Il nostro cammino nel panorama musicale italiano a caccia di realtà interessanti ci ha fatto incrociare una creatura a tre teste dal nome, Belvas, che di per sé è una sorta di “manifesto programmatico”. Grazie alla Metaversus di Marco Gargiulo abbiamo potuto contattare il gruppo per parlare dell’album d’esordio “Roccen”.
Ciao ragazzi, come e quando nasce la band? La band nasce nel 2018 dalle menti di Claudio Palo alla batteria (membro fondatore dei Manetti! ed ex membro dei Milaus) e Mirco Lamperti al basso, che hanno posto le fondamenta con gli embrioni di basso e batteria di cinque brani (“Belvas”, “Bianco”, “Pink Boy”, “Spaziale”, “AnDn”), finalizzati nel 2019 con testi, linee vocali e di chitarra con l’ingresso di Paolo Rosato alla chitarra elettrica e Manuel Dall’Oca alla voce e successivamente basso e chitarra acustica.
Il moniker Belvas è arrivato da subito oppure col tempo? Ve lo chiedo perché dall’ascolto della vostra musica pare che il nome sia quasi un manifesto programmatico… Belvas deriva da Belva, appellativo attribuito al batterista per il suo carattere irruente e per il suo modo di suonare, diventato poi nostro punto di forza.
Un elemento che salta subito all’occhio a chi ha il vostro CD di esordio, “Roccen”, in mano è il disordine che regna sovrano. Tra scarabocchi e scritte varie, quasi si resta storditi. Quanto è importante per voi disordine in fase compositiva? Il disordine in copertina e nelle grafiche del disco è solo apparente, bisogna farci l’occhio per poterlo apprezzare appieno e cogliere l’importanza che diamo ad ogni dettaglio. Non c’è disordine nel nostro modo di creare, sia nella composizione dei brani che nella preparazione delle grafiche.
I brani paiono mettere in evidenza una doppia anima, una più rude e una più delicata. Come riuscite a bilanciare questi elementi nella vostra musica senza che uno prenda il sopravvento sull’altro? Il bilanciamento tra indole rude e delicata non è studiato ma è il nostro modo di essere. Questa è una delle caratteristiche che ci rispecchia maggiormente e la si può sentire in modo evidente in “Piacere E’ Dolore”, secondo noi il brano che racchiude perfettamente queste due anime contrastanti.
“Roccen”, contiene 15 brani per più di un’ora di musica, quasi una rarità oggi un disco così lungo. I pezzi sono stati composti appositamente per l’esordio o avevate alcuni di loro chiusi nel cassetto da tempo, magari per un altro progetto? L’album “Roccen” è una raccolta di 15 brani scritti per l’esordio. La lunghezza è voluta, è il nostro modo di ribellarci a una società dove tutto scorre a mille orari ma si ha bisogno di più aria, dove il tempo è solo denaro.
In un periodo in cui l’ascolto, e di conseguenza l’attenzione, del pubblico va sempre più verso il singolo, tirar fuori un disco così lungo può essere un rischio? Sicuramente è un rischio e ne siamo consapevoli, ma noi siamo amanti della cultura musicale vecchio stampo.
In generale quanto vi riconoscete nella scena musicale odierna? Dall’ascolto di “Roccen” parete più proiettati sul passato, sui 90 e anche più indietro… Rispetto alla scena musicale odierna facciamo parte della minoranza, con un background musicale che arriva dagli anni 90 e anche più indietro, ma restiamo comunque proiettati verso il futuro!
Un’altra impressione che ho ricavato dall’ascolto e che forse lo vostro musica sta un po’ stretta tra i solchi di un disco, pare quasi fatto esclusivamente per essere suonata dal vivo: siete riusciti a testare i brani su un palco tra un lockdown e l’altro? Qual è stata la versione del pubblico? Bella domanda! L’album è stato registrato volutamente in presa diretta, per avere un suono il più possibile fedele a quello che è un nostro live. Purtroppo stiamo iniziando solo ora a programmare qualche data dal vivo causa Covid ma la reazione del pubblico nelle poche esibizioni che abbiamo fatto finora è stata positiva.
Ora che la belva è fuori, qual è il suo prossimo passo? È tutto, grazie. Siamo al lavoro sul secondo disco, ma stiamo puntando a portare finalmente in giro “Roccen” che, come una belva in catene da troppo tempo, ha bisogno di uscire.
“Bigg Men” (Home Mort, 2021) è l’album d’esordio omonimo della band stoner siciliana, prodotto insieme all’etichetta sarda, che unisce idealmente con un ponte psichedelico le due maggiori isole italiane.
Circolano poche informazioni sul vostro conto, la vostra musica però parla molto chiaro. Fondare un gruppo stoner, genere che spazia dal doom metal al rock psichedelico, è stata un’idea ragionata a priori o vi siete ritrovati in queste sonorità spontaneamente jammando insieme? Ci sono versioni contrastanti su come tutto è nato. Di mezzo ci sono degli incontri casuali al box, dove suoniamo, per assistere alle prove dei Sgt. Hamster (padrini ideali con cui abbiamo suonato il nostro primo live nel 2015), ritorni da lunghi esili e delle discussioni alterate dal caldo (e da altro) ad una festa in piscina. Ognuno di noi aveva espresso il desiderio di provare a suonare qualcosa di lento, pesante e psichedelico visto che tutti e tre i Bigg hanno sempre suonato in gruppi velocissimi della scena punk palermitana (FUG, ANF, Il Tempo del Cane, Negative Path). La nostra indole riflessiva e il nostro procedere felpato hanno sicuramente influenzato il nostro suono. Per il primo anno di prove al box si può dire che non ci siamo mai rivolti la parola fra di noi, suonavamo e basta. Dopo un annetto abbiamo cominciato a essere un po’ più sciolti ma evidentemente siamo degli orsi non soltanto fisicamente ma anche spiritualmente.
“Bigg Men” è il vostro primo album omonimo, ma già nel 2016 avete pubblicato tre canzoni nello split “Bigg Men/HYLE”. Oltre alla maggiore ricercatezza degli arrangiamenti, qual è l’evoluzione più notevole fra lo split e questo album secondo voi? In realtà le canzoni dello split e quelle dell’album sono nate nello stesso periodo e sono state registrate nella stessa sessione.
Ah! E come è nata la collaborazione con Giorgio “Furious” Trombino al sassofono per “Mule hair”, terza traccia del disco? Furious per noi è un amico e in un caso addirittura un fratello. Fu lui a darci il nome Big Men, per il quale non si è neanche dovuto sforzare troppo: bastava vederci. Dario ha aggiunto una G e siamo diventati i Bigg Men. Poi Giorgio è sempre stato un nostro consigliere ed estimatore da amante del genere avendo suonato nei Sgt. Hamster e negli Elevators to the Grateful Sky. Non ricordiamo ora se tutto è nato durante delle Jam alle quali aveva partecipato o se il pezzo fu scritto pensando già ad una sua partecipazione, in ogni caso a noi piacciono le collaborazioni!
Oltre alla versione digitale, avete deciso di rilasciare l’album anche in cassetta. Assodata l’obsolescenza di qualunque supporto fisico per l’ascolto di musica, credete che le cassette vivranno lo stesso revival degli LP o pensate che resteranno un prodotto assimilabile quasi ad un gadget? Mai smesso di accaparrarci cassette. Sono belle da vedere, costano poco e permettono di far girare la propria musica ad un gruppo squattrinato come lo sono i gruppi punk/hardcore/metal che si autoproducono. Inoltre gli amici di Home Mort hanno fatto un lavoretto grafico di fino, le loro cassette sono molto ricercate nelle scelte stilistiche. Ma poi ormai chi è nato dopo il 2000 non fa distinzione fra CD, cassetta e vinile, è tutta roba vecchia. La solita lotta fra adolescenza e obsolescenza.
Le uniche informazioni che sono riuscito a trovare sul vostro conto parlano di “Una stirpe di uomini che avevano un occhio solo, più alti degli alberi e bevitori di sangue umano”. Non esistono vostri video promozionali che provino queste scarne frasi, ma nel dubbio preferisco non contraddirvi. A parte gli scherzi, perché per “Barbarian”, il singolo del disco, avete rilasciato un “video audio” e non un “video video”? Il “video audio” è stato rilasciato dai ragazzi di Home Mort come promo della cassetta. In realtà ti dobbiamo contraddire perché esisteva già un “video video” di “Barbarian” che abbiamo caricato su YouTube un paio di anni fa. Avevamo montato una clip del videogioco ispiratore dell’omonima canzone. In fondo, neanche tanto, siamo dei nerd.
Ascoltando le vostre canzoni e leggendone i titoli mi vengono in mente mostri medievali e guerre titaniche. Quest’impressione è confermata dall’immagine di copertina, in cui campeggia un dinosauro. Chi l’ha realizzata e perché avete scelto proprio questo animale? È tutto opera dei produttori, deve essere così che ci vedono gli amici sardi dell’etichetta.
Anch’io allora vi vedo come gli amici di Home Mort, etichetta nata nel 2018. Come vi siete conosciuti e come avete lavorato insieme? Home Mort è l’etichetta gestita dai Green Thumb, una band sarda con cui abbiamo condiviso un mini tour a tre (l’altro gruppo erano gli Evil Cosby) quando ancora era possibile farlo senza restrizioni di sorta (sic!). In quell’occasione abbiamo condiviso una manciata di serate e loro stranamente devono averci trovato simpatici, tanto che dopo poco tempo il loro batterista Fabrizio ci ha inviato una grafica che gli avevamo ispirato e noi ne abbiamo realizzato una T-shirt. Dopo un tot di tempo ci hanno contattato per dirci che volevano realizzare la versione in cassetta del nostro primo full-length, che fino ad allora aveva visto la luce in versione CD autoprodotta. Non potevamo che essere strafelici di accettare la proposta.
Per quanto riguarda il processo creativo delle canzoni, c’è una differenza fra le composizioni di Carlo e quelle di Kevin? Arrivate in sala prove con le canzoni già strutturate oppure ognuno porta delle idee che poi sviluppate insieme, con l’apporto di Dario alla batteria? Si ci sono sicuramente delle differenze nel modo di comporre tra di noi, dettate dal nostro modo di suonare e dalle influenze musicali di ciascuno. Qualche volta è capitato che arrivassimo alle prove con dei pezzi più o meno strutturati, altre volte sono nati pezzi o riff dalle improvvisazioni. Il più delle volte qualcuno propone uno o più riff e poi ci si improvvisa sopra finché non ci sembra di avere una canzone tra le mani, quindi diremmo che in realtà la nostra è una composizione corale che valorizza le stravaganze individuali.
Dopo un lungo “letargo” per la band, periodo in cui Kevin e Carlo hanno abitato lontano da Palermo, ultimamente avete ricominciato a suonare con più continuità. Avete ripreso da quanto lasciato in sospeso o avete iniziato a lavorare a canzoni nuove? Non parleremmo di “letargo”, quando non ostano impegni lavorativi o di studio, o viaggi individuali a qualsivoglia titolo, o quarantene da zona rossa (sic!) riusciamo in qualche modo a organizzarci per dedicarci alle prove o anche a jam di improvvisazioni, che ci sollazzano sempre alquanto. In verità abbiamo registrato sette nuove canzoni che costituiscono un altro album già pronto, e inoltre stiamo già lavorando a nuovo materiale per un progetto sul quale al momento non vogliamo dire altro se non che è ispirato alla “sorellanza transregionale”.
Gli OJM sono stati una delle prime realtàitaliane dedite allo stoner-rock, lavorando spesso a stretto contatto con gente come Brant Bjork (Kyuss) e Dave Catching (Desert Sessions, QOTSA). A dieci anni dall’ultimo album in studio “Volcano” la band trevigiana – mai ufficialmente sciolta – ha da poco pubblicato “Live At Rocket Club” (Go Down Records / All Noir) che fotografa il quartetto in uno dei momenti più intensi della propria vita artistica.Ne abbiamo parlato con Max e Andrea, rispettivamente batteria e chitarra nella band.
Ciao ragazzi e benvenuti su Il Raglio del Mulo, è un piacere riascoltare un disco degli OJM a dieci anni dall’ultimo lavoro in studio, come mai è passato così tanto tempo dall’ultima release? Andrea: E’ un piacere per noi! Negli ultimi anni, dopo “Volcano” e il relativo tour, abbiamo ristampato “Heavy” (nostro secondo lavoro in studio) intraprendendo un tour con la formazione originale dell’epoca, al quale è poi seguito un tour per festeggiare l’anniversario e qualche reunion per particolari occasioni, come è stato nel 2015 quando abbiamo suonato con gli Eagles of Death Metal. Per il resto ci siamo dedicati ai nostri relativi side-project, Max e Ale con Ananda Mida, Pozzy con i suoi The Sade. Non siamo mai stati fermi insomma, però non abbiamo più composto materiale per un eventuale disco, fino a quando non ci è tornato tra le mani un vecchio live che abbiamo rimasterizzato per estrarne questo nuovo vinile.
Siete stati tra i primi mover della scena stoner rock italica, poi gradualmente vi siete spostati su un garage rock meno aggressivo se vogliamo, com’è cambiata la scena anche a livello internazionale secondo voi? Max: Di sicuro ultimamente c’è stato un ritorno di quei generi che, se mi concedi, noi ascoltavamo già a fine anni 90, e con i quali poi siamo partiti. Al tempo si era però “pecore nere” che proponevano un sound che traeva ispirazione dallo stoner, doom, psichedelia. Generi che ora sono molto più in voga di allora. C’è stato un revival di molte band al tempo di nicchia ed una ricerca da parte del pubblico e dei musicisti atta ad esplorare determinati generi. Per noi non è cambiato nulla, quello che ascoltavamo allora lo rivediamo in molte band oggi, ed alcuni comunque ripropongono un certo sound in maniera egregia!
In questo periodo di mancanza dei live voi uscite con questo disco live del 2011, nostalgia o state serrando i ranghi per un ritorno in grande stile a fine pandemia? Andrea: Un live ci sta tutto in questo periodo di stop forzato, c’è bisogno di ascoltare almeno su disco un po’ di sano groove da palco! Il lato positivo è che molto pubblico ha più tempo da dedicare all’ascolto, e questa è una buona cosa. Ci sembrava il momento giusto per uscire con un disco live. Per il momento non ci sono idee in cantiere ma tutto può succedere, di sicuro se ne avremo la possibilità torneremo on stage per qualche live e qualche speciale occasione! La voglia di suonare e di ritrovarci c’è sempre, soprattutto in questo momento di pausa forzata.
Avete sempre lavorato con grandi personaggi – da Paul Chain a Brant Bjork a Dave Catching per non parlare di Michael Davis degli MC5 – cosa vi hanno lasciato del loro bagaglio di esperienze queste persone che in un certo senso hanno un po’ inventato un certo modo di fare musica? Andrea: I ricordi più belli, oltre alle scorribande in tour, sono legate a questi personaggi, sia a livello artistico ma soprattutto umano. Avere la possibilità di confrontarsi e condividere il palco con questi artisti è stato entusiasmante: dalla genialità di Paul, all’umanità di Brant Bjork (per noi come un fratello), alla professionalità di Dave Catching, ma soprattutto all’affetto e alla “storia” scritta da Mike Davis (RIP). Tocchi con mano la persona, conosci e trai ispirazione dall’artista, condividi e impari. Sono cose che ti lasciano un bagaglio artistico non indifferente, e tanti bei ricordi.
In dieci anni le cose sono cambiate tantissimo, dalla promozione al modo di porsi degli ascoltatori, cosa deve fare oggi una band che nasce oggi per farsi ascoltare e venire fuori dal marasma attuale? Max: Noi ci siamo sempre limitati ad essere noi stessi, a seguire la nostra linea senza badare alle mode del momento. Ovviamente al di la del lato artistico il marketing promozionale è cambiato molto, i live restano importanti ma oggi si viaggia sui social, bisogna saper adottare strategie di conquista anche online ma la chiave resta essere artisti e aver qualcosa da dire e trasmettere attraverso la musica, prima o poi la musica giusta si farà sentire… la musica non si può ridurre solamente a marketing e immagine, c’è sempre bisogno di un valore aggiunto o di qualcosa da esprimere. Poi sì, c’è molta confusione, il pubblico è bersagliato da mille messaggi, la gente tende a sentire e non ad ascoltare, ma noi confidiamo in quel pubblico (molte volte di nicchia) che sa ascoltare ed è appassionato.
Vi siete sempre mossi parallelamente alla Go Down Records, una tra le prime etichette a credere nel rock’n’roll più vintage e autentico, in questo periodo si parla spesso dei club e dei musicisti ma le etichette indipendenti come se la passano durante la pandemia? Andrea: Come detto da un lato il pubblico si sta prendendo più tempo per ascoltare, comprare dischi e c’è più tempo da dedicare alla musica, molti stanno soffrendo della mancanza dei live, per tanti principale fonte di svago. Anche noi come etichetta siamo purtroppo fermi con eventi e live, le nostre band non possono girare, stiamo investendo sulla promozione via web cercando di far uscire più musica possibile, senza mai fermarci, la crisi inevitabilmente c’è, ma noi facciamo parte della vecchia scuola, lavoriamo con passione e ci mettiamo il cuore, supereremo anche questa situazione.
Cosa state ascoltando ultimamente? Max: Ultimamente stiamo ascoltando molta musica psichedelica.
Lascio a voi le conclusioni e spero di ascoltarvi dal vivo il prima possibile! Max: Sicuramente finita questa emergenza sanitaria faremo dei concerti per presentare questo ultimo disco dal vivo. Magari dopo ci verrà ispirazione di fare un nuovo disco. Per sempre rock’n’roll
In attesa del nuovo album previsto nel corso del 2021, la stoner band viterbese dei Gorilla Pulp– con due dischi usciti per la Retro Vox Records e un’intensa attività live anche al fianco di nomi importanti come Marky Ramone e Ufomammut – ha appena pubblicato “Peyote Queen”, primo di tre singoli frutto di un fortunato ritrovamento di vecchie registrazioni che meritavano di essere diffuse.
Ciao ragazzi e bentrovati su Il Raglio del Mulo, è appeno uscito il singolo di “Peyote Queen” nella versione demo del 2015, raccontateci un po’ come avete ritrovato questi vecchi file? Grazie cricca de Il Raglio del Mulo per averci invitati a questa intervista, è sempre un piacere condividere la giungla insieme! Il singolo di “Peyote Queen” in versione “Demo Tape” è uscito fuori davvero per caso. Cercavamo dei file nel nostro hard disk comune e dentro una cartella palesemente porn abbiamo notato una sottocartella anomala. Ce n’eravamo davvero dimenticati e invece guarda cosa è uscito fuori? Le prime demo del nostro primo full-length “Peyote Queen”.
Cosa è cambiato da queste versioni e come mai avete deciso di pubblicarlo? Le versioni sono abbastanza simili nell’arrangiamento ma diverse sia nel playing che nell’intenzione. Sono tre tracce registrate interamente live in due, massimo tre take cadauna. La differenza sta proprio nel fatto che erano nate come “provino” e sentire come giravano i brani da inviare alla nostra produzione. Avevamo poi deciso di salvarle perché ci sembrava un buon prodotto, registrato bene e molto diretto, ovviamente anche molto grezzo. Abbiamo deciso di pubblicarle ora poiché tanti ci hanno conosciuto proprio attraverso questo disco e ci sentivamo in dovere di omaggiare tutti con un bel ricordo in studio di registrazione.
Come nasce un brano dei Gorilla Pulp? Un nostro brano nasce molto “alla vecchia”. Uno di noi si porta in sala prove un riff che gli è piaciuto, che lo ha ispirato e lo propone alla band. Iniziamo a jammarci su improvvisando e vediamo cosa ne esce fuori. Nel mentre Maurice (vox e chitarre) comincia ad adattarci un testo e una linea melodica finché non troviamo la quadra giusta. L’ispirazione e la voglia finora, fortunatamente, non ci è mai mancata e siamo molto molto affiatati.
Nel 2017 un vostro brano “In Your Waters” è stato inserito in un videogame “Wreckfest” (uscito su Sony Playstation, Xbox e Pc.) raccontatemi un pò di questa esperienza, come ci siete arrivati? L’esperienza è stata davvero bella perché mai avremmo pensato di finire in un videogame automobilistico e soprattutto fico. Quando ci è arrivata la mail dalla loro produzione non ci credevamo nemmeno ed è stato proprio quello il bello: una notizia improvvisa e molto piacevole. Hanno fatto tutto loro, al direttore della colonna sonora è piaciuta quella canzone e ci ha inviato il contratto da firmare con le varie esclusive sul gioco. Una bella soddisfazione e che gioco potente!
In tempi di pandemia con i live club chiusi ormai da un anno, avete mai pensato a fare uno show in streaming? Ci abbiamo pensato e l’idea non ci dispiace. Quello che ci dispiace, come tanti nel nostro mondo, è quello di non poter sudare assieme con la nostra gente, tutti accalcati e profumati di rock’n’roll. In ogni caso se lo streaming deve essere fatto, va fatto bene, anzi benissimo. Audio bello, riprese belle e diretta sui social anche di più, ma vedremo. Parteciperemo a fine febbraio ad un evento molto valido organizzato a Roma in totale sicurezza, il quale vi sveleremo pian piano nei prossimi giorni.
Quando c’è stato il vostro ultimo concerto? Siete riusciti ad esibirvi nel 2020? I nostri ultimi concerti sono stati a luglio 2020, doppietta di fila venerdì e sabato dai nostri fratelli della Backstage Academy di Viterbo, nella stessa location. Le due date furono sold out e su prenotazione obbligatoria, in totale sicurezza ed alcuni posti a sedere. Fu una sensazione strana e diversa suonare e preparare due concerti così, soprattutto per poter rispettare ogni regola e non rischiare.
Cosa state ascoltando in questo periodo? Da cosa vi lasciate influenzare? In questo periodo ci siamo soffermati ad ascoltare un bel po’ di Blue Oyster Cult e il perché lo capirete nei prossimi mesi. Di certo non mancano anche gli ascolti attuali per capire come sta andando il mondo della musica, siamo molto aperti alle nuove uscite per poter dare un giudizio fondato. Le nostre influenze rimangono comunque i grandi classici degli anni’70 in ogni sfumatura di questo brillante periodo del blues rock.
Come procedono i lavori per il nuovo disco? Cosa dobbiamo aspettarci? Il nuovo disco è pronto e siamo in dirittura d’arrivo con la programmazione dell’uscita. Siamo davvero soddisfatti del grosso lavoro eseguito in tandem con la nostra produzione, sia dal punto di vista dell’audio che del prodotto finale che ne verrà. Sarà un disco interattivo, non solo da mettere su in un giradischi. Sarà interazione fisica e mentale in tutto e per tutto, una cosa inedita che non avevamo mai sperimentato prima! Speriamo vi piaccia! Un grosso abbraccio dalla Tufo Rock Army e ancora grazie per averci dedicato il vostro prezioso tempo!
Raggiunto il traguardo del quarto album – “Seaward“(Subsound Records)uscito ad Ottobre 2020 – i Mr. Bison impreziosiscono il loro caratteristico groove heavy psych blues con le sfumature del progressive rock e del concept album. Ne abbiamo parlato con Matteo Barsacchi, chitarra e voce del triotoscano.
Ciao Matteo, complimenti per il vostro nuovo album “Seaward”, da dove è scaturita l’idea di pubblicare un concept? In questi ultimi anni ci siamo riappassionati agli anni 70 che avevamo lasciato un po’ in standby, soprattutto al prog rock 70, mostri sacri come King Crimson, Pink Floyd ma anche band un po’ meno conosciute come Captain Beyond e Nektar. In quegli anni molti album nascevano come concept , vedi capolavori come “Dark Side of the Moon” dei Pink Floyd o “Thick as a Brick” dei Jethro Tull, certamente lontano da noi paragonarci a band di questo livello, prendendo però in considerazione il fatto di creare un concept, anche se con una iniziale perplessità sul risultato, una volta individuato il tema, un giusto artwork e qualche buona pre-produzione in studio, tutto è andato in maniera molto naturale, con il risultato finale di“Seaward”.
“Holy Oak” è stato un album importante e molto apprezzato dalla critica, è stato difficile dare un seguito ad un lavoro di tale portata? “Holy Oak” è stato il passaggio dalle influenze Hard Blues di “We’ll Be Brief” e “Asteroid”, caratterizzate da composizioni dirette con molto Groove, a “Seaward” che fondamentalmente avevamo già in mente. Con “Holy Oak” abbiamo inserito molta psichedelica lasciando sempre una buona dose di tiro hard kock, mentre in “Seaward” abbiamo inserito molto progressive. Sarebbe stato un passaggio troppo netto senza un terzo album in stile “Holy Oak”. Siamo una band in continua evoluzione e stiamo già sperimentando cose nuove con ulteriori aggiunte di stili.
Nel vostro lavoro ci sono molte influenze che vanno dal folk al prog oltre a naturalmente l’heavy psych, da dove traete ispirazione? La maggiore ispirazione sono ovviamente gli anni 70, come ho detto nella prima domanda, mostri sacri come King Crimson e Pink Floyd, Black Sabbath, ma anche band meno note come Captain Beyond e Nektar…. Per quanto riguarda le band di nuova generazione siamo molto ispirati da band come Elder e Motorpsycho.
Siete un trio come ce ne sono tanti nella scena heavy psych blues ma con due chitarre e senza basso, la band è nata già con questo assetto o stato qualcosa che è avvenuta con il tempo? Agli esordi la formazione era composta da chitarra, basso e batteria, dopo pochi mesi integrammo un secondo chitarrista ma il bassista causa impegni lasciò il progetto. Io cominciai a sperimentare soluzioni sonore per fare a meno del basso, utilizzando octaver e accordature più basse, e proseguimmo così. Questa nuova soluzione ebbe un grande riscontro live ed il sound che ne usciva ci piaceva molto, quindi decidemmo di proseguire così. Negli anni ovviamente lo sviluppo e la sperimentazione sonora ci ha portato alla soluzione tecnica attuale molto più complessa ma davvero molto interessante, ossia l’utilizzo di doppio amplificatore chitarra/basso pilotati da una centralina artigianale che riesce a trasformare all’occorrenza con un click le chitarre in basso/hammond/mellotron.
Il nuovo album ha degli arrangiamenti molto ricchi, dal vivo come lo presenterete? Non deve essere facile – e lo dico da musicista – riproporre dal vivo un lavoro del genere. Collegandomi alla domanda precedente, per quanto riguarda l’aspetto live, restiamo abbastanza fedeli al disco, con le nostre pedaliere riusciamo a gestire basso, hammond e mellotron, in più il batterista riesce a suonare live dei droni/pad che abbiamo prodotto precedentemente ed inserito come sampler da suonare.
Non sarò probabilmente il primo a dirlo ma, trovo il vostro lavoro molto vicino alle atmosfere degli ultimi Motorpsycho (che personalmente adoro): cosa ne pensate? Beh, a mio parere i Motorpsycho sono la band di nuova generazione migliore del genere, hanno un songwriting complessissimo ma raffinato e reso di semplice ascolto dalla maestria tecnica che hanno. L’ultimo album è clamoroso, sperando non passi come messaggio polemico, mi sembra curioso che in moltissime classifiche di settore dei migliori album 2020 non siano stati neanche nominati. “The All Is One” è un capolavoro, fra l’altro ultimo capitolo di una trilogia sublime, “The Tower” e “Crucible” sono anch’essi album incredibili. E’ certo che band di questo tipo hanno bisogno di un ascolto attento e ripetuto per coglierne la grandezza. Lungi da me paragonarci a loro ma sicuramente anche la nostra musica ha bisogno di un ascolto ben focalizzato, non è musica diretta, “Seaward” è un concept album basato su un argomento ben preciso, sicuramente un ascolto consapevole sul tema e sull’artwork renderebbe l’ ascolto più’ coinvolgente.
Ci sono altre band della scena italiana che apprezzate o con cui avete in qualche modo legato magari on the road? In Italia ci sono moltissime band meravigliose, il livello è molto alto nella scena heavy psych stoner e prog; nello stile più stoner sicuramente, Black Rainbows, e Black Rlephant, nella psichedelia direi Giobia e da Captain Trips, nell’heavy psych citerei Humulus, Tuna de Tierra e Lee Van Cleef, nel doom e post rock/metal direi Messa e Vesta…. Ma sono stato molto breve, ci sono davvero moltissime band di alto livello che non sanno muoversi bene che purtroppo non hanno grande riscontro mediatico e quindi trovano pochi spazi qui in Italia e all’estero.
Cosa ne pensate dei concerti in streaming? Può essere un’opportunità o è solo un “palliativo” a causa della situazione attuale? Faccio davvero molta fatica ad accettare il concerto in streaming, per adesso non abbiamo ancora ceduto al farlo e spero che questa situazione riparta il prima possibile. Abbiamo avuto la fortuna di fare un release ad ottobre con pubblico seduto e distanziato, sicuramente non è lo stesso dello stare in piedi fronte palco, ma credo che sia un ottima soluzione per far ripartire pian piano le cose e soprattutto per sostenere tutto il settore, club, tecnici e musicisti.
Avete altri progetti musicali oltre ai Mr. Bison o vi dedicate esclusivamente a questa band? Ognuno di noi ha altre cose, è importante avere side project per liberare e sviluppare tutte le idee che possono essere meno idonee ad un unico progetto.
Grazie per la disponibilità e speriamo di potervi vedere “dal vivo” il prima possibile Ringraziamo tutto lo staff del Raglio del Mulo per questa intervista, ringraziamo inoltre tutti gli addetti al settore promozione, webzine, magazine, uffici stampa, blogger per il loro tempo prezioso alla divulgazione del meraviglioso underground Italiano.
Ancora una volta sulle pagine del Mulo una band che fa della propria provenienza un punto di forza e focus per il concept del nuovo album. “El Diablo Rojo”, degli El Rojo, è appena uscito per la Karma Conspiracy Records, ne abbiamo parlato con Evo Borruso, voce e autore dei testi della band.
Ciao Evo! Benvenuto su Il Raglio del Mulo, è un piacere ritrovarsi dopo qualche tempo! E’ fuori da pochissimo la vostra nuova release “El Diablo Rojo”, seguito dell’Ep d’esordio “16 Inches Radial” del 2018″ e dello split con i Teverts del 2019; raccontatemi un po’ in breve questi ultimi due anni da El Rojo.. Sono stati due anni ricchi di sorprese, sinceramente non credevamo che la nostra musica una volta uscita dal ranch (la nostra sala prove) potesse entrare in circolo così rapidamente, la cosa più bella è stata creare una pletora di connessioni con altre realtà sia underground come la nostra, sia di livello decisamente superiore come esperienza e quantità/qualità di release. Ovviamente non possiamo non citare la meravigliosa vittoria nel contest europeo indetto da Louder.me a Valencia. Siamo scesi dal palco in mezzo a un delirio di gente entusiasta della nostra performance. Ricordi che portiamo indelebili nei nostri cuori. Insieme alla birra da 0.5 a 2 euro e 10.
Il concept del nuovo album è un identikit del vivere al Sud con i suoi disagi e le sue contraddizioni ma con un forte senso di appartenenza, raccontatemi un po’ da dove nasce questa idea e chi si occupa dei testi. L’autore dei testi sono io, oltre che il frontman. Nel processo creativo le liriche sono sempre successive al mood che genera la strumentale, proprio per evitare di mettere paletti che potrebbero limitare la creatività, ma soprattutto per dare sempre il collante giusto fra parole e musica. Anche il concept è stato ideato da me e come sempre la decisione di prendere questa linea è stata condivisa da tutti, perché tutti condividiamo lo stesso senso di appartenenza al Sud. In parole povere: sono pazzo e mi lasciamo fare.
Nel vostro nuovo album ho notato un notevole passo in avanti in fatto di produzione ma allo stesso tempo una riconoscibilità immediata del sound “El Rojo” con un “appesantimento” globale delle chitarre, è una scelta precisa o un evoluzione spontanea? Era un nostro preciso obiettivo fare della produzione un punto di forza, la scelta del Monolith Recording Studio è stata per noi una scelta naturale in questo senso. Il sound “El Rojo” è un sound che abbiamo volutamente preservato in fase di produzione, Filippo è stato davvero collaborativo in questo senso e ci ha aiutati a lavorare nella direzione che rispecchiava il carattere di ognuno di noi, dalla batteria alla voce. Nel disco ci sono pezzi con contaminazioni che vanno dall’heavy al metal e ciò è dovuto solo in parte al cambio di line up. Sicuramente Fabrizio Miceli (il nuovo chitarrista ndr) ha portato con sé elementi che provengono dal suo background musicale ma è anche vero che fondamentalmente amiamo lo stoner metal! In ogni caso la nostra produzione artistica non è un oggetto statico e dello stoner amiamo tutto, i nuovi brani su cui stiamo lavorando introdurranno ancora più varietà al nostro repertorio. Praticamente siamo cinque metallari che si divertono a fare stoner.
L’album è uscito con l’ottima Karma Conspiracy Records, raccontatemi un po’ di questa fase del lavoro con loro, spesso si trascura tutto ciò che c’è dietro un progetto discografico soprattutto nell’underground. Filippo Buono si è trovato a lavorare con noi in duplice veste: produttore e label manager. In Karma Conspiracy Records si respira un’aria familiare, si vive in armonia, si collabora, ci si da una mano in tutti gli aspetti che coinvolgono il lavoro discografico. Ci siamo trovati a incidere un disco che è stato pensato da cinque persone ma che è stato finalizzato da otto teste, includendo il gran lavoro che ha fatto in fase di mastering Giovanni Nebbia. Il tutto è filato in maniera naturale, Filippo è stato un ottimo interlocutore dall’inizio alla fine del lavoro. In casi come questo avere un’etichetta è un valore aggiunto, hai tutto a portata di mano ed è tutto più facile, un’esperienza che consiglieremmo a tutte le band emergenti. Impareranno anche loro che Filippo è uno str***.
In pieno lock down avete pubblicato un anticipazione dell’album il brano “Cactus Bloom” con un video molto evocativo; so che siete sempre stati molto attivi su più fronti anche extra musicali, cosa vi ha lasciato questa esperienza (a patto che sia finita)? Cactus è stata scritta e concepita in un momento in cui la pandemia non era neanche nei nostri pensieri, era il pezzo conclusivo del concept, quella che consideravamo la gemma nascosta. Siccome è stata una traccia molto sofferta nella sua concezione e realizzazione, abbiamo pensato che si sposasse molto bene con il mood di quel periodo. E’ stata una scommessa vinta, abbiamo raggiunto angoli del mondo impensabili totalizzando complessivamente fra le varie piattaforme oltre 250.000 visualizzazioni e tantissime attestazioni di stima, soprattutto nell’est Europa. Sempre nei giorni immediatamente successivi al lockdown abbiamo deciso di lanciare un’iniziativa rivolta ai musicisti e al mondo della musica in generale col progetto “La Musica non si Ferma”, esperienza meravigliosa e irripetibile per quante energie abbiamo veicolato al suo interno. Sono stati giorni e settimane piene di intense relazioni con tutto il mondo della musica e dell’arte che è culminata con una conferenza stampa europea con tantissimi guest prestigiosi tra cui il grande Mike Terrana e Igor Sidorenko degli Stoned Jesus. Un’esperienza che è stata molto utile per capire alcune dinamiche all’interno del mondo della musica, non ha sortito pienamente gli effetti sperati, credevamo di riuscire a compattare intorno a questa idea decine, centinaia di musicisti, invece ha creato per lo più voglia di emulazione. Abbiamo deciso di mettere in stand by il progetto per utilizzarlo più avanti se si creeranno i presupposti con dei partner disposti a lavorare in sinergia con noi. (A proposito, se qualcuno è interessato alla cosa, noi siamo sempre disponibili a mettere a disposizione il tutto.) Poco da aggiungere, a volte ci proviamo ma poi ci pentiamo.
Ultimamente la Calabria é fucina di ottime band soprattutto stoner rock – penso ai colleghi Deep Valley Blues – che stanno venendo fuori, sarà il cibo o è la morfologia del territorio ad ispirare queste sonoritá? Non lo sappiamo, sarà la salsiccia, la sopressata, la nduja. In Calabria ci sta un underground ricco e variegato, dal doom allo stoner, dal punk al metal più estremo. Se parliamo di Stoner oltre ai bravissimi Deep, coi quali abbiamo diviso più volte il palco, possiamo citare i Carcano che in questi giorni sono alle prese con la registrazione del prossimo lavoro. Menzione d’onore va fatta ai Lunar Swamp che stanno raccogliendo tantissimi consensi e ai Bretus, storica band doom dal cuore Calabro. Sarà forse che la Calabria sta diventando davvero un deserto Californiano?
Dove vorreste esibirvi appena tutto questo sarà finito? Ovunque. Basta suonare, anche al bar sotto casa. L’importante è avere buona compagnia sia sopra che sotto al palco. E birra, tanta birra.
Cosa ne pensate dei concerti in streaming? Hanno senso per una band che fa rock duro? Li abbiamo organizzati anche in un momento che sembrava consentire assembramenti. In realtà crediamo che siano solo un surrogato dell’esperienza di un vero live. Per noi è meglio guardare la gente negli occhi. Vuoi proprio paragonare la puzza di centinaia di persone che non si lavano con una webcam in uno studio?
Passiamo a domande meno serie, ma quanto è importante la birra per una band come gli El Rojo? La birra non è importante per noi, è quasi tutto. Il resto è whisky.
A pochi mesi dall’uscita del full length d’esordio “Demonic Sunset” con Volcano Records, abbiamo raggiunto i Calabresi Deep Valley Blues, che ci raccontano i loro progetti passati e futuri nella scena stoner rock della Penisola e non solo.
Ciao Giando (basso e voce) come stai? Il vostro disco “Demonic Sunset” è uscito ormai da un bel po’ di mesi, siete soddisfatti dei riscontri che sta ottenendo? Ciao Paolo, grazie per la tua disponibilità! Ci sentiamo veramente in forma, soprattutto a livello artistico. “Demonic Sunset” è uscito da un po’ di mesi e purtroppo a causa dell’emergenza covid non è stato promosso come si deve. Siamo contenti dei feedback positivi ottenuti, soprattutto al di fuori del nostro paese, ma secondo noi il disco non ha ottenuto la giusta esposizione, sarà il nostro piccolo grande rimpianto.
È cambiato il vostro approccio rispetto all’Ep d’esordio? Ho letto che in quell’occasione avete registrato in presa diretta… Sì, assolutamente. L’ep è stato quasi un esperimento, finalizzato a testare la line up e i brani che avevamo composto fino a quel momento. C’è da dire che Francesco Merante del Black Horse Studio con una registrazione “atipica” fece comunque un ottimo lavoro di post-produzione . Registrare in studio l’album fu un passo necessario per il progetto.
In che maniera la Volcano Records supporta il vostro lavoro? Oggi tra digital music e altro il ruolo delle etichette underground è molto cambiato, cosa ne pensi in merito? La nostra collaborazione con la Volcano Records è giunta a termine con la scadenza del contratto ad Aprile. A mio parere le etichette indipendenti attualmente si muovono attorno a dei termini contrattuali, per questo motivo spesso possono essere limitanti per lo stesso artista che potrebbe ottenere lo stesso risultato, se non addirittura maggiore, attraverso un’autoproduzione. I servizi proposti da un’etichetta a somme onerose, possono essere svolti dalla stessa band con un minimo di impegno in più e con una riduzione dei costi. Nel panorama italico, comunque, ci sono etichette molto valide nell’underground, che svolgono un ottimo lavoro di promozione e produzione. Quello che manca rispetto ad altre label straniere è, direi giustamente, il rischio di puntare su gruppi che non possono presentarsi sin da subito come una realtà affermata. Per quanto riguarda il discorso della digital music, non credo che vi sia stata una involuzione, come molti puristi magari credono, semplicemente è più facile reperire materiale dell’artista online grazie alle piattaforme streaming che possono dare un “saggio” di quello che si andrà ad ascoltare. Il vero appassionato di musica comprerà sempre e comunque il disco fisico.
Come vi rapportate con la scena attuale e soprattutto nel vostro territorio? Nella scena italiana, ci sono moltissime band capaci e tutte meritano il giusto spazio, ogni gruppo deve pensare di essere una goccia nell’oceano e non di avere qualcosa di più rispetto alle altre. La giusta opportunità in un dato momento può fare la differenza, non tanto la bravura del gruppo in sè. Anche le varie associazioni e locali, che con coraggio organizzano rassegne musicali rock e metal, meritano la giusta attenzione perchè possono creare un movimento da cui possono fuoriuscire gruppi interessanti oppure dedicarsi all’organizzazione di festival musicali con nomi internazionali, mi viene in mente il Frantic ad esempio. Posso dire con piacere di appartenere a una realtà regionale molto variegata, le scene provinciali meriterebbero un discorso a parte, perchè andrebbero scoperte poco per volta. Sono scene musicali in cui ci conosciamo tutti e in cui ci sosteniamo a vicenda, eccetto rari casi. Catanzaro per noi è stata una vera rivelazione, siamo sempre molto contenti di suonare nella nostra zona. Quello che non ci agevola rispetto ad altre regioni è la mobilità, per cui per partecipare ad un concerto nella provincia di Cosenza bisogna fare fino a tre ore di macchina, stessa cosa per la scena reggina, ed anche Catanzaro può essere difficilmente raggiungibile dalle altre province.
Riuscite (o riuscivate visto il periodo) a suonare live con regolarità? Organizzare date è sempre difficile, ma comunque riuscivamo a suonare regolarmente. Purtroppo la situazione covid ha bloccato tutto, alcune date fuori regione sono saltate e sarà difficile riprendere. Speriamo che passi presto questo periodo.
Cosa ne pensate dei concerti live in streaming? È pronto il pubblico a dover pagare per un live di una band non “famosa” su un piccolo schermo? I live streaming possono aiutare a mantenere vivo l’interesse verso le band, è una cosa simpatica che si può fare una volta ogni tanto, ma secondo me il pubblico non è pronto a pagare per un’esibizione in streaming di una realtà proveniente dall’underground. Vi è difficoltà a portare un’audience pagante a un concerto in un locale, figuriamoci in streaming.
Quanto è importante il Blues nei Deep Valley Blues? Il blues è quello su cui si regge la nostra musica. Abbiamo tutti influenze diverse che vanno dal metal al folk rock, ma la costante che ci lega è il blues, è più importante dello stoner stesso perché ha dato vita a tutto, e ogni brano che componiamo si costruisce principalmente su quello.
Che tipo di band, se ci sono, oltre quelle della scena stoner rock, hanno ispirato il vostro sound? Sicuramente il primo nome che mi sento di fare è quello dei Black Sabbath nonostante sia il germe che ha dato vita allo stoner. Subito dopo vi sono i Motorhead, i grandi del blues del Delta del Mississipi, i Grandfunk Railroad, i Creedence Clearwater Revival e gli Allman Brothers.
Che ne pensate dello stato attuale dello stoner rock e affini anche a livello internazionale? Ci sono band che in qualche modo potrebbero aggiungere – e non è detto che sia un bene – un ché di novità al genere? A volte penso che lo stoner abbia perso quell’attitudine primaria con cui era nato. Si sta tentando di farlo rientrare in dei parametri e a dare una definizione agli stessi, quando lo stoner invece nasceva con un’attitudine più istintiva… un misto di blues, psichedelia, velocità e pesantezza. I deserti californiani poi hanno aiutato a creare quelle atmosfere che tanto amiamo ma che non sono replicabili. Mi dispiace vedere artisti che tentano di imitare il sound di band che hanno dato vita a questo movimento. Bisognerebbe rischiare di più e non di apparire come una “cover band” dei Kyuss o degli Sleep. È necessario introdurre novità, sbagliare se possibile, rientrare anche in un altro genere, generare uno straniamento nell’ascoltatore, farlo incuriosire, solo a quel punto si potrà far sopravvivere questo “movimento” e a farlo evolvere.
State già lavorando a del nuovo materiale? Sì, abbiamo iniziato le pre produzioni del nuovo disco. Non potendo ancora suonare live ci siamo chiusi in sala prove a lavorare sui nuovi brani. Stiamo prendendo contatti anche per quanto riguarda la distribuzione. Sarà un disco un po’ diverso dal precedente, mi cimenterò anche in un brano cantato in italiano. Stiamo tentando di migliorare sia come gruppo che come singoli e di avere un approccio più professionale, in modo da poter dare il meglio nelle nostre composizioni.
Siete liberi di chiudere come volete la chiacchierata. Un grazie a te Paolo per averci dedicato il tuo tempo ed un saluto a nome di tutti i Deep Valley Blues ai lettori del Raglio del Mulo. Piccola comunicazione: da poco siamo tornati su tutte le piattaforme streaming quindi potete trovarci su Spotify, Itunes, Amazon music, ma anche su Youtube e Bandcamp. Ovviamente siamo su facebook e instagram dove potete trovare ogni aggiornamento riguardante la band!
I Lord Woland sanno manipolare il tempo: lo accartocciano, arrotolano e ci fanno una palla con cui giocarci. Oggi più che in passato, la storia con cui il trio si trastulla è quella del nostro Paese, tanto che potremmo considerare “Litanìa” una sorta di carotaggio nelle sedimentazioni del rock tricolore che va dai 60 ai 90.
Ciao Nicola (Girella, chitarraNda)avete esordito su un’etichetta straniera, la berlinese Mother Fuzz Records, oggi siete sotto una casa discografica italiana, la Retro Vox Records: quali sono i vantaggi e quali gli svantaggi dell’essere passati da una label straniera a una nostrana? Beh, con la Retro Vox è come stare in una grande famiglia, ci vogliamo tutti bene! Sicuramente la vicinanza permette di collaborare di persona più spesso e organizzare roba figa con meno problemi.
Il vostro primo disco era cantato in inglese, “Litanìa” in italiano: cosa ha portato a questo radicale cambio di rotta? Prima di tutto, l’uso dell’italiano ci ha permesso di condensare meglio le nostre idee e i mondi che abbiamo in testa, senza dover raggiungere compromessi con una lingua con cui hai meno padronanza, senza contare il problema di dover avere una pronuncia anglofona dignitosa. E poi l’italiano è una bella lingua per il rock, bisognerebbe sfruttarla di più.
Ma il cantare in italiano in qualche modo ha cambiato anche il vostro modo di comporre? Assolutamente, bisogna avere delle accortezze ritmiche differenti rispetto all’inglese, sia per dove cadono gli accenti nelle parole sia per la sillabazione differente. Il tutto si deve accordare con la parte musicale, quindi il tutto va ripensato ad hoc.
Dal punto di vista musicale, “Litanìa” mi sembra quasi un viaggio nel tempo nella scena rock italica che va dal tardo beat, passa per l’hard-prog e si chiude con l’alternative dei 90. Io ci sento, giusto per citare qualche nome, Le Orme, Il Rovescio della Medaglia e Marlene Kuntz: pippe da scribacchino o c’è un fondo di verità? C’è assolutamente molta verità, siamo grande appassionati sia del prog classico italiano che delle varie scene alt rock italiane. Il disco nasce dal desiderio di mescolare varie influenze per dare vita a qualcosa che potesse avere un suo piglio originale, con un’identità riconoscibile.
Sono invece certo al cento per cento quando cito tra le vostre influenze i Black Sabbath… Ovviamente, nasciamo come gruppo stoner e ne manteniamo le radici, soprattutto l’attaccamento ai padri fondatori. Oltretutto il riff rimane sempre il perno centrale della nostra idea musicale, un elemento di cui i Sabbath sono maestri indiscussi.
A proposito di oscurità, venite dalle zone limitrofe al Lago di Bolsena, luogo ricco di mistero e fascino, tante sono le leggende che circolano: credete che in qualche modo quest’ultime vi abbiano condizionato? Il lago di Bolsena ci ha influenzato inevitabilmente, qui si respira un’aria molto particolare e il limite che divide presente e passato è sempre labile. Ogni angolo della nostra zona è mistero e decadenza, in un maniera che rimane molto difficile da spiegare a parole.
A inizio anno avete pubblicato il video di “Coscienza”, brano, che a mio avviso, riesce ben a condensare le vostre diverse anime e a presentare in modo sintetico le caratteristiche di “Litania”. Come è nata questa canzone e l’ avete scelta come singolo per quale motivo? “Coscienza” è, esattamente come hai detto, un riassunto abbastanza fedele del disco, oltretutto è un punto cruciale per la storia raccontata in “Litanìa”, che nasce come concept album dall’interpretazione molto ermetica.
Tasto dolente: vorrei sapere quale è stato il vostro ultimo live e se ci sono prospettive di ripresa dell’attività dal vivo. Abbiamo suonato allo Splinter Club a Parma a quello che sarebbe dovuto essere il primo live promozionale, e pochi giorni dopo è scattato il il lock down. La situazione per il 2020 è molto incerta, bisogna vedere passo passo come si evolve la situazione.
Come cambia il vostro sound off e on stage? Registrare un disco ti porta a cambiare e ponderare in maniera differente il modo in cui suoni, limando tutto quello che è di troppo. E poi in realtà il disco è in presa diretta, quindi il live tende ad essere molto simile alla sua controparte incisa…
“Cosmic Ritual Supertrip” (Heavy Psych Sounds), nuovo album dei Black Rainbows, conferma la vena mutevole dei romani: una manciata di brani che, se non distrugge l’etichetta di stoner rock band affibbiata al terzetto, almeno ne allarga le maglie con canzoni che oggi più che mai giocano con le influenze heavy psych, garage e, soprattutto, space. Alla guida della navicellail cosmonauta Gabriele Fiori, personaggio che vive la musica a 360 gradi, andando a ricoprire ruoli diversi – musicista, discografico e promoter – che gli assicurano una visuale panoramica d’eccezione sull’attuale stato di salute del music biz. Per questo, la nostra intervista non si è limitata alla disamina dell’ultima fatica dei Black Rainbows, ma inevitabilmente ha acquisito un respiro ben più ampio.
Ciao Gabriele, ben ritrovato. Se non erro la nostra ultima chiacchierata risale al 2010, quanto è cambiato – se è cambiato – il sound dei Black Rainbows dai tempi del vostro secondo album? Si è evoluto, anche se non troppo, abbiamo di continuo cercato di cambiare la nostra formula, rimanendo però sempre fedeli alle linee guida della heavy psichedelia, dello stoner e dello space rock, generi che sono le tre matrici che ci contraddistinguono. Lo facciamo senza voler inventare nulla di nuovo, ben consci di pagare il tributo al sound degli anni 60 e 70 di Hawkwind, MC5, The Stooges, al garage e allo stoner dei 90. In generale, credo che sia migliorato il nostro songwriting, la struttura delle canzoni è più lineare e diretta, consentendoci così di esprimerci in modo ottimale. Anche la produzione è migliorata rispetto alle nostre prime produzioni, sicuramente più amatoriali. I Black Rainbows hanno bisogno di alti livelli qualità per poter dare il meglio sia in studio che su un palco.
Credi che in “Cosmic Ritual Supertrip” ci sia una canzone che più di altre rappresenta il vostro sound attuale, raccogliendo in sé tutte queste caratteristiche che hai appena enunciato? Forse “Universal Phase”, brano da cui avete tratto un video? No, non credo. Come ti dicevo, facciamo più cose e ci piace esplorare, per questo ritengo che siano necessarie più canzoni per riassumere il nostro stile odierno. “Universal Phase” a me piace molto, ma devo confessarti che molte volte partiamo in modo inconsapevole con la scrittura, magari da un riff, poi ci mettiamo la voce e gli arrangiamenti, così brani che magari a tavolino credevamo dei capolavori, poi si sono rivelati meno belli; song su cui in principio non puntavamo, alla fine sono diventate delle nostre hit. “Universal Phase” è più heavy doom, e mi piace molto, “Hypnotized by the Solenoid” è più psichedelica, mentre “At Midnight You Cry” è più catchy.
A me è particolarmente piaciuta una delle tracce che hai citato, “Hypnotized by the Solenoid”, che mi dici di questo brano? Un pezzo lungo, ben strutturato e con parti diverse. Pur essendo psichedelico, abbiamo puntato su un sound molto pesante, cosa che a noi piace parecchio. Tornando al discorso di prima, questo è il tipico pezzo che abbiamo registrato senza sapere cosa avremmo tirato fuori, perché non ha la solita struttura strofa ritornello, ma contiene un sacco di parti improvvisate e verso la fine ci sono degli incastri di batteria molto interessanti. Ecco, l’avevamo lì in bozza e abbiamo detto lavoriamoci un po’ su, vediamo se regge. Alla fine abbiamo visto che reggeva.
Hai parlato di sound pesante anche nelle parti più psych, come ottieni il tuo suono di chitarra? Più o meno la ricetta è sempre la stessa, uso un fuzz con un amplificatore pulito per enfatizzare al massimo la resa del pedale. Pur andando a distorcere parecchio, cerco di mantenere il tutto il più chiaro e definito possibile.
Ancora una volta hai scritto tu sia musica che liriche. Ma il lavoro in studio come avviene, assegni le parti ai tuoi compagni che le eseguono o comunque le tue idee vengono rielaborate prima di essere incise? Quasi ogni giorno scrivo, butto lì uno o più riff, e da queste cellule parte un’opera di costruzione più strutturata. Cerco di portare in sala qualcosa che abbia già una sua forma, così che da poterla presentare agli altri in modo più comprensibile. Poi parte un lavoro di squadra, una sorta di gioco in cui aggiungi e togli parti – strofe, ritornelli, intro, finale lungo o corto – registrando qualsiasi cosa anche in modo amatoriale col telefono. Ascoltiamo il risultato e individuiamo l’ossatura definitiva del brano. Per quanto concerne i testi, parto con qualche improvvisazione melodica, aggiungendo qualche parola sino al testo definitivo.
Prima parlavi della necessità di avere il suono giusto per voi sia in studio che dal vivo: il disco è stato registrato presso i Forward Studios di Roma, credi che ormai il gap con le sale di registrazione europee e statunitensi sia stato colmato dall’Italia? Sì, decisamente. La registrazione è una fotografia, un qualcosa di magico che avviene in una determinata cornice. Quindi è una concatenazione di elementi diversi, che vanno dai musicisti, ai microfoni sino al banco e alle fasi di missaggio. Come qualsiasi cosa, ne puoi trovare di buone da noi, negli USA, in Francia e in Svizzera, come puoi beccare delle cagate clamorose ovunque. Oggi non c’è bisogno necessariamente di andare all’estero per avere un buon lavoro, bisogna solo fare attenzione a chi ci è dietro e a chi ci mette mano.
Al d là del gap colmato, però sbaglio se dico che la vostra è più una dimensione internazionale che nazionale? Dipende da cosa intenti per dimensione, per esempio il nostro tipo di stoner in Italia non va tantissimo, mentre fanno numeri più alti cose bene più articolate tipo Melvins et similia. La “banalità”, banalità tra virgolettissime, dello stoner non tira, anche perché da noi non ci sono strutture, audience e magazine per certi suoni. Manca anche la cultura di come si va ai concerti, mi riferisco sopratutto gli orari e alla fruizione dei servizi, per esempio in Germania un tedesco medio va al bar e si beve 46 birre oppure compra più volentieri un vinile, senza fare particolari problemi. Poi ci sono situazioni pessime anche all’estero, per esempio in Scandinavia non andiamo mai a suonare. Però da noi non è tutto da buttare, qualcosa si muove, con la mia agenzia riesco a piazzare delle date underground più facilmente in Italia che in Paesi più blasonati.
Nel vostro sound da un certo momento in poi mi è apparsa evidente l’influenza dei Monster Magnet, in qualche modo il Supertrip citato nel titolo del vostro “Cosmic Ritual Supertrip” è una sorta di tributo al loro “Powertrip”? Sono una delle nostre maggiori influenze con Fu Machu, Motorpsycho, Nebula e Kyuss. No, in realtà a me ricorda più un titolo degli Hawkwind. Alla base di questo disco ci sta proprio la volontà di fondere musica dei 60, stoner e psichedelia. Lo noti anche dalla copertina, con quelle strisce space e il teschio heavy, che a me piace molto. Però non posso negare l’influenza dei Monster Magnet.
Ricordo che anni fa mi ha definito il vostro migliore recensore, non ti chiedo se all’epoca lo dicessi a tutti, invece vorrei sapere: quanto conta una recensione nel 2020? Se l’ho detto all’epoca è perché sicuramente ci credevo! Quanto conta una recensione oggi? Sicuramente molto meno del 2010, oggi ci sono tante possibilità che prima non c’erano. Il mercato è cambiato, basta un post fatto bene su un social media per sostituire tante parole. Purtroppo, tutto il comparto magazine e webzine soffre parecchio perché l’attenzione è sempre più bassa, è difficile che qualcuno si vada a leggere bene una recensione. Tutto è più istantaneo e veloce, c’è sempre meno tempo da dedicare a un disco. La fruizione è diventata più rapida, Spotify nel giro di un paio d’anni ha ammazzato il sistema. Prima c’era qualcuno che comprava il digitale per 9 euro, preferendolo al fisico, ma oggi con 9 euro al mese hai la discografia completa di chiunque. Noi band in compenso non riceviamo niente e subiamo questa situazione in modo passivo senza ribellarci. Tornando alla tua domanda, prima la recensione era un passaggio fondamentale, oggi meno, ma serve comunque e va fatta. Io con la mia etichetta spendo parecchio in promozione e cerco di fare arrivare i nostri dischi a tutti i media.
In questa dimensione nuova, con le vendite degli album quasi azzerate, qual è il parametro che sancisce se una band ha successo o meno? Al momento le vendite non sono azzerate, però sono in continua discesa. Io non vendevo dischi nei 60, 70, 80, 90 e primi anni 2000, quindi non saprei, però ora se un disco è importante, qualche numero lo si raggiunge. Sicuramente possono essere un buon termometro i concerti e gli stream, ma non necessariamente. Probabilmente il posizionamento nei festival del gruppo è un segnale credibile, da là poi partono altre considerazioni sul come oggi i gruppi riescano in modo indipendente, tramite i propri canali, a vendere merch e dischi. Probabilmente qualcosa si è persa e qualcosa si è guadagnata altrove.
In te convivono tre figure – l’artista, il proprietario di etichetta e l’agente booking – che hanno subito evidentemente un forte danno dalle recente pandemia, ma quale delle tre esce peggio da questa esperienza? L’artista ha preso un bello schiaffone, anche perché le ultime uscite importanti nella nostra scena – Elder, 1000Mods, Brant Bjork – hanno subito, oltre al danno economico, anche quello di immagine derivante da una minore esposizione. Per quanto concerne il booking, io lavoro in questo ambito ininterrottamente da non so più quanto tempo, quindi non ti nascondo che una pausa ci voleva. Difficilmente mi sarei fermato di mia volontà in modo così netto, ci ho perso qualcosa economicamente, ma in salute ci ho guadagnato. Sfera personale a parte, dal punto di vista tecnico il booking ne esce devastato, anche perché non si sa ancora quando potremo riprendere. In riferimento all’etichetta, devo ancora capire: i negozi di dischi stanno riaprendo ora, molti essendo rimasti a casa hanno fatto ordini on line, spostando le vendite su un altro canale. C’è tanta voglia di ripartire e sono convinto che nel giro di un anno chi il disco lo vuole, lo comprerà comunque. Forse da questo punto di vista, posso lamentarmi meno. Qualche spesa l’ho dovuta tagliare, il nostro album lo dovevamo promuovere accompagnando una band fantasmagorica in date da 2000 – 3000 persone e partecipando al Desert Fest. Quel programma ci aveva fatto stampare un numero maggiore di copie che altrimenti non avremmo fatto. Ricapitolando, booking in primis, poi artista e, infine, etichetta.
Con la forza di una tempesta di sabbia, tornano sulle scene gli italianissimi Black Rainbows, autori, a mio avviso, di uno dei migliori album dell’anno in ambito stoner. Sentiamo cosa ha da dirci in proposito Gabriele Fiori, leader della band.
Ciao Gabriele, benvenuto su rawandwild.com! Ciao a tutti.
Parto subito con una “leccata” in pieno stile: nella mia recensione vi ho citati come unici veri eredi dei Kyuss. Te la senti di smentirmi? Ti ringrazio per l’immenso complimento, ma diciamo che siamo in tanti ad aver usufruito della lezione musicale dei Kyuss. Comunque sì, ci rifacciamo molto a loro sound, sembra evidente. Sicuramente non ci siamo inventati nulla e il nostro vuole essere un tributo a loro e a tutta quella musica che viene dagli anni 60-70. Magari in Italia siamo poche band a dividerci la scena e quindi questo ci lascia più spazio. Questo stile continua a fare proseliti, nonostante sia un genere mainstream. La scena al momento è più ricca che mai. Per rispondere più precisamente alla tua domanda, beh, magari ora come ora non lo siamo, ma speriamo un domani di diventarlo!
Ti va di presentarci “Carmina Diabolo”? “Carmina Diabolo” è il nostro nuovo lavoro, edito da Longfellow Deeds Records in cd e doppio vinile rosso, con un fantastico artwork firmato da Angryblue, grande illustratore americano. Rispetto al precedente album, “Twilight In The Desert”, che è nato in studio e non è mai stato provato live, per “Carmina” abbiamo cominciato a suonare i pezzi sul serio, con Daniele alla batteria e con Marco al basso, facendo decine e decine di concerti. Abbiamo eseguito i brani che sarebbero stati poi registrati, in modo da sapere come funzionavano e avere così un’idea più precisa di come sarebbero venuti in studio. Abbiamo aspettato il momento esatto affinché ci fossero i brani giusti per riempire l’intero album. Di canzoni ne avevamo parecchie, e così abbiamo potuto scegliere le migliori. L’album è composto da 10 tracce e il running time è di 45 minuti.
Cosa significa il titolo? Il titolo in latino vuol dire “canzoni per il diavolo” . In ogni disco mi piace affrontare un tema diverso: in “Twilight” c’era il deserto a farla da padrone; qui ci siamo voluti spingere in argomenti più accattivanti come il diavolo. Nulla di esoterico, intendiamoci, volevamo solo usare questa figura come tematica per l’album. L’artwork esprimere in pieno quest’idea!
Pur essendo rimasto colpito alla grande dal vostro esordio, devo ammettere che questo secondo capitolo è superiore in tutto. Quali credi che siano le maggiori differenza fra i due album? Come ti dicevo precedentemente, questo disco è nato da ore di jam. Provando e riprovando, portandolo in tour, e vedendo un po’ le reazioni del pubblico ai vari brani. La produzione in questo caso è di qualità estremamente superiore. Ho sempre registrato personalmente i dischi che ho fatto, questa volta pero è stata dedicata molta più attenzione ai particolari, solo per il suono di chitarra sono stato una settimana chiuso in studio a cambiare amplificatori, spostare i microfoni per avere quello che cercavo. Alla fine sono stato molto soddisfatto. Per la batteria anche, sono andato fino a Fiuggi da un amico per farmi prestare uno strumento con delle dimensioni enormi! In “Carmina” credo che i pezzi siano più tirati, e a livello compositivo più definiti e leggibili e diretti anche a un primissimo ascolto.
Il mio curriculum di amante dello stoner rock dovrebbe permettermi di affermare, senza mettere a repentaglio la mia incolumità fisica, che talvolta il limite di questo genere è l’eccessiva somiglianza dei brani contenuti all’interno di uno stesso album. Voi come siete riusciti a scongiurare questo rischio? Aspettando quasi tre anni dall’uscita del precedente disco, in modo da avere più materiale possibile tra cui scegliere e avere la capacita di accostare i brani giusti tra loro. Una delle mie band preferite sono i Motorpsycho, un’entità talmente poliedrica da poter passare dall’heavy psychedelia al rock ‘n’ roll, mentendo un proprio stile. Sono d’accordo con quello che affermi a proposito di questo genere, a volte ha un grande limite. Trovi delle band meravigliose, che però si perdono con pezzi tutti troppo simili tra loro, e ascoltando un live o un disco dopo quattro brani fai fatica a seguirli perché sai già come sarà il pezzo successivo. Non ti stupiscono mai variando un po’ qua e là in modo da farti recuperare un po’ di attenzione nell’ascolto. Comunque, cerchiamo proprio a tavolino di scongiurare questa cosa. Suonando da parecchio, capisci che il pubblico vuole essere stimolato il più possibile. Se gli appiattisci l’ascolto, non ti da più fiducia! Noi abbiamo appena inserito due brani nel live show, uno di Eddie Cochran, “C’mon Eeverybody”, del 1958 e un pezzo dei mitici MC5, proprio per smuovere un po’ il set.
Meravigliosa nella sua semplicità la copertina dell’album… Sì semplice e costosa soprattutto! L’artwork è stato affidato ad Angryblue, illustratore americano che ci ha fatto aspettare 6 mesi per avere un paio di suoi disegni, ma credo ne sia valsa la pena, perché ha fatto un lavoro veramente eccellente. Con questa grafica poi sono stati fatti flyer, magliette e vario merchandise, quindi grafica sfruttata al massimo e comunque a pagare è stata l’etichetta… quindi ancora più contenti!
Parlami allora un po’ di questo merchandising… E’ gia in vendita da tempo, insieme a Straight to Hell. Abbiamo fatto quest’edizione limitata di maglie ad alta fattura. Stampate in fronte e retro, con la migliore qualità di tessuto in commercio e stampa a 3 colori. Le immagini le potete trovare sul myspace della band.
Dal vivo come state messi? Dal vivo quest’anno abbiamo suonato molto proprio per promuovere l’uscita del disco. In particolare, due diverse tournee: la prima in Germania di dieci date e un’altra in Svizzera e Austria di cinque. Beh che dire, un esperienza davvero bella, quasi un avventura sotto certi punti di vista. Siamo riusciti a caricare tutto su un piccolo van e siamo partiti pienissimi, full backline quindi con tutti gli strumenti, per andare incontro (in Germania) all’inverno più freddo e nevoso degli ultimi trent’anni! Lì abbiamo cominciato subito aprendo un concerto per i Nebula, in un locale molto bello nel centro della Germania, e in seguito abbiamo suonato anche con Vic du Monte e Alfredo Hernandez storici componenti dei Kyuss! Poi siamo stati in città come Amburgo, Berlino, Lipsia, Salisburgo, sempre in club molto gradevoli e soprattutto pieni di pubblico, anche in mezzo alla settimana. La cosa bella è che di gente ce ne è parecchia che esce, magari sul presto, infatti i concerti cominciano sempre prima delle 23! Tutte le persone seguono il concerto dall’inizio alla fine anche non sapendo chi sei, e facendo sentire sempre il loro supporto… abbiamo riscontrato questo anche nelle vendite del merchandise! Non c’è mai stato il minimo problema né con il pubblico né con i locali: il sound nei posti è stato sempre ottimo (al contrario della maggior parte dei posti in cui si suona in Italia!) e la gente in generale sempre molto disponibile e molto socievole… cosa che non sempre succede qui da noi. In Svizzera e Austria è successo più o meno lo stesso, siamo stati a suonare a Zurigo, Winterthur, Lucerna sempre ottimo pubblico e tanta birra! In Italia stiamo suonando un po’ ovunque, anche a Roma aprendo per gli Airbourne all’Alpheus, dove ci saranno state 800 persone, poi Dead Meadow, Fatso Jetson…
L’incidere per un’etichetta francese, credi che vi dia una maggiore visibilità all’estero? Non è detto a priori…dipende da come uno lavora. Nel nostro caso ci ha detto bene. Lavorano al meglio e investono nella band, con un contratto per tre dischi e pagandoci artwork, il vinile doppio, che deve essere costato un occhio, e la promozione. Sicuramente tutto ciò stimola sia noi come band che l’etichetta a guardare più al mercato, non solo italiano ma anche internazionale, soprattutto in posti come Germania, Austria e Svizzera, dove il rock tira di più.
A te la chiusura… SUPPORT YOUR LOCAL SCENE … comprateve il disco ..soprattutto il vinile costatoci sforzi sovrumani e più di un anno di lavoro! Rock on!