomammut che non si è mai concretizzato, ma da subito abbiamo riscontrato una particolare alchimia. Chiedergli di continuare con noi il viaggio dì Ufomammut è stato perciò naturale. Il suo contributo alla composizione ha sicuramente modificato anche il nostro modo di lavorare.

“Fenice” è il titolo emblematico del vostro nuovo album. Siete rinati dalle vostre ceneri,  ma in questa nuova fase vi siete portarti dietro dei brani scritti prima della pausa oppure i pezzi finiti nella tracklist sono nati tutti dopo?
Urlo: “Fenice” è nato dall’arpeggio di chitarra e basso di “Metamorphoenix”. Poco alla volta si è espanso diventando un brano di 38 minuti: l’idea iniziale era quella di creare un brano per un EP, poi ci siamo lasciati prendere la mano… Avevamo un progetto con Levre da qualche anno, suonavamo già assieme e alcuni dei brani che avevamo scritto sono stati tenuti e ripresi, ma non per “Fenice”.

Il sound di “Fenice”,  almeno per me, “suona” di nuovo inizio o, meglio, di un ritorno ai vostri inizi. Forse una certa complessità e certe sovrastrutture presenti nei vostri ultimi dischi sono state messe da parte per un approccio più vicino a quello delle vostre origini. E’ una mia impressione o le cose stanno più o meno così?
Urlo: “Fenice” è tecnicamente più complicato dei dischi precedenti, ma molto più “psichedelico” e vicino alle nostre origini. Abbiamo voluto fare un disco senza porci generi, limiti, semplicemente suonare quello che sentivamo in quel momento della nostra vita. Il suono, il modo in cui è uscito “Fenice”, sono sicuramente nuovi e una rinascita dopo un periodo molto buio.
Poia: Non saprei se musicalmente sia un ritorno alle origini. Abbiamo però la consapevolezza di aver intrapreso una nuova esplorazione musicale, e questo ci riporta sicuramente a quelle sensazioni sperimentate più di vent’anni fa.

Forse meno di altri avete pagato lo scotto della pandemia, dato che nel vostro caso l’interruzione dell’attività live è stata più il frutto di una scelta personale che di un’imposizione dovuta alle circostanze nefaste che abbiamo vissuto nell’ultimo biennio. Se non erro da qualche giorno, però, siete tornati attivi anche con i concerti: dal vostro punto di vista privilegiato, là su un palco, avete riscontrato delle differenze sostanziali tra il prima e il dopo pandemia?
Urlo: Il desiderio di suonare è sicuramente più forte, iniziare una nuova avventura porta con sé emozioni diverse dal passato. Salire nuovamente su un palco è stato meraviglioso, vedere i sorrisi delle persone, le teste scuotersi, l’abbraccio del pubblico è stato bellissimo. Eppure è stato quasi come se due anni e mezzo fossero volati e avessero solo dato un grande e nuovo vigore al mio amore per la musica.
Poia: Ho notato da parte di tutti un desiderio bulimico di musica suonata, un’euforia condivisa da pubblico e musicisti. Siamo in tour in Europa (al momento in direzione Desert Fest Berlino) e ovunque ci sono band che suonano, tutti i giorni, e più show contemporaneamente nelle stesse città.

Nel 2008, in occasione della pubblicazione di “Idolum”, vi chiesi se ritenete gli Ufomammut più una band da studio o da palco, voi mi rispondeste così: “Entrambe le cose anche se ognuno di noi la pensa in modo differente. Per Vita il palco è quello che ci da maggior possibilità di trasformare la musica in un branco di mammut impazziti, mentre per Poia ed Urlo la parte più interessante dell’essere Ufomammut è la possibilità di sperimentare e creare in studio. Sono due esperienze distinte. La differenza principale è che in studio siamo anche spettatori.” Le cose sono cambiate o la pensate ancora così?
Urlo: la penso ancora così, anche se suonare live è un modo per capire se quello che hai creato abbia un valore emotivo oppure no. Vedere le persone apprezzare ciò che fai è sempre emozionante.
Poia: Ho capito col tempo che i due aspetti sono inscindibili e complementari. “Fenice” suonato dal vivo si sta evolvendo. Ciò che abbiamo creato in studio con grande dedizione e soddisfazione, acquisisce una consapevolezza e cambia grazie allo scambio con il pubblico. Ufomammut è in equilibrio tra creazione e performance: semplificando, tra Ufo e Mammut!

Nel 2019 avete pubblicato il cofanetto celebrativo “XX” , cosa avete pensato quando avete visto per la prima volta tutta la vostra storia discografica racchiusa in un singolo box?
Urlo: Che ero vecchio…
Poia: Haha! Esattamente! A ripensarci, stavamo già archiviando una parte della nostra esistenza come band.

“XX” è il sigillo sul vostro passato, “Fenice” è il vostro presente, invece il vostro futuro oggi come lo immaginate?
Urlo: Non saprei, nessuno di noi è in grado di leggere il futuro. Sicuramente spero che questa avventura continui e ci dia ancora tante soddisfazioni. Sarebbe già abbastanza.
Poia: Il viaggio è sempre la parte più interessante, attraversare mondi, cambiare e anche ritornare. La meta non si scorge ancora.

Bodah – Nessun incubo per il Sole

“Nessun incubo per il sole” – uscito lo scorso 14 marzo per la ruspante label Trulletto Records – è l’album d’esordio di Bodah, nuovo progetto musicale pensato e incarnato dal pugliese Marco Meledandri – già con i PUS e attualmente con The Apulian Blues Foundation. L’intento di Bodah è quello di esplorare differenti territori musicali in cui la tradizione cantautoriale, la visceralità del blues, le reminiscenze heavy psych, stoner rock e l’attitudine post-grunge riescano a fondersi per mettere in scena un teatro popolato da spettri, streghe, rettili e altri simboli archetipici adatti a rappresentare le profondità più oscure dell’anima.

Ciao Marco, benvenuto su il Raglio del Mulo, da dove è nata l’idea del progetto Bodah?
Ciao a tutti! L’idea di Bodah è nata dall’esigenza di potermi concentrare su un progetto che fosse completamente svincolato da un discorso compositivo di band o di un preciso genere musicale, dandomi così l’opportunità di lavorare sulla musica che sentivo di scrivere, con tutte le libertà del caso.

C’è qualche assonanza o richiamo al Boddah amico immaginario di Kurt Cobain?
Certamente, il nome è ispirato proprio a questa figura, una sorta di alter ego immaginario. La dualità è il campo che fa da sfondo all’idea dell’intero progetto, dove aspetti contrastanti convergono dando vita a un’unica creatura multiforme.


Parlami un po’ dei musicisti coinvolti nel progetto, è un vero e proprio collettivo del meglio della scena alternativa pugliese..
Vero! Per cominciare vorrei presentare la line up con cui suono dal vivo: alle chitarre suonate con lo slide (ma non solo) c’è Giovanni Valentino (che ha registrato anche nel disco) nonché fondatore della band The Apulian Blues Foundation, alla batteria Marialessia Dell’Acqua, che ha ripreso le voci durante le registrazioni di “Nessun incubo per il sole”  ed è da poco rientrata da Londra dopo la lunga militanza nei Dead Coast, al basso Lelio Mulas e alle tastiere Antonello Arciuli (già tastierista per Averla Piccola e compositore di colonne sonore). Nel disco ho avuto il piacere di ospitare anche altri amici: Giovanni Todisco (La Confraternita del Purgatorio, Trrrma) che ha registrato le batterie, Daniele Strippoli, Matteo Palieri e Fabrizio Pastore (anche regista di due dei tre videoclip che abbiam girato) alle tastiere e ai synth, Francesco “Klot” Valentino (Cantarella) per il mitico fischio western, Giò Sada per le backing vocals su “Nel giorno del sabba” e Dario Tatoli, che ha ripreso le batterie presso il REH studio del MAT – Laboratorio Urbano di Terlizzi (BA) ma anche mixato e masterizzato il disco.


Ho trovato il tuo album molto legato al territorio, quel suono desertico psichedelico ma allo stesso tempo cantautorale mi ha fatto venire in mente la Murgia, cosa significa per te vivere in Puglia e se questo ha influenzato la tua scrittura?
Assolutamente sì! Sento un forte legame con i luoghi in cui sono cresciuto, in particolare con la Murgia (specie quella dell’entroterra barese), un paesaggio che ha certamente contaminato i miei occhi e la mia mente, direi addirittura suggestionato. E’ una terra antica, misteriosa e che possiede qualcosa di incredibilmente magnetico.

L’album è uscito per la Trulletto Records, una delle realtà pugliesi più importanti a livello discografico, c’è qualche collega/amico del rooster che apprezzi particolarmente?
Di sicuro la Trulletto Records è un nido per artisti molto validi, sento tuttavia di voler citare in particolare Autune, compositore singolare e dalle risorse e soluzioni creative senza dubbio interessanti.

Quali sono le tue principali influenze musicali?
Molta musica appartenuta alla prima metà del ‘900 con annessa la coda dei ’60 e ’70 (con un particolare sguardo al rock e i suoi derivati), lo stoner del periodo in cui probabilmente questo termine non indicava un genere musicale, un po’ di cantautorato classico italiano e non.


Parlami un po’ dell’altra tua band, gli Apulian Blues Foundation, una band ormai in giro da un bel po’ di tempo, come cambia l’approccio nella scrittura visto che con loro la lingua prevalente è l’inglese e nel progetto Bodah è l’italiano?

Bè, The Apulian Blues Foundation, come ho già detto, è un progetto fondato da Vanni (Giovanni Valentino) con ragazzi che non sono nell’attuale line up, di cui invece facciamo parte io come bassista e Cosimo Armenio come batterista. Il repertorio è composto di vecchi blues o spiritual rivisitati e brani completamente inediti, un lavoro di scrittura compiuto precedentemente all’ingresso mio e di Cosimo nel gruppo. Attualmente siamo a lavoro insieme su del nuovo materiale ma di sicuro la scrittura dei testi al momento è prevalentemente affidata a Vanni, per cui in realtà non mi ritrovo a dover “splittare” fra due lingue come autore.

Avete presentato dal vivo l’album a Bari qualche giorno fa, com’è andata? Ci sono in programma altre date live?
Sì, è stata una serata sensazionale! Siamo stati davvero molto contenti di poter finalmente portare dal vivo il disco e la risposta di chi era presente è stata meravigliosa, poi Prinz Zaum è un luogo magico! In programma c’è la volontà di suonare dal vivo altrove ma al momento non posso anticipare nulla, seguendo i nostri profili sui social è però possibile essere aggiornati.

Solo – Breve guida alla solitudine

Giuseppe Galato, dopo l’esperienze maturate con GianO e The Bordello Rock ‘n’ Roll Band, ha iniziato un percorso in solitaria dal nome programmatico Solo. Dopo il lancio di un paio di singoli, e con l’album “The Importance of Words” previsto per inizio 2022, lo abbiamo contattato per saperne di più…

Ciao Giuseppe, dopo alcune esperienze in band tradizionali hai deciso di tornare a lavorare in proprio con il progetto Solo. Il nome sbandiera una volontà di autodeterminazione, di individualismo identitario. Cosa ti ha spinto verso questa scelta di lavorare da “solo”?
Ciao! In realtà, più che una scelta, il tutto è dovuto a una condizione, e cioè quella di non essere riuscito a trovare dei compagni di viaggio: quindi, eccomi qui, da solo!

Credi che il passare dal noi all’io possa anche farti pagare un prezzo in termini di ispirazione e completezza del songwriting?
Quello no: anche negli altri progetti che ho avuto (e continuo ad avere, in parallelo), scrivo e arrangio io i brani (e sono molto dittatoriale, su questo, sebbene sia aperto a suggerimenti). In linea di massima, quando scrivo una canzone ho già in mente come sarà la batteria, come sarà il basso: tutto.

Devo essere sincero, i due pezzi che ho sentito, effettivamente sono vari, “Stati emozionali” e “Don’t shoot the piano player (it’s all in your head)” si rifanno il primo al kraut rock, il secondo a un certo pop psichelico inglese, quasi in odore di primo glam. Credi che questa varietà di stili possa in una certa maniera minare le certezze dell’ascoltatore, che non sa come classificarti, oppure alla lunga possa rappresentare una carta vincente?
Di questi tempi, credo sia molto controproducente. Però non è che mi interessi molto: io faccio quello che mi sento di fare, senza pensare se piacerà o meno a un largo pubblico. Quello che faccio deve piacere, prima di tutto, a me; in seconda pianta, deve piacere a persone di cui ho una certa considerazione (che possono essere amici o addetti al settore che seguo e che stimo). Faccio musica per esprimermi, non per cercare consensi.

In virtù di quanto mi hai detto, come nascono i tuoi brani?
È una domanda a cui mi viene difficile rispondere, perché ho scritto un sacco di canzoni, e sono nate tutte in modi differenti. A volte dalla rabbia, a volte dalla tristezza; a volte per gioco, a volte in preda a stati alterati di coscienza: non ho un metodo preciso. Diciamo che la costante è che, prima di tutto, scrivo la musica, la melodia vocale, cantandoci in finto inglese, gibberish; successivamente, penso al testo (spesso, con non poche difficoltà): do molta più importanza alla musica che non al testo (altrimenti scriverei poesie, non canzoni).

I due brani che ho citato, comunque strizzano l’occhio a una stagione del rock passata, credi che il futuro della musica sia nelle proprie radici?
Non saprei, ma ciclicamente c’è sempre una sorta di “ritorno” al passato (vedi le sonorità anni ‘80, in voga attualmente, e ormai abusate dall’itpop). Con la vittoria dei Måneskin a Sanremo molti stanno gridando al ritorno del rock all’interno del mercato mainstream: non credo l’analisi sia veritiera, ma vedremo. I revival, comunque, non è che mi convincano più di tanto. Soprattutto, non mi convince mai il far diventare di massa un genere specifico, perché poi tutti si buttano a fare quello; e, fra tutti, molti prodotti saranno necessariamente scadenti (senza voler citare il già citato, abusato, itpop, sono un grande amante del progressive anni ’70, ma nella miriade di band nate in quegli anni la maggior parte, a mio avviso, erano mediocri). A mio avviso, si dovrebbe fare musica guardando a tutto ciò che c’è di interessante nel panorama presente e passato, senza i paraocchi, facendo ciò che più ti piace; e cercando di farlo non per avere consensi a tutti i costi, ma per il piacere di farlo, cercando una propria chiave espressiva personale, e non diventando la copia della copia della copia.

Mi parleresti in modo più dettagliato di questi due singoli?
“Stati emozionali” è un brano alquanto vecchio: lo scrissi i primi anni di università, quando seguivo i laboratori di musica elettronica (colta) con Giorgio Nottoli. Fui molto colpito, in particolare, da alcuni lavori di Karlheinz Stockhausen, soprattutto per quanto riguarda la creazione dei suoni a partire dalla loro più piccola componente, l’onda sinusoidale, il suono più semplice che esista. In natura, ogni suono che ascoltiamo è il “risultato” di una sommatoria di onde sinusoidali; oltre a ciò, nella percezione che abbiamo dei suoni buona parte la si deve all’inviluppo che un suono ha (quindi, come evolve questo suono nel tempo). Lavorando per sintesi additiva, e sfruttando dei generatori d’onda, si può arrivare a ricreare dei suoni complessi, così come il nostro cervello li conosce: è stato un lavoro prettamente di stampo matematico, perché in pratica devi stare lì ad inserire negli oscillatori le frequenze (in hertz) che vuoi andare ad utilizzare e, poi, miscelarle fra loro; quindi, se sai che il La centrale vibra a 440 Hz, inserisci nell’oscillatore il numero “440” e ti generi l’onda (che andrai, poi, a sommare ad altre onde di altre altezze, e a cui dovrai attribuire uno specifico inviluppo, in base al suono che ti interessa far uscire fuori). Il resto dei suoni, invece, l’ho realizzato sfruttando la sintesi sottrattiva, il processo inverso: partendo dal rumore bianco, che è la sommatoria di tutti i suoni che esistono in natura, possiamo andare a “tagliare” una specifica banda di frequenze sfruttando dei filtri passa banda, in modo da selezionare solo quello che ci interessa. Il brano è, naturalmente, non solo nella metodologia ma anche nello stile, ispirato a quei lavori (sebbene, a differenza di “Studie II”, dove Stockhausen tentava di creare un nuovo sistema tonale, io ho comunque lavorato all’interno del sistema temperato, che tutti conosciamo); quindi, da molti potrà non essere percepita come una “canzone”, come musica, ma un’accozzaglia di effetti sonori: ma io, seguendo John Cage, auguro a tutti “Happy new ears”. Come in “Stati emozionali”, anche “Dont’ shoot the piano player (it’s all in your head)” è pregna di effetti sonori, ma lì ho avuto un approccio più “fisico”, avendo sfruttato solo pedali per chitarra. Non si direbbe, ma tutti i suoni che sono nel brano sono chitarre, processate tramite vari effetti che vanno dai phaser al whammy, da risuonatori a delay mandati in auto-oscillazione, spesso miscelati fra loro per creare dei suoni peculiari. Per i nerd, ho utilizzato, nello specifico, un Dirty Robot, un PH-3, un Whammy, un Transmisser, un Fuzz Factory, un Regenerator, un Artec APW-7 e un Tape Eko (credo di non aver dimenticato nulla). Il brano prende spunto, come facevi notare tu, dalla psichedelia anglosassone della seconda metà degli anni ’60: avevo in mente principalmente i Rolling Stones di “Their Satanic Majesties Request”, ma naturalmente grande influenza l’hanno avuta anche i Pink Floyd di Syd Barrett e i Beatles; anche se l’idea di inserire dei suoni estranianti mi è venuta ascoltando “Mangiafuoco” di Edoardo Bennato! Ad ogni modo, la cosa che li accomuna è, di sicuro, una certa propensione verso la psichedelia. E il fatto che molto lavoro è stato fatto sulla spazializzazione, con i suoni che si muovono da un canale all’altro, in alcuni casi (in particolare su “Stati emozionali”) in binaurale, con la sensazione che ti avvolgano in maniera tridimensionale.

Mi par di capire che tu abbia l’intenzione per il momento di pubblicare solo dei singoli, il formato album secondo te è ormai superato nella realtà musicale odierna?
Da un lato la gente non ascolta quasi più album, ma si va di playlist; dall’altro, ci sono alcuni recensionisti e certa stampa che non danno spazio a nulla se non agli album (a meno che tu non sia un artista in qualche modo osannato; quindi, se sei uno sfigato come me, ti attacchi al proverbiale cazzo; è una logica che non concepisco, due pesi, due misure, in base alla fama: ma sorvoliamo). Comunque, l’album ci sarà, ho anche il titolo pronto (“The importance of words”), ma se ne parlerà l’anno prossimo. Per i prossimi mesi, se i miei progetti vanno come devono andare, uscirò con qualche altro singolo, cambiando ancora genere: ho tre brani quasi pronti, uno dream pop/dance, uno art rock (sulla falsariga dei Radiohead più chitarristici e i primi Muse) e uno più sullo shoegaze. Diversi fra loro, come generi, ma sempre con la costante dell’attitudine psichedelica.

Stop dei concerti a parte, credi che Solo possa avere una dimensione live?
Proprio un paio di settimane prima del casino, ho portato i brani di questo mio progetto dal vivo, allo Shabby di Omignano Scalo, qui in Cilento, dove io abito. Non avendo una band, e non volendo semplicemente accompagnarmi con la chitarra ritmica, ho ricreato un set con tre amplificatori per chitarra; sfruttando vari switch ho mandato, così, il segnale della chitarra all’interno di tre catene di effetti: una più “classica” e “portante” (pulito/overdrive), e altre due che andavano a ricreare effetti psichedelici (naturalmente, con suoni differenti fra l’una e l’altra), in modo da dare l’impressione stessero suonando più persone, più strumenti. Il risultato è un’amalgama di suoni che arrivano da vari punti del set, in base a dove hai posizionato gli amplificatori: sarebbe bello microfonarli, mandandoli nell’impianto, e avere al mio fianco un tecnico che faccia muovere i suoni dal canale destro al sinistro e viceversa (ma mi sa che sto fantasticando troppo). Ad ogni modo è stata un’esperienza interessante (anche se, considerando che quando compongo mi concentro molto sulla sezione ritmica, la mancanza di basso e batteria mi dispiace molto: ma va bene così, per il momento). Quindi, sono decisamente pronto per i live!

Chiuderei l’intervista esplorando un altro lato del tuo Io artistico, quello di scrittore: che mi dici del tuo libro “Breve guida al suicidio”, pubblicato per la no EAP Edizioni La Gru? Nelle sue pagine troviamo esclusivamente Giuseppe Galato oppure fa capolino, inevitabilmente, anche Solo?
Nelle pagine di “Breve guida al suicidio” forse ritroviamo più Mr. B. Sapphire, che è uno degli altri miei alter ego, quando suono nella The Bordello Rock ‘n’ Roll Band, considerando che, sia in “Breve guida al suicidio”, sia nei brani della band, sfrutto più l’ironia e il sarcasmo, mentre in Solo (o nei M.i.B., altro progetto punk/grunge a cui sto lavorando e dove assumo l’identità di Ictus) faccio emergere maggiormente la mia vena malinconica o rabbiosa. Giuseppe Galato quasi non esiste.

Motorpsycho – Heavy psych mood

ENGLISH VERSION BELOW: PLEASE, SCROLL DOWN!

Mai fermi sui propri allori – stiamo parlando di una dalle formazioni più coraggiose della scena rock europea sin dagli anni ’90 – i Motorpsycho sono già tornati con l’album di follow-up dell’acclamato “The All Is One” del 2020. Registrato in parte nelle stesse session della precedente release, “Kingdom Of Oblivion” – in uscita il 16 aprile ’21 su Stickman Records / All Noir – annuncia un ritorno alla “Motorpsychodelia” e agli heavy-riffs degli anni passati, in attesa di lambire nuovi territori inesplorati.

Ciao Bent, è un grande piacere avere la possibilità di intervistarti (in quanto fan di vecchia data) ma veniamo subito al dunque: sono passati poco più di sei mesi dall’uscita di “All is One” (ultimo atto della “The Gullvåg Trilogy”). Possiamo considerare questo nuovo album come un nuovo capitolo a sé? Mi sembra che sia un ritorno a una forma più diretta di heavy rock …
Ciao! Per noi questa è una cosa diversa dalla “Gullvåg Triology”, di sicuro. Anche se gran parte di essa è stata registrata contemporaneamente a “The All Is One”, questa roba aveva un’atmosfera così fondamentalmente diversa che avevamo bisogno di separarla dalla Trilogia. Gran parte di esso è praticamente heavy rock anche se, con alcune modifiche e pezzi strani inseriti, sembra molto più strano e psichedelico della maggior parte del rock pesante moderno. Heavy psych è probabilmente l’etichetta più ovvia, se questo è il tuo genere. Se è l’inizio di un nuovo ciclo o una tantum non lo sappiamo ancora. Il tempo lo dirà!

Tra le nuove canzoni ho trovato alcuni riferimenti al passato “grungedelico” – ad esempio “The Transmutation of Cosmoctopus Lurker” – a dischi come “Timothy’s Monster”, è una sorta di reazione “hard” a questo periodo di isolamento forzato?
Non proprio: le tracce di base sono state registrate prima della pandemia, quindi solo alcuni dei testi riflettono l’epidemia e solo parte della musica. Penso che la nostra reazione iniziale sia stata quella di tacere e interiorizzare, quindi se qualcuno di questi riflette l’epidemia, sarebbe la roba folky, dall’aspetto interiore. Ultimamente, però, abbiamo sentito il bisogno di rilasciare un pò di adrenalina, quindi è fantastico che questo album contenga un po’ di testosterone – sarà fantastico dal vivo!

Ho sempre immaginato che il vostro “processo di scrittura” fosse anche il risultato di lunghe jam (soprattutto su alcuni dischi del passato) ma a questo punto della vostra carriera cosa è cambiato nella fase creativa?
Non abbiamo un modo prestabilito di fare le cose, quindi alcune cose provengono da improvvisazioni, ma altre cose vengono lavorate su un pianoforte o un’acustica – e tutto ciò che sta nel mezzo! Penso che ciò che è cambiato di più sia la nostra capacità di non essere troppo analitici e autocritici troppo presto nel processo: finiamo il pensiero e l’idea prima di usarlo o buttarlo via, e oggigiorno ogni idea musicale è valida fino a quando non ci abbiamo lavorato. È il modo migliore per evitare il blocco degli scrittori e mantiene anche le Muse di buon umore!

Nella vostra discografia avete esplorato quasi tutti i vari stili del rock and roll, ma c’è qualcosa a cui non vi siete ancora avvicinati?
Non c’è ancora molto reggae o ska nel nostro catalogo… e anche se anche a noi piace un po’, penso che la possibilità che esista un MP-album roots reggae è piuttosto scarsa. A meno che, naturalmente, non andiamo in Giamaica e restiamo lì per alcuni mesi e lo facciamo correttamente. Ma non scommetterci dei soldi!

L’aver cambiato spesso il batterista in qualche modo ha favorito una certa freschezza compositiva nelle diverse fasi della vostra carriera? Penso ad esempio a una band come i Melvins – ora una specie di collettivo aperto con due membri fondatori e collaborazioni sempre diverse …
Ebbene, “spesso” non è il termine giusto, vero? Geb è durato 14 anni, Kenneth 9… ma capisco cosa intendi e, naturalmente, un nuovo membro colorerà sempre la musica – è il motivo perché sono lì! Le persone sono diverse e amano fare cose diverse e hanno processi diversi, quindi ogni batterista (e tastierista o qualsiasi altra cosa) ha cambiato il processo della band. Lo mantengono interessante per noi e fresco per tutti, quindi è soprattutto una cosa positiva. Se Tomas se ne va, non so cosa faremmo, ma forse l’approccio dei Melvins è la strada da percorrere in quel caso? Vedremo cosa succede!

Siete tra i pochi artisti che credono ancora nel potere degli album, come ti relazioni con la musica contemporanea dove tutto si consuma velocemente per poi passare ad altro?
Lo trovo meno coinvolgente e ne ricavo meno, mi dispiace dirlo. Dal momento che ho bisogno di un qualche tipo di contesto per relazionarmi alle cose, molta nuova musica mi annoia. Potrei essere io che sto invecchiando, naturalmente, ma trovo che manchi qualcosa quando è tutto così strutturato, veloce e superficiale. Ma immagino che il nostro ruolo sia sempre stato quello di essere il fornitore dell’alternativa, sin dall’inizio, quindi ci sta bene: lascia che lo facciano e noi faremo le nostre cose per il pubblico a cui piace il nostro genere di cose. In questo modo tutti vincono!

Cosa stai ascoltando in questo periodo? C’è qualche artista o nuova band che ha catturato la tua attenzione? Ci sono nuovi “Motorpsycho” là fuori?
Ho un figlio di 15 anni che è molto appassionato di musica, quindi sento molte cose nuove da lui, ma le mie scoperte vengono da amici e colleghi: il duo metal spagnolo Bala mi piace, mi piace la maggior parte delle uscite sia di Stickman che Rune Grammofon (le due etichette che distribuiscono i lavori dei Motorpsycho ndr.), sono appena entrato nella band Budos, adoro il nuovo disco dei Pearl Charles e ovviamente guarda cosa fanno gli amici: il nuovo disco di Elephant9 è fantastico! Non so, è possibile essere un “nuovo Motorpsycho” di questi tempi? Dal momento che la cultura mainstream è cambiata così tanto e c’è meno attenzione per gli artisti e più per prodotti consumati rapidamente, siamo l’ultima rock band? Spero sinceramente di no, ma sono contento che ci siamo finiti in tempo mentre questa era ancora una possibilità!

Quando avete iniziato eri molto giovane, avreste mai pensato di continuare così a lungo?
Non credo che ci abbiamo pensato! Penso di aver saputo che non saremmo mai stati una macchina di grande successo, dal momento che i nostri interessi e talenti sono altrove, e che costruire un catalogo e una fan-base in modo punk rock sarebbe stato il modo migliore per noi, ma che avremmo avuto 30 anni e più di carriera sarebbe stato inimmaginabile!

Siamo abituati a vedervi ogni anno (prima della pandemia mondiale) in Italia con tanti concerti, ma c’è qualche posto a cui siete particolarmente legati? Vi vedremo mai in Puglia?
Ci manca davvero non venire in Italia! Certamente posti come il Bloom a Mezzago e il Velvet a Rimini – di cui sentiamo molto la mancanza – dove abbiamo suonato così tanto che ormai sono quasi come “a casa lontano da casa” ci mancano di più. Ma suoneremmo ovunque e mi piacerebbe suonare in Puglia se un promotor decente e un grande locale volessero che venissimo!

È tutto, grazie!
Grazie! Ci vediamo dall’altra parte!

Never a band to rest on their exceedingly large heap of laurels – we’re talking about a long standing stalwart of the European rock scene since their formation in the 90’s – Motorpsycho has already returned with the follow-up album to 2020’s highly acclaimed “The All Is One”. Recorded partly in the same sessions as the previous release, “Kingdom Of Oblivion” – out on 16th April ’21 on Stickman Records / All Noir – heralds a return to the riff-heavy Motorpsychodelia of years past while looking forward to new uncharted territories.

Hi Bent! It’s a great pleasure to have the chance to interview you (as a longtime fan) but let’s get to the point; It’s been just over six months since the release of “All is one” (last act of “the Gullvåg Trilogy”) can we consider this new album as a new chapter in its own right? It seems to me that’s a return to a more direct form of heavy rock…
Hi! To us this is a different thing than the Gullvåg Triology, for sure. Even if much of it was recorded at the same time as “The All Is One,” this stuff had such a fundamentally different vibe that we needed to seperate it from the Triology. Much of it is pretty much straight up heavy rock, indeed, albeit with a few tweaks and weird bits thrown in, so it feels much weirder and psychedelic than most modern heavy rock. Heavy psych is probably the most obvious label, if that is your thing. If it’s the beginning of a new cycle or a one off we don’t know yet. Time will tell!

Among the new songs I found some references to the “grungedelic” past – for example “The Transmutation of Cosmoctopus Lurker” – to records as “Timothy’s Monster”, is it a sort of “hard” reaction to this forced period of isolation?
Not really – the basic tracks were recorded before the pandemic, so only some of the lyrics reflect the plague, and only some of the music. I think our initial reaction to it was to go quiet and inwards, so if any of it reflects the plague, it’d be the folky, inwards looking stuff. Lately though, we have felt the need to get some adrenalin going, so it’s great that this album has some testosterone on it – it’ll be great live!

I always imagined that your “writing process” was also the result of long jams (especially on some records of the past) but at this point in your career what has changed in the creative phase?
We have no set way of doing things, so some stuff comes from improvs, but other stuff is worked on a piano or an acoustic – and everything inbetween! I think that what has changd most is our ability to not be too analytical and self-critical too early in the process: we finish the thought and the idea before we either use it or chuck it away, and these days every musical idea is valid untill we’ve worked at it. It is the best way to avoid writers block, and it also keeps the Muses in a good mood!

In your discography you have explored almost all the various styles around rock and roll, but is there anything you have not yet approached?
There isn’t much reggae or ska in our catalog yet… and even if we like some of that too, I think the chance there ever being of a roots reggae MP-album is pretty slim. Unless, of course we go to Jamaica and stay there for a few months and get it properly. But don’t put money on it!

Did having often changed the drummer in some way favored a certain compositional freshness in the different phases of your career? I’m thinking for example of a band like the Melvins – now a kind of open collective with two founding members and always different collaborations…
Well, ‘often’ isn’t quite the right term, is it? Geb lasted for 14 years, Kenneth for 9… but I see what you mean and , of course, a new member is always going to colour the music – that is why they are there! People are different and like doing different things, and have different processes, so every drummer (and keyboardist or whatever) has changed the band’s process. I keeps it interesting for us, and fresh for everyone, so it’s mostly a positive thing. If Tomas leaves, I dunno what we’d do, but maybe that Melvins approach is the way to go in that case? We’ll see what happens!


You are among the few artists who still believe in the power of “Albums”, how do you relate to contemporary music where everything is quickly consumed and then moved on to something else?
I find it less engaging and get less out of it, I’m sorry to say. Since I need some kind of context to relate to stuff, a lot of new music just bores me. It might be me getting old of course, but I do find that something is missing when it’s all so formated, quick and superficial. But I guess our role always was to be the provider of the alternative, ever since the beginning, so we’re fine with it: let them do that, and we’ll do our thing for the audience that likes our kind of thing. That way everybody wins!

What are you listening to in this period? Is there any artist or new band that has caught your attention? Are there any new “Motorpsychos” out there?
I have a 15 year old son that is heavily into music, so I hear a lot of new stuff from him, but my own discoveries are via friends and colleagues: Spanish metal duo Bala i like, I like most of what both Stickman and Rune Grammofon release(the two labels that distribute the works of Motorpsycho ed.), I just got into Budos band, love the new Pearl Charles record, and obviously check out what friends do: the new Elephant9 record fx, is amazing! I dunno, is it possible to be a ‘new motorpsycho’ these days? since mainstream culture has changed so much and there is less focus on artists and more on quickly consumed product, are we the last rock band? I sincerely hope not, but am glad we got in under the wire while this was still a possibility!

When you started you were very young, would you ever have thought about continuing for so long?
I don’t think we thought about it! I think i knew we’d never be a big hit machine, since our interests and talents lie elsewhere, and that building a catalog and a fan base the punk rock way would suit us the best, but that we’d have a ’30 years plus’ – run would have been unimaginable!

We are used to seeing you every year (before the world pandemic) in Italy with many concerts, but is there any place you are particularly attached to? Will we ever see you in Puglia?
We miss not getting to come to Italy – we really do! Of course places like Bloom in Mezzago and the much missed Velvet in Rimini we played so much that they are almost like homes away from home by now, so we miss them the most. But we’ll play wherever they send us, and would love to play in Puglia if a decent promotor and a great venue wanted us to come!

That’s all thanks!
Thank you! See you on the other side!

Anuseye – La perfezione del numero 3 33 333

Nell’Anus Domini 1994, mentre ascoltavo “Jar of Flies”, “Superunknow”, “Vitalogy”, qui nell’assolata Bari qualcun altro rompeva gli indugi e pubblicava il primo EP stoner in Italia con il nome di That’s All Folks. Dopo la pubblicazione di due EP, due Split e due album, l’avventura con i That’s All Folks subisce una frenata. Dalle sue ceneri il deus ex machina Claudio Colaianni fa nascere il nuovo progetto Anuseye con cui pubblica ad oggi uno split e ben tre album. Ho conosciuto Claudio al Festival della Go Down all’Eremo di Molfetta. Per me è stato amore a prima vista (forse per lui meno) ed ogni volta che suonano faccio il possibile per partecipare ad una loro perfomance.

Ciao Claudio, partendo da questa mia dichiarazione anche quest’anno, nonostante la situazione pandemica, abbiamo avuto modo di incontrarci all’UnderZone a Bari e godere della vostra musica. Vorrei cominciare dalla presentazione della band e del vostro ultimo lavoro “3:33 333”.
Innanzitutto vorrei ringraziarti e ricambiare la tua dichiarazione. Visti i tanti cambi di formazione comincio ad intendere Anuseye quasi come un collettivo, che ingloba musicisti del nostro territorio abbastanza coraggiosi da voler espandere le proprie capacità tecniche-cognitive-creative in mia compagnia. Attualmente, e spero per un po’, Anuseye è: Claudio Colaianni, voce/chitarra, Stefano Pomponio, chitarre, Giovanni D’Elia, basso, Cosimo Armenio, batteria. L’ultimo album “3:33 333”, edito da Vincebus Eruptum Recordings in solo formato vinile, è uscito poco più di un anno fa, con la sola variante di Damiano Ceglie alla batteria. Gli album non si possono raccontare, vanno ascoltati.

Quanto è importante in questo momento trovare spazi e nuove soluzioni per i live. Fondamento anche per il potere taumaturgico che la musica regala in questi momenti?
E’ fondamentale! Dovrei rispondere con una domanda: secondo te, o i lettori, come fa una band piccola come la nostra a divulgare il proprio verbo, la propria musica, il proprio prodotto? Non c’è abbastanza spinta, promozione, distribuzione dietro di noi, e le piattaforme digitali aiutano sino ad un certo punto e fortemente legate agli aspetti di cui sopra; ti faccio un banale esempio: leggi un sacco di notizie circa il riaffermarsi del vinile sul digitale e sembra quasi si stia ritornando al ’68, ma quanti credi posseggano un giradischi nel nostro paese? E da qui ti chiedo: quanti di questi credi vogliano ascoltare Anuseye “alla cieca”? E senza promoter, quanti concerti credi riusciamo a piazzare in un anno? (Tralasciando quest’ultimo tremendo periodo…).

Come pioniere in Italia dello stoner e leader di due band importanti nel panorama, vorresti parlarci della tua vision su come si evolverà questo genere?
Quanto non sopporto questo termine, sebbene capisca le necessità di “etichettare” un genere. Si è già evoluto, in termini numerici ma non qualitativi. Se prima intendevi stoner una band che usava un fuzz pedal suonato col pickup al manico, adesso la intendi rallentata all’esasperazione, col solito fuzz pedal, ancora più sabbath, sempre più metal e con un dark, witch, wizard, spell, black, weed, doom, void, death/dead nel nome a dare l’idea di coglioni e volume esasperato nel loro sound… eppure, al momento, l’unica band che ha rischiato di lesionarmi i timpani si chiama “cigni”…

Quali sono le tematiche che affrontate e ciò che vi ispira?
Tutte quelle interessanti: vita, morte, terra, fuoco, aria, acqua, amore, odio…’sta roba qui.

Lo scorso anno ci siamo incontrati al DesertFest di Berlino, in un successivo vostro live (“ATIPICI Music Fest”) mi hai chiesto quale fosse l’artista che più mi avesse colpito. Anche per te è stato Wovenhand, io lo ascoltavo per la prima volta. Pertanto dimmi dei tuoi artisti preferiti e di riferimento? A me e credo capiti anche a te, ogni volta che li ascolti è come se fosse la prima, come se ti regalassero nuove sensazioni, nuovi suoni, nuove scoperte.
Sì, ricordo, ed è una domanda legata alla precedente: se hai notato il Desert Fest è un festival prevalentemente metal, dove includono, in questo calderone, tutti i gruppi considerati stoner”, molti dei quali considero orribili (personalmente, sia chiaro…), e dove solo la presenza di un paio di “fuoriclasse” ti salva l’esperienza vissuta. Non è un caso che i più “diversi” siano risultati anche i più seguiti, non credi? Wovenhand, All Them Witches, Kikagaku Moyo, OM, Earthless…non sono stati i più interessanti? 5 su 50 è preoccupante.

Di recente avete cambiato il vostro batterista. Queste possono anche occasioni per immaginare nuove direzioni. Sfruttare l’ingresso di un nuovo membro per testare capacità, anche le proprie, nuovi schemi.  Da questo puoi anticiparci cose nuove, un nuovo lavoro?
Assolutamente sì. Ogni membro di Anuseye, sia in passato che attualmente, ha apportato la sua esperienza e la sua creatività nella stesura di nuovi brani. Sì, abbiamo molte idee, le realizzeremo credo entro l’inizio del nuovo anno, e ti anticipo che sarà un concept…

Il mercato musicale ci stava abituando ad una sua stagnazione vuoi per genere, vuoi per contenuti. Le piattaforme digitali musicali sembrava stessero ammazzando il mercato ma invece gli hanno dato nuovo slancio. Tant’è vero che la RRIAA (la nostra SIAE negli USA) ha di recedente pubblicato i dati delle vendite dove vede il vinile superare il CD. Il genere stoner o heavy-psych ha da sempre pubblicato su formato 33 e 45 giri. Il vostro ultimo lavoro è presente su Spotify mentre i precedenti su Bandcamp, che personalmente ritengo più efficace in termini anche di vendite e di relazione con l’ascoltatore. Credi che le piattaforme saranno sempre più vicine all’ascoltatore o al musicista? E il vinile avvicinerà sempre di più i “consumatori” alla famiglia del rock?
Posso solo aggiungere, a quello che ti dicevo prima, che effettivamente Bandcamp è una buona piattaforma.

Una gran bella serata è stata la reunion dei “That’s All Folks”. Quel progetto è da considerarsi un gran bel punto di partenza o riprenderete il cammino?
Ah, non saprei per la verità. Bisogna fare i conti anche con l’età che avanza e il tempo a disposizione, che non è tanto. Di sicuro suonare è molto divertente e da un senso a tutto quello che mi circonda.

La nostra regione oggi, nonostante il COVID-19, è sulla bocca di tutti, forse più dell’Italia stessa. A Bari negli anni ’90, quando il vostro, il tuo percorso da musicista cominciava si faceva fatica ad emergere ciò nonostante siete riusciti a ritagliarvi il giusto spazio nel panorama musicale. Capacità, trucchi del mestiere. Parlaci del tuo punto di vista.
Guarda, ho sempre risposto a domande del genere in controtendenza, mi spiego: in passato c’era sicuramente meno spazio per la musica live, sia in termini logistici che promozionali, ma vi era una genuinità ed una voglia di live music e di curiosità da rendere i concerti veri e propri “eventi culturali e di aggregazione”. Ho costruito dei legami indistruttibili in quei periodi anche solo con incontri durati mezza giornata. Oggi ci sono eventi ogni settimana, il venerdì, nei soliti 3/4 locali, tutti perfetti per storie Instagram e post Facebook, e se mai ti dovesse capitare la voglia di vedere un gruppo di amici, quale scegli? Non voglio essere frainteso, però, la voglia di aggregazione e comunicazione la vedi, la percepisci, ma non si vive in un’epoca congeniale a questo tipo di “soddisfacimento” umano, il contesto sociale e comunicativo non rende giustizia alla curiosità umana.

Spero sia stata un’occasione piacevole e sicuramente avrò dimenticato di approfondire qualcosa. Pertanto con cedo volentieri a te spazio per le conclusioni.
E’ sempre un piacere poter condividere con te le mie considerazioni su un aspetto di estrema importanza della mia vita, la musica. Colgo l’occasione per farvi i complimenti, ho trovato Il Raglio del Mulo molto ben curato e soprattutto molto “plurale” nei suoi articoli. Posso solo ringraziarvi per averci dato l’opportunità di farne parte.

23 and Beyond the Infinite – Musica dall’infinito

Buona serata da Mirella, anche oggi diamo voce ai musicisti validi che popolano la scena musicale italiana, questa è la volta dei 23 and Byeond the Infinite, autori del nuovo album “Elevation To The Misery”.

Avete portato avanti un percorso evolutivo di otto anni attraverso i territori dello psych rock, del post punk, del primo shoegaze e della sperimentazione noise, e siete giunti con “Elevation To The Misery” all’attuale sound: questo cammino è stato spontaneo oppure il frutto di scelte programmatiche?
La nostra composizione è sempre frutto dell’incontro tra i background musicali e le idee, in continua evoluzione, delle quattro persone che compongono la band. Non abbiamo mai pianificato i nostri dischi a tavolino né avuto un’idea precisa di quello che volevamo fosse il sound o la composizione di un disco, tutto nasce in sala prove e lì viene sviluppato e affinato finché non ci soddisfa. Di conseguenza il nostro è un percorso evolutivo sempre molto naturale e spontaneo.

Cinque lavori in otto anni non sono pochi, da dove arriva questa costante ispirazione?
Per fortuna in tutti questi anni non abbiamo mai perso la voglia di suonare, nemmeno quando ci siamo trovati a dover sostituire il batterista per motivi lavorativi. Suonare è per noi un modo di esprimerci e cerchiamo di farlo il più possibile, in primis per noi stessi.

Rimanendo in tema di album pubblicati, oggi conta più il singolo brano o l’intero disco: in parole povere, ha ancora senso pubblicare un disco?
Sicuramente viviamo in un’epoca in cui siamo inondati da informazioni a cui abbiamo accesso pressochè in tempo reale, tutto è diventato rapidissimo e di conseguenza i singoli hanno assunto un’importanza crescente. Tuttavia, soprattutto in ambito indipendente, il disco riveste ancora una notevole importanza. Un album è la sintesi di un percorso, nonché la base di uno spettacolo live e gli appassionati di musica ancora riescono a trovare tempo ed energie da dedicare all’ascolto di un disco.

Il vostro disco in versione digitale è già disponibile, mentre si attenta la versione fisica, avete novità al riguardo ?
Purtroppo il lockdown di marzo ha bloccato un bel po’ di cose in quasi tutti i settori, ma con qualche mese di ritardo siamo pronti: il disco è disponibile, oltre che su tutte le piattaforme digitali, anche in CD, acquistabile attraverso tutti i canali social della band e delle etichette che lo hanno coprodotto, e presto lo sarà anche in cassetta. Mai come in questo periodo è superfluo ricordare agli appassionati di musica quanto sia importante dare il proprio contributo alle band in qualunque modo possibile, in attesa di poter ripartire anche con i concerti.

Il titolo potrebbe sembrare a uno sguardo superficiale pessimista, invece è un invito a rialzarsi anche nei momenti difficili: mi sbaglio?
“Elevation to the Misery” è diventata la nostra filosofia di vita, cercare di ottenere il massimo con quel poco che si ha e farlo nella maniera più personale e sincera possibile. Più che pessimismo, parleremmo di realismo e concretezza.

Siete originari di Benevento, ma vi siete spostati a Bologna per la registrazione del disco. Come mai?
Avevamo la necessità di fare le cose in tempi molto rapidi per partire per un tour europeo tra marzo e aprile (poi rimandato causa covid). Abbiamo sondato il terreno con diversi studi di registrazione, Enrico Baraldi, che già ci conosceva e aveva piacere a lavorare con noi, ci ha fatto una proposta che ci ha affascinato. Poi a Bologna avevamo l’ospitalità e il supporto di un po’ di amici… E insomma alla fine la scelta è stata abbastanza facile.

Avete scelto di utilizzare una tecnica particolare quella registrazione su nastro in prese diretta, cosa vi ha spinto verso questa decisione?
“Elevation to the Misery” è un disco passionale e impulsivo, frutto di circa tre mesi di lavoro intenso in sala prove e dunque fortemente rappresentativo dell’impatto live della band. Quando Enrico ci ha proposto di registrare in presa diretta, a nastro, sfruttando le dinamiche spontanee della nostra esecuzione e i riverberi naturali del Vacuum Studio, ci è sembrata la scelta giusta.

Qual è lo stato di salute della scena psichedelica italiana?
Come un po’ in tutti gli ambiti della musica indipendente, in Italia esistono tante valide realtà, alcune delle quali anche molto attive, ma tutte un po’ frammentate. Non esiste una rete unitaria e compatta attraverso la quale esprimersi e ognuno sgomita come può per cercare spazi. L’altra faccia della medaglia è che per fortuna, l’era della comunicazione ha reso l’Europa più vicina. Non a caso, noi come altre band della scena neo-psych italiana, cerchiamo quando possibile di proporci per tour europei, anziché solo italiani.

Avete già avuto modo di proporre i nuovi brani dal vivo prima del blocco?
Durante la lavorazione del disco abbiamo fatto alcuni live in cui abbiamo suonato in anteprima anche qualche pezzo nuovo. È fondamentale rodarli dal vivo in vista del tour ed erano anche quelli che ci rappresentavano meglio in quel momento, quindi perché no.

Quali sono i ricordi più belli legati alla vostra attività dal vivo?
Come tutte le band, spesso tra di noi ricordiamo episodi divertenti successi vivendo insieme in tour. Ma i ricordi più belli sono sicuramente i momenti di condivisione e scambio di energie come le partecipazioni ai festival o le aperture a band internazionali. Avevamo grosse attese per la data al Supersonic di Parigi in compagnia dei Camera, una delle più interessanti realtà post punk contemporanee, originariamente prevista per fine marzo scorso e che speriamo di poter recuperare quanto prima.

Trascrizione dell’intervista rilasciata a Mirella Catena nel corso della puntata del 14 luglio 2020 di Overthewall. Ascolta qui l’audio completo:

Black Rainbows – Magia cosmica

“Cosmic Ritual Supertrip” (Heavy Psych Sounds), nuovo album dei Black Rainbows, conferma la vena mutevole dei romani: una manciata di brani che, se non distrugge l’etichetta di stoner rock band affibbiata al terzetto, almeno ne allarga le maglie con canzoni che oggi più che mai giocano con le influenze heavy psych, garage e, soprattutto, space. Alla guida della navicella il cosmonauta Gabriele Fiori, personaggio che vive la musica a 360 gradi, andando a ricoprire ruoli diversi – musicista, discografico e promoter – che gli assicurano una visuale panoramica d’eccezione sull’attuale stato di salute del music biz. Per questo, la nostra intervista non si è limitata alla disamina dell’ultima fatica dei Black Rainbows, ma inevitabilmente ha acquisito un respiro ben più ampio.

Ciao Gabriele, ben ritrovato. Se non erro la nostra ultima chiacchierata risale al 2010, quanto è cambiato – se è cambiato – il sound dei Black Rainbows dai tempi del vostro secondo album?
Si è evoluto, anche se non troppo, abbiamo di continuo cercato di cambiare la nostra formula, rimanendo però sempre fedeli alle linee guida della heavy psichedelia, dello stoner e dello space rock, generi che sono le tre matrici che ci contraddistinguono. Lo facciamo senza voler inventare nulla di nuovo, ben consci di pagare il tributo al sound degli anni 60 e 70 di Hawkwind, MC5, The Stooges, al garage e allo stoner dei 90. In generale, credo che sia migliorato il nostro songwriting, la struttura delle canzoni è più lineare e diretta, consentendoci così di esprimerci in modo ottimale. Anche la produzione è migliorata rispetto alle nostre prime produzioni, sicuramente più amatoriali. I Black Rainbows hanno bisogno di alti livelli qualità per poter dare il meglio sia in studio che su un palco.

Credi che in “Cosmic Ritual Supertrip” ci sia una canzone che più di altre rappresenta il vostro sound attuale, raccogliendo in sé tutte queste caratteristiche che hai appena enunciato? Forse “Universal Phase”, brano da cui avete tratto un video?
No, non credo. Come ti dicevo, facciamo più cose e ci piace esplorare, per questo ritengo che siano necessarie più canzoni per riassumere il nostro stile odierno. “Universal Phase” a me piace molto, ma devo confessarti che molte volte partiamo in modo inconsapevole con la scrittura, magari da un riff, poi ci mettiamo la voce e gli arrangiamenti, così brani che magari a tavolino credevamo dei capolavori, poi si sono rivelati meno belli; song su cui in principio non puntavamo, alla fine sono diventate delle nostre hit. “Universal Phase” è più heavy doom, e mi piace molto, “Hypnotized by the Solenoid” è più psichedelica, mentre “At Midnight You Cry” è più catchy.

A me è particolarmente piaciuta una delle tracce che hai citato, “Hypnotized by the Solenoid”, che mi dici di questo brano?
Un pezzo lungo, ben strutturato e con parti diverse. Pur essendo psichedelico, abbiamo puntato su un sound molto pesante, cosa che a noi piace parecchio. Tornando al discorso di prima, questo è il tipico pezzo che abbiamo registrato senza sapere cosa avremmo tirato fuori, perché non ha la solita struttura strofa ritornello, ma contiene un sacco di parti improvvisate e verso la fine ci sono degli incastri di batteria molto interessanti. Ecco, l’avevamo lì in bozza e abbiamo detto lavoriamoci un po’ su, vediamo se regge. Alla fine abbiamo visto che reggeva.

Hai parlato di sound pesante anche nelle parti più psych, come ottieni il tuo suono di chitarra?
Più o meno la ricetta è sempre la stessa, uso un fuzz con un amplificatore pulito per enfatizzare al massimo la resa del pedale. Pur andando a distorcere parecchio, cerco di mantenere il tutto il più chiaro e definito possibile.

Ancora una volta hai scritto tu sia musica che liriche. Ma il lavoro in studio come avviene, assegni le parti ai tuoi compagni che le eseguono o comunque le tue idee vengono rielaborate prima di essere incise?
Quasi ogni giorno scrivo, butto lì uno o più riff, e da queste cellule parte un’opera di costruzione più strutturata. Cerco di portare in sala qualcosa che abbia già una sua forma, così che da poterla presentare agli altri in modo più comprensibile. Poi parte un lavoro di squadra, una sorta di gioco in cui aggiungi e togli parti – strofe, ritornelli, intro, finale lungo o corto – registrando qualsiasi cosa anche in modo amatoriale col telefono. Ascoltiamo il risultato e individuiamo l’ossatura definitiva del brano. Per quanto concerne i testi, parto con qualche improvvisazione melodica, aggiungendo qualche parola sino al testo definitivo.

Prima parlavi della necessità di avere il suono giusto per voi sia in studio che dal vivo: il disco è stato registrato presso i Forward Studios di Roma, credi che ormai il gap con le sale di registrazione europee e statunitensi sia stato colmato dall’Italia?
Sì, decisamente. La registrazione è una fotografia, un qualcosa di magico che avviene in una determinata cornice. Quindi è una concatenazione di elementi diversi, che vanno dai musicisti, ai microfoni sino al banco e alle fasi di missaggio. Come qualsiasi cosa, ne puoi trovare di buone da noi, negli USA, in Francia e in Svizzera, come puoi beccare delle cagate clamorose ovunque. Oggi non c’è bisogno necessariamente di andare all’estero per avere un buon lavoro, bisogna solo fare attenzione a chi ci è dietro e a chi ci mette mano.

Al d là del gap colmato, però sbaglio se dico che la vostra è più una dimensione internazionale che nazionale?
Dipende da cosa intenti per dimensione, per esempio il nostro tipo di stoner in Italia non va tantissimo, mentre fanno numeri più alti cose bene più articolate tipo Melvins et similia. La “banalità”, banalità tra virgolettissime, dello stoner non tira, anche perché da noi non ci sono strutture, audience e magazine per certi suoni. Manca anche la cultura di come si va ai concerti, mi riferisco sopratutto gli orari e alla fruizione dei servizi, per esempio in Germania un tedesco medio va al bar e si beve 46 birre oppure compra più volentieri un vinile, senza fare particolari problemi. Poi ci sono situazioni pessime anche all’estero, per esempio in Scandinavia non andiamo mai a suonare. Però da noi non è tutto da buttare, qualcosa si muove, con la mia agenzia riesco a piazzare delle date underground più facilmente in Italia che in Paesi più blasonati.

Nel vostro sound da un certo momento in poi mi è apparsa evidente l’influenza dei Monster Magnet, in qualche modo il Supertrip citato nel titolo del vostro “Cosmic Ritual Supertrip” è una sorta di tributo al loro “Powertrip”?
Sono una delle nostre maggiori influenze con Fu Machu, Motorpsycho, Nebula e Kyuss. No, in realtà a me ricorda più un titolo degli Hawkwind. Alla base di questo disco ci sta proprio la volontà di fondere musica dei 60, stoner e psichedelia. Lo noti anche dalla copertina, con quelle strisce space e il teschio heavy, che a me piace molto. Però non posso negare l’influenza dei Monster Magnet.

Ricordo che anni fa mi ha definito il vostro migliore recensore, non ti chiedo se all’epoca lo dicessi a tutti, invece vorrei sapere: quanto conta una recensione nel 2020?
Se l’ho detto all’epoca è perché sicuramente ci credevo! Quanto conta una recensione oggi? Sicuramente molto meno del 2010, oggi ci sono tante possibilità che prima non c’erano. Il mercato è cambiato, basta un post fatto bene su un social media per sostituire tante parole. Purtroppo, tutto il comparto magazine e webzine soffre parecchio perché l’attenzione è sempre più bassa, è difficile che qualcuno si vada a leggere bene una recensione. Tutto è più istantaneo e veloce, c’è sempre meno tempo da dedicare a un disco. La fruizione è diventata più rapida, Spotify nel giro di un paio d’anni ha ammazzato il sistema. Prima c’era qualcuno che comprava il digitale per 9 euro, preferendolo al fisico, ma oggi con 9 euro al mese hai la discografia completa di chiunque. Noi band in compenso non riceviamo niente e subiamo questa situazione in modo passivo senza ribellarci. Tornando alla tua domanda, prima la recensione era un passaggio fondamentale, oggi meno, ma serve comunque e va fatta. Io con la mia etichetta spendo parecchio in promozione e cerco di fare arrivare i nostri dischi a tutti i media.

In questa dimensione nuova, con le vendite degli album quasi azzerate, qual è il parametro che sancisce se una band ha successo o meno?
Al momento le vendite non sono azzerate, però sono in continua discesa. Io non vendevo dischi nei 60, 70, 80, 90 e primi anni 2000, quindi non saprei, però ora se un disco è importante, qualche numero lo si raggiunge. Sicuramente possono essere un buon termometro i concerti e gli stream, ma non necessariamente. Probabilmente il posizionamento nei festival del gruppo è un segnale credibile, da là poi partono altre considerazioni sul come oggi i gruppi riescano in modo indipendente, tramite i propri canali, a vendere merch e dischi. Probabilmente qualcosa si è persa e qualcosa si è guadagnata altrove.

In te convivono tre figure – l’artista, il proprietario di etichetta e l’agente booking – che hanno subito evidentemente un forte danno dalle recente pandemia, ma quale delle tre esce peggio da questa esperienza?
L’artista ha preso un bello schiaffone, anche perché le ultime uscite importanti nella nostra scena – Elder, 1000Mods, Brant Bjork – hanno subito, oltre al danno economico, anche quello di immagine derivante da una minore esposizione. Per quanto concerne il booking, io lavoro in questo ambito ininterrottamente da non so più quanto tempo, quindi non ti nascondo che una pausa ci voleva. Difficilmente mi sarei fermato di mia volontà in modo così netto, ci ho perso qualcosa economicamente, ma in salute ci ho guadagnato. Sfera personale a parte, dal punto di vista tecnico il booking ne esce devastato, anche perché non si sa ancora quando potremo riprendere. In riferimento all’etichetta, devo ancora capire: i negozi di dischi stanno riaprendo ora, molti essendo rimasti a casa hanno fatto ordini on line, spostando le vendite su un altro canale. C’è tanta voglia di ripartire e sono convinto che nel giro di un anno chi il disco lo vuole, lo comprerà comunque. Forse da questo punto di vista, posso lamentarmi meno. Qualche spesa l’ho dovuta tagliare, il nostro album lo dovevamo promuovere accompagnando una band fantasmagorica in date da 2000 – 3000 persone e partecipando al Desert Fest. Quel programma ci aveva fatto stampare un numero maggiore di copie che altrimenti non avremmo fatto. Ricapitolando, booking in primis, poi artista e, infine, etichetta.

g.f.cassatella

Alix – Uno ma buono

Chi ha detto che in Italia non si può fare rock di ottima qualità? Chi afferma certe cose probabilmente non conosce gli Alix…

Innanzitutto, complimenti per “Good 1”, un album veramente bello.
Grazie!

Vi va di presentarlo ai nostri lettori?
E’ il nostro quinto lavoro, registrato e mixato da Steve Albini al Red House Recordings di Senigallia, masterizzato a Chicago da Bob Weston, artwork di Francesca Ghermandi.

Come nasce un vostro brano?
In sala prove o dal vivo: uno di noi lancia un’idea, Alice improvvisa una melodia e ci lasciamo trasportare dall’energia del brano. La stesura e gli arrangiamenti vengono subito dopo… ci lavoriamo fino a che non siamo tutti convinti.

Chi cura i testi e di cosa parlano?
I testi sono di Alice, quasi sempre visionari e molto poetici, liberi nell’interpretazione a seconda degli stati d’animo.

C’è un brano a cui siete più legati?
No, direi che “ogni scarrafone e bello a mamma soia”.

La song posta in chiusura, “Bianco E Nero”, è l’unica in italiano. Come mai?
E’ il remake di un brano già inciso nel nostro primo acoustic/album. Negli anni, a forza di suonarlo dal vivo è cambiato e abbiamo sentito l’esigenza di reinciderlo, anche perché dopo i concerti tutti ce lo chiedono.

Come siete entrati in contatto con Steve Albini e come è stato lavorare con lui?
Il tramite è stato David Lenci, con cui avevamo registrato il disco precedente “Ground” sempre al Red House Recordings di Senigallia. David aveva già collaborato con Steve Albini , gli ha chiesto se gli andava di registrare il nostro ultimo lavoro e lui ha accettato. Lavorare con lui è stato semplicissimo e molto divertente: Steve lavora in modo molto razionale, tutto sostanza, pochi fronzoli. Il Red House Recordings poi è un luogo che ha una bella energia: una casa di campagna in mezzo al verde dove la cucina e le camere al primo piano ti permettono di riposare e staccare la spina quando sei stanco.. Con Steve ci siamo fatti delle gran partite a scopone scientifico quando avevamo voglia di cazzeggiare.

Il vostro sound è alquanto particolare, quali sono le vostre influenze?
Grazie, per me è un gran complimento! C’è talmente tanta bella musica, sia nel passato che nel presente, che evito di elencare i soliti nomi.. sicuramente siamo influenzati da tutto ciò che ha un’anima.

Sicuramente ciò che vi caratterizza maggiormente è la voce di Alice…
Dopo anni che suoniamo insieme continuo ad emozionarmi sentendola cantare. Ecco, lei ha un’anima.

Ho avuto l’occasione di vedervi dal vivo. Credo che oggettivamente in quella sede le vostre canzoni rendano al meglio. Vi considerate una band da studio o da palco?
Facciamo finta di stare sul palco quando andiamo in studio e cerchiamo sempre di divertirci. Ovviamente l’energia che recepisci dalle persone nei live è unica e questo influisce sicuramente sulla resa dei brani.

Le prossime date?
Stiamo organizzando un tour sia in Italia che all’estero, avrete nostre notizie.

Con quali band vi piacerebbe dividere il palco?
Sicuramente il gruppo spalla di Jimi Hendrix Experience.

Grazie, a voi il compito di chiudere l’intervista…
Grazie a voi, veniteci a vedere dal vivo! Keep on rockin

g.f.cassatella

Intervista originariamente pubblicata su www.rawandwild.com nel 2008 in occasione dell’uscita di “Good 1.”
http://www.rawandwild.com/interviews/2008/int_alix.php