Drovag – Toxin

Drovag è un progetto one-man band di Alessandro Vagnoni – già polistrumentista in Bologna Violenta, Ronin, Bushi e tanti altri – fautore di un’originale mix di synth pop, trip-hop e new wave. Dopo l’esordio del 2018 – e suonando contemporaneamente tutti gli strumenti dalla batteria ai sintetizzatori, chitarre, voce e backing vocals – è da pochi giorni uscito il suo secondo album “Toxin” (All Will Be Well Records \ Doppio Clic Promotions) registrato durante il lockdown del 2020.

Ciao Alessandro e benvenuto su Il Raglio del Mulo. È appena uscito “Toxin”, il tuo secondo album, che tipo di percorso c’è stato tra le due release?
Direi che il processo compositivo è stato totalmente opposto a quello del primo disco, nel quale la scrittura dei brani è coincisa con il provare a suonare più strumenti contemporaneamente e cercare di non avvitarmi su di una semplice e sterile esecuzione; provare quindi a costruire delle canzoni vere e proprie. All’inizio è stata un’esplorazione delle potenzialità che questo progetto one-man-band poteva avere in sé. Con questo secondo disco invece ho provato a scrivere e registrare tutti gli strumenti non badando a ciò che e come avrei dovuto suonare “dal vivo”. Da questo differente approccio sono nate delle canzoni meno astratte, più pop insomma.

Ho letto che hai utilizzato alcuni brani del tuo passato musicale, com’è stato recuperare vecchie canzoni non complete e in un certo senso renderle attuali? Si trattava solo di testi o anche di musiche a cui avevi iniziato a lavorare?
In effetti la genesi di questi brani è scaturita (in buona parte) da vecchi file di lavorazione che io e un mio amico e collaboratore di lunga data (Manuel Coccia) avevamo iniziato a comporre due decadi fa e che poi non hanno mai visto la luce, vuoi per l’immaturità compositiva che avevamo nei nostri primi vent’anni, vuoi perché eravamo presi da esperienze musicali di altro genere. Ad ogni modo ho pensato di recuperare piccoli spunti da ognuna di queste idee (a volte solo abbozzi di canzoni), dando loro una forma compiuta all’interno di una direzione musicale che ora mi è più chiara. Ma non mi sono dato regole: ogni canzone è nata da loop di arpeggiatori, riff di chitarra o melodie vocali o da parti di testo particolarmente evocativi. Tutto quello che c’era di buono è stato salvato e riarrangiato.

Spesso i lavori solisti dei batteristi sono caratterizzati da virtuosismi e da un certo tipo di approccio strumentale, per te invece sono fondamentali le canzoni, ma quanto é difficile fare tutto da soli? Dalla voce ai synth – tranne la titletrack “Toxin” dove troviamo il sax dell’unico ospite Sergio Pomante – è tutta opera tua, ma dal vivo suoni tutto in maniera contestuale o c’è qualcosa di pre-registrato?
Concordo con te. Spesso i dischi composti dai batteristi “di riferimento” (i cosiddetti virtuosi) sono per me inascoltabili. Per questo tipo di musicisti realizzare un disco è un pretesto per metterci dentro le loro abilità strumentali. Poi ci sono i dischi di band nei quali ognuno dei componenti è un maestro del proprio strumento e lì raggiungiamo vette di cattivo gusto, per quanto mi riguarda. Il fatto è che io, pur suonando principalmente la batteria, non mi sono mai sentito un batterista puro. Ho sempre avuto sin da bambino la necessità di vedere il mio strumento al servizio di canzoni, di musica che va dritta al cuore delle persone, che cerca di stimolare dei gangli emotivi. Per questo negli anni ho avuto il bisogno di imparare a suonare altri strumenti. In questo progetto in particolare, una cosa è stata la sfida più importante (al di là di suonare batteria, tastiera e lanciare loop in tempo reale): cantare… e ho dovuto cercare un modo che fosse adeguato alle mie capacità limitate. Per quel che riguarda l’esecuzione dal vivo, essenzialmente suono tutto in tempo reale a parte il basso, armonizzazioni vocali e qualche synth di supporto che utilizzo come backing tracks.

Il sound del tuo album mi ha ricordato per certi versi il periodo “new wave” dei King Crimson di “Discipline”, quali sono stati i tuoi artisti di riferimento in questo progetto?
Pensa che i KC di “Discipline” sono quelli che mi piacciono meno… In realtà, pur essendo un estimatore di quel pop sofisticato che negli ’80 e primi ’90 individuo in gruppi come Tears For Fears, Pet Shop Boys, Japan, Depeche Mode, The Cure e altri, non mi sono mai chiesto da cosa derivasse l’approccio musicale che mi porta a scrivere questo tipo di musica. Anzi ti direi che i miei idoli di riferimento sono i Primus, i Tool, i Death, i Meshuggah… tutta roba che non c’entra niente con la musica di Drovag. Ma sicuramente i Beatles sono il mio nume tutelare da sempre.

Cosa stai ascoltando in questo periodo?
Non ascolto molta musica ahimè. Questo perché sono costantemente impegnato o ad ascoltare quella che compongo coi miei vari progetti e quella degli artisti per cui lavoro come batterista session in studio. Ultimamente però mi sono ascoltato l’ultimo disco di Tigran Hamasyan, Comet Is Coming, Ghost, Sonido Gallo Negro, Ondatropica e un vecchio disco di Fred Frith che si chiama “Up Beat”, composto per quartetto di chitarre elettriche.

Da tempo lavori in diversi progetti – da Bologna Violenta ai Ronin per citarne solo alcuni – tutte band che dal vivo hanno sempre suonato tantissimo, come riuscite a portare avanti questi progetti in questo periodo così difficile?
Questo avrebbe potuto essere un problema (e comunque non lo è mai stato) se non ci fosse lo stop forzato delle attività concertistiche. Io e gli altri musicisti coinvolti nei progetti che citi facciamo questo di lavoro e quindi cerchiamo di organizzarci meglio che si può. Ora invece il problema non si pone neanche, visto che siamo fermi. Ad ogni modo continuiamo costantemente a sentirci e a breve forse si materializzerà qualcosa all’orizzonte.


Appena possibile ti vedremo live con Drovag? Hai intenzione di portare il disco in giro?
Beh spero proprio di sì. Infatti ho già iniziato a prepararmi per eseguire brani presi da tutti e due i dischi che con Drovag ho fatto uscire, selezionando quello che meglio si presta per la dimensione live e quello che “riesco” a suonare, per la verità… Io sono quasi pronto, vediamo se si riuscirà a fare concerti, se qualcuno mi chiamerà a suonare e soprattutto se vedrò davanti a me non più la solita quindicina di persone intenta per lo più a farsi i cazzi propri durante un concerto.

Tra le tue tante attività nel periodo pandemico hai pubblicato anche un libro di ritratti “Asintomatici”, un’iniziativa molto interessante, ce ne vuoi parlare? Avrà un seguito?
Quella della pittura comunque è una mia seconda pelle, essendomi diplomato all’Accademia di Belle Arti di Perugia molti anni fa. Dopo un lungo periodo di inattività e con prospettive di guadagno azzerate (concerti e tour saltati di colpo) ho risfoderato pennello e tempere acriliche e ho iniziato ad eseguire caricature, invitando chiunque su Facebook e Instagram ad aderire alla realizzazione di un libro di 100 ritratti dal titolo “Asintomatici” (sold out). Sto ancora continuando a dipingere e a vendere su commissione (sono a quota 350 ritratti circa) e, devo essere sincero, non mi aspettavo tutta questa partecipazione che continua ad esserci.

Fys feat. Fulvio – Farsi strada fra le macerie

Sweet Persecution” (Autoproduzione, 2020) è il titolo dell’EP frutto della sperimentazione tra Fys, duo composto da Pietro Gugliotta (programming, sample, synth) con Gabriele Marchese Ragona (chitarra, basso), e il cantautore Fulvio Federico, in arte Fulvio. Ne abbiamo parlato insieme agli autori di questo mix ben equilibrato fra elettronica e cantautorato.

Come è nata la collaborazione per “Sweet persecution”?
Gabriele: La collaborazione con Fulvio è nata grazie ad un contest palermitano al quale abbiamo partecipato con i nostri rispettivi progetti. Abbiamo visto in Fulvio l’opportunità di sperimentare l’unione di cantautorato e musica elettronica.
Fulvio: Ho iniziato a collaborare con i Fys già a dicembre del 2019. Loro conoscevano il mio progetto musicale e così abbiamo deciso di fare diverse sessioni di prove insieme. Poi è arrivato il lockdown e, dal chiuso delle nostre stanze, abbiamo iniziato ad inviarci piccoli riff e tracce. Più passavano i giorni e più aumentavano le idee. Così, quando è stato possibile rivedersi, abbiamo ulteriormente perfezionato i suoni e scelto quelli che fossero in grado di creare le giuste atmosfere e, alla fine, ci siamo accorti che avevamo creato del materiale in grado di raccontare una storia. Così abbiamo deciso di pubblicarlo.

Perché avete scelto questo titolo?
Fulvio: Letteralmente le parole “Sweet” e “Persecution” rappresentano delle contraddizioni e questo EP è un po’ anche frutto di una contraddizione. Unire la musica elettronica al cantautorato non è stato affatto semplice, eppure estremamente appagante. Al di là dell’aspetto sonoro, l’intero EP parla di alcune contraddizioni dell’animo umano come l’amore che scalfisce la razionalità o il tema della dipendenza, questo titolo ci è da subito apparso come il più adatto ad inglobare tutti questi temi. Inoltre, fra i tre brani che compongono l’EP, “Sweet Persecution” è stato quello che è nato per primo nel corso della nostra clausura forzata.

C’è stato qualche momento particolarmente significativo durante la lavorazione?
Pietro: La lavorazione è stata molto spontanea, specie nella prima parte, che si è svolta proprio durante il lockdown ed in cui ognuno, da casa sua, contribuiva alla nascita e allo sviluppo dei brani. Poi, al termine del lockdown, è stato molto bello rivedersi e mettersi a suonare tutti insieme quello che era stato creato durante quei mesi complicati.

L’inserimento della linea vocale, presente anche nella traccia conclusiva del vostro EP precedente “Less is more”, è solo un esperimento o ci state prendendo gusto?
Gabriele: L’ultimo brano dell’EP “Less is More” intitolato “May day” l’abbiamo composto come ogni nostra produzione, inizialmente strumentale. Poi capita di ritrovarci a valutare, in questo caso insieme ai produttori che ci hanno aiutato nella realizzazione dell’EP, l’inserimento di una linea vocale perché magari quel pezzo si presta particolarmente. Più che averci preso gusto, ci piace lasciarci trasportare dal nostro istinto e dalla voglia di continuare a sperimentare.

Il video di “Sweet persecution” mostra un mondo desolato, in cui un protagonista solitario vaga spaesato in cerca di… cosa?
Pietro: “Sweet Persecution” racconta la complessa ricerca di un amore eterno ed indistruttibile, qualcosa visto come appunto una “dolce persecuzione”: la ricerca è chiaramente ostacolata dalle macerie, che rappresentano un po’ tutte le avversità che incontriamo nella vita di tutti i giorni.

I testi delle tre canzoni dell’EP sono in qualche modo collegati fra loro?
Fulvio: In tutti i testi dell’EP ho cercato di fotografare alcuni particolari dell’animo umano come l’amore, la dipendenza e le fragilità che ciascuno di noi nasconde nel proprio “io” più intimo. Nessun uomo è tale senza le sue fragilità e le sue contraddizioni. Il sound dei Fys, unito ai testi che ho scritto, rappresenta un viaggio che il protagonista vive costantemente, nella vita di tutti i giorni, durante cui è messo in contatto con la sua natura umana necessariamente imperfetta.

Nelle vostre composizioni mescolate suoni elettronici con basso e chitarra, come si è evoluto il vostro stile nel corso degli anni?
Gabriele: Abbiamo iniziato il nostro percorso semplicemente con un basso elettrico, una tastiera ed un ipad. Nel corso degli anni la sperimentazione e la consapevolezza del sound che volevamo creare ci ha portato poco a poco ad aggiungere strumenti fino a riempire la sala dove proviamo come un piccolo studio. Lo stile strizza sempre l’occhio all’elettronica, arricchita talvolta da più synth, talvolta da chitarra con effetti analogici.

Per voi che significa proporre un EP in un mondo musicale che va avanti a forza di talent show e uscite di canzoni singole?
Pietro: In un periodo in cui è impossibile esibirsi dal vivo, pubblicare un EP di inediti è il nostro modo di dire che ci siamo e continuiamo a scrivere. Quando si fa musica strumentale ci si preclude, per forza di cose, la partecipazione a spettacoli televisivi come i talent, quindi significa andare incontro a tanta diffidenza, cosa che a primo impatto potrebbe far dubitare delle proprie capacità. Vedere la gente divertita e che balla i nostri pezzi durante i live è probabilmente la soddisfazione maggiore.

Siete già al lavoro per il prossimo EP? O magari stavolta sarà un LP?
Gabriele: Nella prima parte del 2020 abbiamo creato tanta musica, ci siamo confrontati inizialmente da remoto e poi finalmente in sala con sessioni in presa diretta. Il prodotto di questo lavoro è tanto nuovo materiale inedito che vogliamo riordinare nei primi mesi del 2021 per poter dare forma a qualcosa di più corposo rispetto alle precedenti pubblicazioni.

Dolore – E tu vivrai nel dolore…

Ancora un’opera interessante e fuori dagli schemi quella firmata da Dolore, pseudonimo dietro cui si cela Giorgio Trombino. “2020: i sette teschi di Andromeda” (Horror Pain Gore Death Production) è la colonna sonora di un film immaginario del quale preferiamo non spoilerare i contenenti per non non rovinare l’effetto sorpresa durante la visione. Pardon, l’ascolto!

Ciao Giorgio, complimenti per il nuovo album “2020: i sette teschi di Andromeda”. La prima curiosità che vorrei togliermi è di tipo tecnico: per comporre questo disco, pur trattandosi di una colonna sonora immaginaria, hai buttato giù un vero copione o ti sei mosso braccio, secondo l’estro del momento?
Ciao a te e grazie! Per quanto riguarda il metodo di scrittura, di solito procedo in modo abbastanza ordinato. Scrivo un primo pezzo in assoluta libertà, solo e unicamente per definire la base di suoni, messaggio e atmosfera. Dopo aver concluso e riascoltato alcune volte stilo una lista di titoli che diano l’impressione di una trama soggiacente. Da lì avanzo nella composizione, cercando di risolvere musicalmente gli enigmi legati allo sviluppo delle scene immaginate.

Mi racconti lo storyboard di “2020: i sette teschi di Andromeda”?
Puoi immaginare una grande nave stellare sulla quale un pericoloso ospite (da cui il titolo del pezzo di apertura) si muove nell’ombra, sabotando i sistemi di navigazione e sopravvivenza e uccidendo sistematicamente tutti i membri dell’equipaggio eccetto uno. L’ospite in questione potrebbe essere tanto un’entità semiastratta sulla scia di, per intenderci, The Color Out of Space di Lovecraft quanto una creatura in carne ed esoscheletro. L’astronave viene evidentemente distrutta, ma non prima di permettere all’unico sopravvissuto/a di fuggire su un modulo di salvataggio, anch’esso compromesso dall’ospite maligno. Quello che conta, banale a dirsi, è che le mie “trame” servano solo da rampa di lancio per la pura immaginazione di chi ascolta. L’intuizione individuale di situazioni e personaggi è ciò che rende, a mio avviso, avvincente lo svolgersi di un’azione. La vera regia è il cervello dell’ascoltatore. D’altro canto, con questi propositi iniziali, un film per suoni eccessivamente pilotato risulterebbe di una noia mortale tanto per chi scrive quanto per chi si ritrova a dover immaginare un numero troppo alto di elementi specifici.

Anche i tuoi lavori precedenti sono nati nello stesso modo?
Sì, ad eccezione dell’EP Tortura, episodio breve per il quale avevo abbozzato solo un fil rouge di sensazioni corporee e non una vera e propria trama.

Hai mai lavorato su una pellicola reale?
Ho lavorato ad alcuni documentari, nello specifico Hippie Sicily e La Spartenza di Salvo Cuccia e Furio Jesi – Man From Utopia di mio fratello Carlo Trombino e Claudia Martino, più, dal 2009 ad oggi, a una serie di musiche pubblicitarie per diverse committenze e a una trasposizione musicale-teatrale del libro L’Età Definitiva dello scrittore Giuseppe Schillaci. Non ho mai lavorato a un film di fiction. In realtà ci sarebbe in cantiere una collaborazione in tal senso, ma per il momento qualsiasi altro dettaglio è top secret…

Credi che lavorare per un regista in carne d’ossa, tutto sommato, si è rivelato più uno stimolo, dovendo trovare delle soluzioni vicine alle sue esigenze, oppure frustrante, dato che hai dovuto rinunciare parzialmente alla tua libertà?
Associare una musica a una o più sequenze di immagini è sempre un lavoro stimolante al di là di qualsiasi questione comunicativa con un regista. Inoltre, lavorare all’interno di un sistema di regole è, almeno per me, un metodo più avvincente di una generica libertà creativa. Come linea di principio penso che essere condotto al di fuori del proprio abbecedario compositivo sia utile a chiunque si ritrovi a manipolare qualsiasi forma di lavoro creativo.

In questi anni ti sei mosso in realtà musicali molto differenti da quella dei Dolore, come mai se arrivato a questo progetto prediligendo una base elettronica?
In verità Dolore è la mutazione solitaria di un progetto concepito da principio come spin off gobliniano degli Haemophagus. Più o meno nel 2013, o comunque attorno al nostro secondo album Atrocious (la cui intro era un tributo all’horror sound italiano), avevamo pensato di lasciare invariata la formazione ma di cambiare nome e, in parte, strumentazione solo per una serie di dischi e concerti. Il progetto non si concretizzò mai ma io restai attratto dalla possibilità di indagare su quelle sonorità. Ho cominciato ad ascoltare diverse diramazioni di musica elettronica negli stessi anni in cui muovevo i primi passi con i software musicali e ho sempre accarezzato l’idea di produrre qualcosa senza l’ausilio, o quasi, di strumenti acustici.

Credi che ci sia un elemento comune tra Dolore e quello che hai realizzato con Assumption, Haemophagus, Undead Creep, Morbo, Furious Georgie e Sixcircles?
Purtroppo l’elemento comune è lo scadente sottoscritto! Ad ogni modo, suono ciò che mi attrae, indago su elementi che mi stimolano. Un tempo mi preoccupavo molto di aderire a specifici schemi mentali piuttosto rigidi, mentre adesso vado unicamente dove sento di poter dare qualcosa.

La domanda da “lettino”: in modo conscio o inconscio hai associato la tua opera musicale al dolore, quasi che scrivere musica sia il frutto di un’attività straziante. Come mai?
Guarda, sarebbe doloroso il contrario. Di norma registro e, soprattutto, vedo pubblicata solo una minima frazione di quello che mi passa per la testa, e penso sia molto meglio così. Le idee musicali e testuali richiedono il vaglio minuzioso dell’autocritica e del tempo, e in più buona parte dei miei lampi fulminei sono, scusami il termine, delle minchiate clamorose. Tornando a “Dolore”, per me quel termine ha un’impronta naif, circoscritta, ideale per un progetto di genere.

Torniamo a cose meno cervellotiche, “Fantasmi” è uscito nel 2019 per Horror Pain Gore Death Production, così come la tua ultima fatica. Come mai “Tortura”, pubblicato fra i due, non è uscito per l’etichetta americana ma come autoproduzione, 2020?
“Tortura” è stato un divertente esperimento realizzato solo con i suoni di alcuni coltelli strofinati o percossi fra loro e successivamente rielaborati, scomposti e ricomposti con la tecnica della sintesi granulare. Data la natura di quei tre pezzi ho immaginato potesse considerarsi un episodio a sé e in un formato altamente volatile come quello del solo digitale.

Cosa vedremo prossimamente nel “Cinema del Dolore”?
Ho un paio di idee in mente ma nulla di accuratamente elaborato. Considera anche che nel frattempo mi sono tuffato in una serie di nuovi progetti diversi, dunque per quanto riguarda Dolore al momento sono felice di vagare nel nulla – o quasi!