Necrodeath – Gang fight

Gli stralci di violenza nati dalla mente di Anthony Burgess, e magistralmente riportati su celluloide da Stanley Kubrick, da più sessant’anni alimentano i nostri incubi metropolitani. I Necrodeath, che negli incubi ci sguazzano da sempre, non potevano esimersi dal rileggere a proprio modo “Arancia meccanica”, così hanno dato alle stampe un disco ruvido, violento e senza compromessi dall’emblematico titolo “Singin’ in the Pain” (Time to Kill Records \ Anubi Press). Peso e Flegias ci hanno raccontato l’ultima scorribanda della propria gang…

Bentrovati ragazzi, la nostra ultima chiacchierata risale ai tempi dell’EP “Neraka” nel 2020. Dopodiché avete pubblicato nel marzo del 2022 il primo singolo da “Singin’ in the Pain”, “Transformer Treatment / Come to the Sabbath”. Come mai è passato quasi un anno tra quell’uscita e l’album definitivo?
Peso: In effetti forse neanche noi ce ne siamo resi conto che è passato così tanto tempo, un po’ perché siamo una band libera e insieme alla nostra etichetta avevamo comunque deciso di far passare l’estate e un po’ perché ci sono stati dei problemi di copyright che abbiamo dovuto gestire e alla fine l’uscita è stata ridefinita per il 13 gennaio del 2023. Ora finalmente è on line e disponibile nelle versioni fisiche cd, vinile e cassetta.

Come è nata l’idea di scrivere un concept album dedicato a quel capolavoro che è “Arancia meccanica”?
Flegias: L’idea è nata da Peso, dopo un periodo in cui è andato in fissa con il film per parecchio tempo. Se l’è assimilato in tutte le sue sfumature e aveva chiaramente in testa la struttura dell’album. Quando ce l’ha proposto ne siamo rimasti tutti entusiasti. Come si fa a non amare quel film? Ovviamente l’argomento principale è la violenza che ben si sposa con il genere che suoniamo… tutto filava perfettamente.

Siete partiti dal libro o dal film per creare il canovaccio su cui si regge il disco?
Flegias: Dal film sicuramente.

Il dover seguire una linea tracciata da un altro autore, cambia il modo di lavorare in studio oppure alla fine la fase compositiva in sé trascenda da quella che è la trama?
Flegias: A parte alcuni spunti dettati dalla forma puramente lirica, ci siamo mossi liberamente come facciamo di solito. Il fatto che le tematiche riguardino questo o quell’altro argomento non influenza il nostro stile e la nostra musica.

Vi crea un po’ di ansia il sapere che là fuori ci sono fan sfegatati di “Arancia meccanica” pronti a vivisezionare il vostro album per certificarne l’adeguatezza all’opera originale?
Flegias: No. Ben vengano le critiche ma se riguardano l’argomento trattato soprassediamo. Come ti dicevo prima il concept è solo un pretesto per fare la nostra musica. L’ansia, se così vogliamo chiamarla, piuttosto può riguardare l’aspetto puramente musicale dell’intero album.

A proposito di tributi, anni fa siete stati voi oggetto di un tribute album, come avete trovato quelle reinterpretazioni dei vostri brani?
Flegias: Tutto è stato molto gratificante. Ci ha fatto sentire più importanti di quello che siamo e saremo eternamente grati a chi ci ha voluto omaggiare. Quando tu conosci alla perfezione i tuoi pezzi, pensi che possano esistere solo così, invece grazie a questo tributo ho aperto gli occhi a nuove chiavi di lettura dei Necrodeath.

Come è stato lavorare con con Tony Dolan dei Venom Inc. e con Eric Forrest degli E-Force\Voivod?
Flegias: Grandioso! Hanno fatto un egregio lavoro che è andato oltre qualsiasi aspettativa. Tony lo avevamo già collaudato con il nostro singolo “Headhunting”, insieme a Mantas ma qui avevamo bisogno delle sue doti di attore ed è stato veramente formidabile. Con Eric invece avevamo già avuto modo di sentirlo sia in sede live che sul CD tributo poc’anzi menzionato; ha una voce formidabile che mi fa provare non poca invidia ah ah ah…

Copertina censurata: vostra scelta per evitare guai oppure vi è stata imposta?
Peso: La copertina censurata è stata una nostra scelta più che altro per rendere omaggio a Kubrick che ha dovuto subire la censura forzata in Inghilterra per oltre 20 anni del film. Da un altro punto di vista quando abbiamo proposto l’idea alla Time to Kill, hanno accettato volentieri, anche perché forse la cover vera è un po’ forte… anche se a mio avviso è molto ironica in realtà, ma qualche distributore avrebbe potuto storcere il naso.

Siete pronti a portare il disco dal vivo? Lo proporrete nella sua interezza o solo dei brani?
Peso: Non lo so, ci stiamo pensando. Devo dire che non possiamo tralasciare certi pezzi di “Into the Macabre” o di “Fragments of Insanity”, senza contare anche l’importanza che ha per noi “Mater of All Evil”, l’album della reunion con l’ingresso di Flegias nella band. Con oltre 100 canzoni scritte in questi quasi 40 anni la scaletta è sempre dura da decidere, ma alla fine sappiamo che non potremmo mai rinunciare a pezzi come “Mater Tenebrarum”, per farti un esempio…

Godwatt – Il terzo rintocco

I Godwatt ci hanno messo un po’ – a causa di fattori interni, cambio di line-up, ed esterni, restrizioni covid in primis – per tornare tra noi. Ma quando l’hanno, l’hanno fatto a modo loro, con una vagonata di riff pensanti e oscuri. E’ toccato a Moris Fosco il compito di presentarci il nuovo album “Vol III” (Time to Kill Records \ Anubi Press).

Benvenuto Moris, ai tempi della pubblicazione di “Necropolis”, vi chiesi da quale lavoro dovessimo iniziare a contare i vostri dischi, dato che in precedenza vi chiamavate Godwatt Redemption e avevate testi inglese, e tu mi rispondesti: “I nostri album dobbiamo contarli dal demo precedente a “The Hard Ride…””. Come mi spieghi, allora, quel “Vol. III” che dà il nome alla vostra ultima fatica?
Intanto grazie per averci di nuovo cercato per questa intervista! “Vol. III” indica semplicemente il terzo lavoro ufficiale della band uscito per una label, poiché tutti i dischi precedenti a “L’ultimo sole” del 2015 sono autoprodotti.

Mi pare che in generale “Vol. III” riprenda una certa oscurità che in parte avevate “diluito” in “Necropolis”, è così?
Sinceramente io trovo molto oscuri, anche se in maniera diversa, tutti i nostri ultimi tre dischi soprattutto se paragonati ai nostri primi lavori autoprodotti dove forse l’impronta stoner era un po’ più marcata. Devo ammettere inoltre, che ogni nostro disco, anche se può essere considerato stoner doom come genere, abbia caratteristiche diverse l’uno dall’altro, sia per la composizione che per la produzione in generale. Ogni disco ha un suono, una sua caratteristica, un suo groove, anche se l’impronta Godwatt si riconosce comunque.

Il vostro terzetto non è mai cambiato, almeno sino ai giorni successivi alla pubblicazione di “Necropolis”. Come sono andate le cose?
Purtroppo è proprio così poiché nel 2018, dopo pochi mesi dall’uscita di “Necropolis”, il nostro batterista storico Andrea Vozza per motivi diversi decise di lasciare la band. All’inizio non fu facile, dopo circa 12 anni di convivenza, cercare un altro batterista, sia perché eravamo e siamo ancora grandi amici e sia perché avevamo ormai un’intesa collaudatissima da anni sul palco. Questa cosa non ci permise di promuovere nella maniera idonea il disco poiché dovemmo fermarci e cercare un nuovo batterista. Dopo qualche avvicendamento, comunque, nel settembre del 2019, quindi circa un anno dopo, abbiamo ritrovato la quadratura del cerchio con l’ingresso in pianta stabile di Jacopo Granieri. Anche se proveniente da ascolti e esperienze diverse, nel giro di poco tempo è riuscito ad entrare nei meccanismi della band, tanto che pochi mesi dopo, ci siamo catapultati in studio per iniziare le registrazioni di “Vol. III”.

Il disco si apre con “Signora morte”, che se non erro è stato anche il primo singolo estratto da “Vol. III”, credi che sia il brano che oggi vi rappresenti al meglio?
Sicuramente è uno dei brani del nuovo album che noi preferiamo suonare dal vivo e comunque credo ci rappresenti anche bene, dato che ha una parte heavy iniziale e una parte stoner-doom finale che in definitiva sono un po’ le nostre caratteristiche principali.

Tra le vostre due ultime pubblicazioni sono scoppiate una pandemia e una guerra sul territorio Europeo. Nei vostri testi avete sempre trattato temi come la morte e la disperazione, ma questi anni particolarmente ricchi di eventi nefasti hanno in qualche modo cambiato la vostra percezione della morte?
Di sicuro non hanno portato gioia e solarità nei nostri testi… Anche se devo ammettere che non mi hanno influenzato più di tanto, dato che avrei comunque parlato di certe tematiche perché penso che si adattino alla perfezione alla nostra musica, che di base è negativa e oscura.

Restando in tema pandemia e guerra in Ucraina, i costi dei tour sono notevolmente aumentati in questi anni: quanto è dura per un gruppo come il vostro organizzare oggi delle date?
Sicuramente questi eventi catastrofici non ci aiutano affatto e organizzare date è diventato veramente difficile dato che le spese per i gestori/organizzatori sono aumentate a dismisura e quindi di conseguenza chiamare una band, specialmente se proveniente da lontano, diventa una spesa non sempre sostenibile. Speriamo comunque di poter riuscire a suonare il più possibile, come spiegavo precedentemente abbiamo avuto periodi di stop forzato per cercare un batterista prima e, come tutti, le restrizioni per covid successivamente.

Nonostante questi fattori critici, avete dei concerti in programma?
A Marzo suoneremo al Roma Caput Doom Fest, abbiamo una data a Latina ad Aprile e una in Puglia da confermare. Stiamo comunque lavorando per organizzarne altre.

Avete già proposto i nuovi brani dal vivo e quali sono stati i riscontri?
Si abbiamo realizzato un release party suonando tutto “Vol. III “ed è stato accolto alla grande dal pubblico anche, se un paio di brani venivano eseguiti dal vivo già da un po’ di tempo. In generale, dalle recensioni, come anche dai social, sembra che il disco stia piacendo molto e non vediamo l’ora di farlo ascoltare il più possibile.

In chiusura vorrei tornare nuovamente alla nostra intervista del 2018: in quell’occasione mi parlaste di un brano escluso da “Necropolis” per la sua lunghezza e che nelle vostre intenzioni sarebbe dovuto poi andare a finire in un futuro EP. Che fine ha fatto quel pezzo? Avete ancora intenzione di fare un EP?
Che memoria! Quel pezzo è rimasto purtroppo nel cassetto… almeno per ora! È stato registrato con il vecchio batterista e aveva una produzione diversa da quella di “Vol. III”, quindi sarebbe da registrare nuovamente magari per una prossima uscita.

Feralia – Il gioco degli opposti

I Feralia giocano al raddoppio. Se il lockdown ha minato la stabilità di parecchi gruppi, portandone alcuni allo scioglimento. La black metal band italiana, invece, ha sfrutto il blocco per tirar fuori un disco doppio, o forse meglio duplice, “Under Stige / Over Dianam” (Time to Kill Records \ Anubi Press), capace di far uscire fuori sonorità e sensibilità opposte .

Benvenuti, dal 28 Aprile è disponibile il vostro nuovo album “Under Stige / Over Dianam”. Dobbiamo consideralo un singolo disco oppure due lavori ben distinti?
Erymanthon: Ave e grazie. Si tratta assolutamente di un lavoro che va considerato come un tutt’uno, in quanto, pur essendo nato un po’ per caso come ti spiegheremo più avanti, va a formare un gioco di contrasti incentrato su queste due “anime” diverse, una violenta, oscura, feroce, maschile, ed un’altra più ritualistica, delicata, sognante e femminea, due anime opposte, non in lotta tra loro ma complementari, che donano al lavoro complessivo una dimensione in più. Nonostante questo, è assolutamente possibile ascoltare i due “capitoli” in maniera indipendente, senza che il loro valore individuale ne risenta.

Quando avete iniziato a lavorare sui brani avevate già un’idea di massima sul risultato finale oppure questa duplice anima è nata per caso?
Erymanthon: L’idea iniziale era in realtà quella di registrare “Under Stige” nella prima metà del 2020, poco dopo il mio ingresso nella band, e farlo uscire a lavoro ultimato. Poi però è arrivato il lockdown e ci siamo trovati costretti in casa nostra, perciò i lavori di registrazione di “Under Stige” sono stati inevitabilmente rimandati. In quella situazione così assurda di costrizione ed isolamento, però, da un’idea del nostro chitarrista Raijinous abbiamo deciso di dare sfogo alle nostre emozioni ed al nostro estro creativo, registrando l’EP acustico adoperando ognuno la strumentazione di cui disponeva a casa propria, ed inviando poi le tracce a L’Ossario Studio per il missaggio. Abbiamo dedicato l’EP a Diana, Dea della natura selvaggia nell’Antica Roma, come tributo ed espressione del nostro sentimento di rispetto verso Madre Natura.

Quali sono le differenze sostanziali tra questi due dischi?
Krhura: Sono opposti. “Under Stige” è un viaggio notturno, mortifero, maschile e musicalmente è black metal. “Over Dianam” è più solare, melodico, femminile. Qui non ci sono batterie, scream e chitarre elettriche, ma un viaggio dai connotati folk.

Per un’esperienza migliore va ascoltato prima “Under Stige “ oppure si può partire indifferentemente da uno dei due?
Erymanthon: Nella versione digitale del lavoro abbiamo posizionato “Under Stige” in apertura ed “Over Dianam” in chiusura, questo è l’ordine che noi avevamo pensato, tuttavia credo che si possano assolutamente ascoltare i due capitoli in ordine “opposto” e ricevere da ciò un impatto diverso… scegliere se scendere prima nell’abisso con “Under Stige” e poi riemergere con “Over Dianam”, oppure percorrere il cammino opposto… non vogliamo che la nostra musica sia “dogmatica”.

La vostra è una band relativamente giovane, siete nati nel 2018 e avete esordito nel 2020 con “Helios Manifesto”, non temete che un’uscita così ambiziosa possa rappresentare un azzardo?
Erymanthon: Forse potrebbe risultare così. Quello che però ci teniamo a sottolineare è che la nostra musica non è incentrata sul cercare la miglior “trovata commerciale” per essere sicuri di vendere copie o assicurarci il favore del pubblico. L’unica cosa che ci interessa è esprimere noi stessi e la nostra essenza in un processo di catarsi attraverso la nostra musica, ed il binomio “Under Stige – Over Dianam” è quello che meglio riesce nell’intento in questo momento, perciò è stato per noi un processo assolutamente naturale.

Nel nuovo album troviamo alla voce Erymanthon Seth (Apocalypse) e il batterista P. (Noise Trail Immersion, O), quale è stato l’apporto di questi due nuovi membri?
Krhura: Il nuovo batterista P. in realtà è entrato nella band poco dopo la fine delle registrazioni del disco. Stiamo però scrivendo già materiale nuovo e devo dire che si sta integrando benissimo, oltre a portare la sua influenza all’ interno della band. Erymanthon invece è entrato a metà registrazioni per cui il suo apporto è stato molto valido ma limitato per questioni logistiche, mentre per la stesura il nuovo materiale il suo apporto è stato incisivo fin da subito, abbiamo un compositore in più nella band.

Nel disco ci sono anche ospiti di rilievo, vi andrebbe di presentarli?
Krhura: Certo, anche i due ospiti fanno parte di questo gioco di opposti di cui parlavo prima. Agghiastru è presente nella prima traccia di “Under Stige”, suona diversi strumenti tradizionali e recita dei versi. Il suo “riferimento” è l’Italia, il sud, il fuoco, le nostre origini. Il giro di accordi della canzone ha un sapore vagamente mediterraneo per cui ci è sembrata una scelta sensata e naturale chiedere a lui. Håvard Jørgensen (ex Ulver/Satyricon e ora coi Dold Vorde Ens Navn) suona la chitarra acustica ed ebow su “The Altar and the Deer”, un brano di “Over Dianam”. Il suo “riferimento” è il nord, il ghiaccio, le nostre influenze musicali. .

Avete già scelto quali brani estrarre da “Under Stige / Over Dianam” in occasione dei vostri live?
Erymanthon: Nei concerti fatti finora, abbiamo suonato “Under Stige” per intero, ad eccezione delle tracce “Laudatio Funebris” (di cui abbiamo solo usato un frammento come intro) e “Terminalia”. Abbiamo poi inserito il brano “Over Dianam” a metà scaletta, e “Conception”, un brano del nostro precedente lavoro “Helios Manifesto”.

In conclusione, come immaginate il vostro prossimo disco, più simile a “Under Stige “ o a “Over Dianam”?
Erymanthon: Finora abbiamo tirato giù alcune bozze (ancora molto grezze) in stile decisamente black metal. Tuttavia, ricordo che anche “Under Stige” doveva essere inizialmente un disco interamente black metal… perciò, attualmente non ci sentiamo di anticipare nulla. Le vie del Destino sono infinite…

Deathcrush – Il regno del serpente

Dopo la parentesi live album, “Spreading the Pest”, i Deathcrush tornano con un disco di inediti, “Under Serpents Reign”, uscito per la Time To Kill Records lo scorso 26 aprile.

Ciao ragazzi, nel 2019, poco prima che la pandemia bloccasse tutto, in particolare i concerti, avete pubblicato in modo quasi “profetico” un live album, “Spreading the Pest”. Come è andato quel disco?
Ciao! Si, in effetti il titolo è stato davvero “profetico” perché come hai detto è uscito appena prima che il covid bloccasse tutte le attività live ed il mondo in generale. In realtà, la decisione di intitolare il nostro primo live in quel modo deriva dal fatto che è stato registrato in Polonia durante il nostro ultimo tour, chiamato appunto Spreading The Pest Over Europe. La performance è stata registrata al Rudeboy Club. In seguito abbiamo girato tutto alla nostra precedente label che assieme ad altre etichette italiane ha voluto produrre un live album in edizione speciale con alcuni inserti all’interno. Devo dire che, nonostante il culto del live album si sia un po’ perso negli anni, questa nostra release è andata abbastanza bene.

Ora, quando pare che le cose in ambito live stiano per tornare alla normalità, avete pubblicato il vostro nuovo full-length, “Under Serpents Reign”. In qualche modo la cattività causata dal Covid ne ha influenzato il contenuto?
Più che altro ci siamo dati da fare e abbiamo sfruttato la situazione a nostro vantaggio. Tendiamo sempre a vedere il lato positivo delle cose, di conseguenza abbiamo tramutato questa pausa forzata in più tempo per lavorare. Ci siamo dedicati con molta più cura a tutti gli accorgimenti e ai dettagli, in particolare siamo stati estremamente minuziosi sugli arrangiamenti di ogni singolo pezzo per produrre un album che ci rispecchiasse al 100%. Saremmo dovuti entrare in studio già dopo la prima fase della pandemia, ma poi ci ha bloccati la seconda ondata. Quindi, consapevoli e forti anche di tutto il lavoro fatto a priori, va da sé che appena è stato possibile siamo entrati in studio carichi e determinati come non mai.

Da un punto di vista stilistico, come si pone “Under Serpents Reign”? Dà in un certo senso continuità alla vostra produzione o rappresenta uno snodo verso nuove soluzioni?
“Under Serpents Reign” è senza ombra di dubbio il nostro miglior album sino ad ora. Come ti dicevo, abbiamo curato tutto nei minimi dettagli, artwork, liriche e produzione in senso lato. Non a caso abbiamo voluto e avuto l’onore di lavorare con professionisti che seguiamo e stimiamo da anni. In questo lavoro c’è tutta la nostra anima. L’album presenta alcune soluzioni innovative rispetto al passato e certamente ci saranno delle sorprese, ma siamo comunque rimasti fedeli al nostro trade-mark musicale e stilistico.

Avete già testato dal vivo i nuovi brani?
Ancora no, anche se abbiamo già ricevuto proposte per alcune date in Sardegna. Stiamo aspettando che il pubblico riceva e ascolti l’album, poi partiremo in tour per tutta l’Europa. Abbiamo già provato le nuove song varie volte e ti posso assicurare che sono davvero violente dal vivo.


In passato avete girato parecchio, soprattutto nell’Europa dell’Est, pensata che il conflitto Russo-Ucraino possa in qualche modo penalizzarvi?
Visitare l’Est Europa è stata un’esperienza davvero fantastica, sia a livello professionale, perché abbiamo suonato in posti davvero fighi, sia personale perché abbiamo girato città e luoghi in cui si respira storia in ogni angolo. Avevamo parecchie proposte di live in quelle zone oltre a un tour in Russia. Ci dispiace molto non poter suonare lì vista la situazione attuale. Speriamo
che in futuro si possa realizzare il tutto.

Quello che non mi pare mutato è l’approccio lirico, di cosa parlano i testi?
No, le liriche non sono mutate. Consideriamo l’ingerenza della religione nel nostro paese un’oppressione anacronistica che vincola le menti e ogni aspetto della società tutta a uno stato di strisciante regresso. I nostri testi sono vero e proprio veleno stracolmo di ribellione verso i falsi
profeti e ogni aspetto che riguarda la Chiesa così come qualsiasi autorità o istituzione religiosa.

Il serpente richiamato nel titolo chi o casa rappresenta?
Il serpente che si morde la coda è sempre stata una figura che ci ha attratto. Considerando il titolo e l’artwork dell’album non potevamo non inserirlo in prima linea. Rappresenta il ciclo del potere che si rigenera divorando se stesso, è l’energia universale che si consuma e si rinnova continuamente. Non c’è nascita senza morte, non c’è creazione senza distruzione, per parafrasare i Nile. Il serpente simboleggia l’unità, la totalità del mondo e l’eternità. E’ una figura
che rappresenta al meglio il modo in cui Deathcrush concepiscono il male.

La copertina è splendida, chi l’ha realizzata?
La copertina è stata dipinta a mano da Paolo Girardi che ha creato un vero e proprio capolavoro. E’ sempre stato un sogno avere una sua opera realizzata appositamente per un nostro album perché stimiamo e seguiamo Paolo da tanti anni, per cui non possiamo che essere onorati. Tra l’altro ha fatto davvero un lavoro maestoso che rappresenta fedelmente lo spirito dell’album
sia musicalmente sia a livello di tematiche trattate nei testi.

In conclusione, quali obbiettivi vorreste realizzare con “Under Serpents Reign”?
“Under Serpents Reign” è già partito bene, abbiamo firmato con la Time To Kill e siamo davvero soddisfatti del lavoro superbo che stanno facendo. I pre-orders dell’album stanno andando benissimo ed abbiamo tante belle news da annunciare a tempo debito, ma vi assicuro che sono davvero delle grandi cose. Volevamo chiudere l’intervista ringraziandovi per lo spazio e per l’interesse dimostratoci. Rimanete aggiornati. AVE SERPENTS!

Straight Opposition – The next revolution

Chi si aspettava una versione dimessa degli Straight Opposition dopo lo split del 2018 e la conseguente lunga inattività, dovrà ricredersi. “Path of Separation” (Time To Kill Records \ Anubi Press) è un disco che non vive di ricordi, anzi mostra una formazione che, pur se rispettosa del proprio passato, vive con i piedi ben piantati nel presente e lo sguardo diretto verso il futuro…

Benvenuto Ivan, prima di concentrarci sul nuovo album, farei un piccolo salto indietro nel tempo: ti andrebbe di ricostruire gli anni successivi all’uscita del vostro precedente album, “TheFury From the Coast” del 2017?
Ciao! Certo! Appena uscito “The Fury From The Coast” ci siamo trovati nuovamente con diversi problemi di line up, risolti questi, abbiamo suonato in lungo e in largo per promuovere il disco con, in ultimo, un tour di tre settimane in giro per l’Europa che ha toccato Rep.Ceca, Lussemburgo, Belgio, Francia, Spagna e Italia. Personalmente, alla fine di questo tour avevo voglia di fare qualcosa di nuovo, così gli Straight si sono sciolti, e dalle ceneri sono nati i 217. Con i 217 andava tutto alla grande, ma poi è arrivato il Covid, che oltre farci perdere 18 concerti finali prima di entrare in studio, ha cambiato le vite lavorative degli altri membri portando la band ad una battuta d’arresto. Nel frattempo io e Luca Hc (membro storico della band che lasciò nel 2012 gli Straight) siamo stati molto in contatto pensando a nuova musica da fare insieme ad altre persone in Belgio, La spinta finale è arrivata a giugno 2021, quando Enrico Giannone della Time To Kill ci ha chiesto di fare un disco coi 217, visto che non poteva averci come Straight Opposition. Di converso, essendo i 217 impossibilitati a farlo, ho detto a Enrico che invece in pentola si stava muovendo una reunion Straight Opposition insieme a Luca e nuove persone (Flavio e Nicola) e che avremmo fatto un album. Il resto è storia: abbiamo cominciato a comporre a distanza, e da settembre in presenza (gli altri 3 vivono tutti in a Bruxelles ); tra novembre e dicembre siamo andati a Roma per registrare “The Path Of…”.

Il nuovo album si intitola “Path of Separation”, la parola separazione deve far preoccupare i vostri fan che da poco vi hanno ritrovato?
Col rientro di Luca abbiamo intrapreso un normale percorso di arricchimento delle composizioni e della nostra visione dell’hardcore, perciò è naturale non ripetere quanto fatto in passato evolvendo le canzoni verso nuovi lidi. Io penso che se qualcuno vuole sentire la band fare cose standard, può andare a rispolverare “Step By Step” o “The Fury From The Coast”. Se invece c’è la voglia di ascoltare qualcosa di nuovo, allora “The Path Of Separation” è il disco da macinare nello stereo, senza paura.

Il disco è uscito più o meno quando sull’Europa è riapparso lo spettro della guerra. Per una banda sempre socialmente impegnata come la vostra, questa combinazioni di eventi può assumere un significato simbolico?
Al di là del gran senso di frustrazione e di scoramento che stiamo provando in questi giorni nell’assistere inermi a quanto sta accadendo, non posso dire altro se non che la direzione tematica della band si è assestata sulla riflessione critica a proposito dello scontro dialettico tra singolo e apparato capitalistico sin dal demo 2004, quando le “All stars” del massacro in occidente erano Berlusconi, Bush e Putin. Eccoci di nuovo qui a combattere con i mostri. L’accumulo del capitale, inteso come detenzione di ricchezza e risorse nelle mani di pochi, diventa ancora più aggressivo in un momento in cui il Capitalismo classico è andato completamente in crisi sfociando apertamente nei più beceri e sanguinosi degli imperialismi contemporanei. Nel nostro piccolo, continueremo a diffondere concetti come “liberazione dell’individualità”, dell’individuo e della persona. Libertà nello scegliere ciò che si sente di essere, senza moralizzazioni religiose e patriarcali o gerarchie aziendali, sociali e familiari. Lo diciamo ai concerti, nei testi, nelle interviste. Partiamo da una base personalistica, da una riscoperta della soggettività più propria attualmente decostruita dagli apparati: combattere il leader che prima di tutto continua a negarci sotto forma di catene frasali.

Ne approfitto per chiederti, la vostra definizione di hardcore nel 2022: il significato e lo spirito di questo genere sono rimasti immutati oppure si sono adeguati ai tempi che viviamo?
Non sono in grado di rispondere: per me e per gli altri l’hardcore è uno stato mentale/attitudinale così come lo abbiamo vissuto negli anni 90. Sicuramente ci saranno stati dei cambiamenti, ed è anche giusto che sia così, ma per quanto ci riguarda, lo spirito rimane quello di un tempo. Lo spieghiamo bene in un pezzo del nuovo disco che si chiama “No Age To Xclaim”!

Torniamo al disco, le note promozionali che accompagnano il promo ne presentano il contenuto come “un mix tra una versione compressa di Integrity e Napalm Death senza blast beats”. Vi ritrovate in questa descrizione?
In effetti non è male. Il disco nuovo è davvero molto aggressivo e penso sia il perfetto punto di incontro tra fan degli Integrity e fan degli ultimi Napalm Death anche se, pur amandoli entrambi alla follia, non hanno influenzato minimamente il processo di scrittura per “The Path Of Separation”.

A quando risalgono i brani? Avevate già qualcosa nel cassetto o sono tutte creazioni recenti?
La composizione dei brani è iniziata immediatamente dopo la chiamata che ha visto protagonisti Enrico Giannone, Luca Hc e me. Era fine maggio 2021, da allora abbiamo cominciato a lavorare febbrilmente sui brani del disco partendo da zero. Non c’è nulla di datato, tutta roba fresca scritta durante l’estate.

Se non erro, ad oggi, avete estratto dal disco un paio di singoli: “Workstation Dead-Box” e “July019”. Come mai avete scelto proprio questi pezzi come biglietto da visita per tutto il disco?
Con precisione non ricordo il motivo per cui la scelta sia ricaduta su questi due brani, ma credo perché il primo da te citato mostra il lato più groove del disco, mentre il secondo quello più veloce, classico, da assalto frontale senza un domani.

Per una band come la vostra, che deve la propria fama soprattutto alle scorribande live, è importante avere dei video in rotazione?
In effetti il nome della band è cresciuto grazie alla nostra presenza live sin dal 2005, e a quell’epoca di avere video e cose di questo genere non se ne parlava nemmeno; tra l’altro non esisteva neanche Youtube, quindi direi che, almeno fino al 2008, ne abbiamo fatto a meno, e il nome è cresciuto lo stesso. I tempi attuali però, molto basati sulla forma/immagine, richiedono in effetti anche un supporto in immagini che, per quanto mi riguarda, cambiano poco la mia vita dato che i videoclip mi annoiano da morire. Se però questo può servire a diffondere e spingere la tua band è ok, ma credo ce ne siano troppi in rete, e alla fine uno nemmeno li guarda più di tanto. Tra l’altro, non vado pazzo per i video super rifiniti. Adoro le cose lasciate a caso, dove si avverte un certo senso di trascuratezza e improvvisazione. Non amo invece i video rifiniti, in cui la canzone gioca un ruolo secondario in favore dell’immagine. Amo ovviamente il cinema, ma questa è un’altra storia.

Credi che il conflitto in qualche modo possa condizionare un’eventuale tournée nell’Est Europa, territorio che in passato avete spesso bazzicato?
Il pericolo esiste eccome! Già nel 2008 abbiamo ricevuto aggressioni dai nazi di merda a Timisoara, durante un concerto, e poi minacce che hanno portato gli organizzatori ad annullare dei concerti in Ungheria, nel 2013, sempre grazie ai nazi locali che minacciavano di fare un macello. E gli episodi non sono finiti qui. Dunque immagino ora, con la drammatica virata a destra dell’Europa, quanti problemi potremmo avere, ma ci staremo attenti, non saranno quattro nazi di merda a fermarci.

Rabid Dogs – Grind ‘n’ roll a mano armata

I Rabid Dogs da quasi tre lustri violentano i nostri padiglioni auricolari, figuriamoci se una pandemia può fermare questa loro attività criminosa. Anzi il recente “Black Cowslip” rilancia le ambizioni del terzetto, forte di un nuovo contratto discografico (con la Time To Kill Records) e nuovi stimoli creativi.

Ciao Doc (chitarra e voce), lo scorso 28 gennaio è uscito il vostro album “Black Cowslip”, è sicuramente presto per fare un bilancio, però ti chiedo: quali aspettative accompagnano questa pubblicazione?
Ciao Giuseppe. Sì, non è nemmeno un mese che l’album è fuori ma abbiamo delle buone sensazioni a riguardo. Il disco piano piano si sta diffondendo, grazie alla promozione continua della Time To Kill, ai due videoclip pubblicati in queste settimane ed alla musica stessa. Crediamo molto in questo disco e vogliamo che arrivi a più pubblico possibile perché lo merita.

“Black Cowslip” è il primo album che pubblicate durante la pandemia, temete che l’attuale blocco dei concerti possa in qualche modo compromettere la promozione del disco?
E’ la nostra paura ma purtroppo non possiamo farci molto. Causa pandemia abbiamo dovuto rallentare un po’ con la registrazione e pubblicazione ma forse è stato un bene dato che finora l’attività live è stata quasi del tutto azzerata. Adesso però siamo in attesa che le restrizioni scompaiano e di poter finalmente suonare dal vivo: è davvero tanto tempo che non calchiamo un palco e la cosa ci ha iniziato davvero a stufare.

Quanto è importante per voi poter suonare dal vivo? Avete già delle date in programma per le prossime settimane?
Per noi è importantissimo. Siamo una band che adora andare in tour e fare festa con il pubblico e con le altre band. E’ bello comporre musica e registrarla ma se non puoi condividerla con altre persone non ha molto senso. Inoltre è un genere  molto “fisico” che può esprimersi al meglio solo dal vivo. Riguardo le date, ci stiamo lavorando proprio in questi giorni. Finora le poche serate trovate sono state tutte annullate o posticipate ma non disperiamo: siamo ottimisti e contiamo di riuscire a portare il nuovo disco dal vivo per primavera/estate.

Quando sono nati i brani di “Black Cowslip”?
I brani hanno avuto una gestazione molto lunga. I pezzi sono stati composti già da tre anni ma con il tempo si sono arricchiti e modificati. Molto ha influito anche il lavoro di Cinghio dei Kick Recording Studio: la sua esperienza è stata preziosa per trovare soluzioni che non avevamo considerato in sala prove. Inoltre, come detto prima, la pandemia ci ha costretto a dei lunghi stop e questo ci ha permesso di ripensare i pezzi e modificarli dove funzionavano meno.

Avete lavorato in modo diverso in studio rispetto al passato?
E’ stata la prima volta per noi  ai Kick Recording Studio e ci siamo trovati subito a nostro agio, in un ambiente sempre costruttivo ed aperto a tante idee. Dopo anni di registrazioni al nostro solito studio qui in Abruzzo, uscire dalla nostra “comfort zone” e passare ad uno studio nuovo, in un’altra città, è stata un po’ una scommessa e non sapevamo come sarebbe andata. Registrare con Cinghio invece è andata benissimo, ci ha dato un punto di vista diverso sui pezzi ed ha arricchito il disco con ottime intuizioni.

Ciò che mi colpisce della musica contenuta in  “Black Cowslip” è che al primo ascolto pare quasi semplice, in realtà è stratificata, complessa e multiforme: come avete fatto a rendere semplici le cose difficili?
In effetti è un disco di facile ascolto, con pezzi che filano via con leggerezza e che non annoiano.  In principio seguiamo solo le nostre intuizioni in sala prove, partendo da riff semplici ma coinvolgenti, per poi arricchirli tutti insieme mano a mano. E’ sempre stato così per noi, siamo tutti coinvolti nella composizione, e non è la prima volta che inseriamo soli di armonica o pezzi meno tirati, ma questa volta è stato determinante anche tagliare alcune soluzioni per rendere tutto più snello. Ad esempio in origine le linee vocali erano differenti, molto più corali, ma come abbiamo provato a ridurle ed ad affidarci ad una voce principale, ci è subito parsa la soluzione migliore, il disco filava via meglio. E così via anche per quanto riguarda strutture dei pezzi ecc…

Niente male neanche la copertina, chi è l’autore?
Se per studio ed etichetta ci sono stati cambiamenti, per l’artwork no: ci siamo affidati ancora a Davide “Dartwork” Mancini e non abbiamo sbagliato. Adoriamo i suoi lavori e volevamo ancora il suo contributo per questo disco, perfetto per il suo stile molto stoner/doom.

Per “Fucking Spaced Out” avete realizzato un grande video, avete degli aneddoti particolari da raccontare sulle riprese?
“Fucking Spaced Out” è il primo di quattro video previsti per questo disco. La forzata mancanza di attività live ci ha permesso di dedicarci di più alla promozione tramite videoclip e, grazie all’aiuto di Enrico della Time To Kill, siamo entranti in contatto con i ragazzi della Thunderslap Productions con cui abbiamo filmato. E’ stato divertentissimo lavorare con loro, sono persone molto professionali ed allo stesso tempo molto alla mano. C’è stato sempre un clima di festa nel registrare il video, aiutato dal fatto che tutte le bottiglie che vedete ce le siamo scolate per davvero (l’unica finzione sono le pilloline… niente roba eccitante, della semplice vitamina C). Il video in questione è collegato al seguente “The Law Of The Strongest”, uscito con la pubblicazione del disco, per cui se ti è piaciuto ti consiglio vivamente di guardare anche quello.

Visto che si parla di riprese: “Cani arrabbiati” è il più grande film della storia?
Il più grande film della storia? Ahhaha forse no, ma è sicuramente il più importante per la nostra storia. Senza quel film non so come ci saremmo chiamati e non so se avremmo avuto la stessa passione per i poliziotteschi anni 70. Dobbiamo molto a quel film.

Humator – Arisen from the ashes

Le tracce degli Humator erano andate perse qualche anno fa, quando alcuni membri della band si erano trasferiti in Germania. Paradossalmente, l’aver sposato la base in un Paese ben più recettivo del nostro nei confronti di certe sonorità, non ha dato lo slancio definitivo alla carriera dei nostri. Oggi si torna a parlare di Humator grazie a un nuovo disco, “Curse of the Pharaoh” (Time to Kill Records \ Anubi Press), pubblicato a ben dodici anni di distanza dal precedente “Memories From The Abyss”.

Benvenuto Piero (batteria), da diversi anni vi siete trasferiti in Germania, qual è la situazione live da quelle parti in questi giorni di pandemia?
Ciao, intanto grazie per l’opportunità che ci avete dato, la situazione live qui non è delle migliori, diciamo che si sta iniziando a muovere qualcosa soprattutto per le big band,per il piccolo underground ci vuole un po’ di tempo… spero al più presto possibile.

Rimaniamo in tema Germania, dopo il trasferimento all’estero si sono perse le vostre tracce. Sino a quel momento avevate pubblicato un demo, “Anger Castles”, e un album, “Memories From The Abyss”, poi il silenzio durato dodici anni: che cosa è successo?
Sì, purtroppo è così, subito dopo l’uscita di “Memories…” io e Ray ci siamo trasferiti in Germania per lavoro. Per questo motivo si sono perse le nostre tracce nel 2009, quando ci siamo trasferiti abbiamo avuto serie difficoltà a trovare componenti, non è stato per niente facile.

Appunto, presentate sul questo album due nuovi membri, Michael Bach e Simon Moch: come siete entrati in contatto con loro?
In principio, dopo  un paio d’anni, è entrato a far parte della band Antonino (chitarra) anche lui siciliano. Per puro caso, avevamo visto un video su YouTube, una guitar cover di “Sadness” fatta da Antonino, da lì lo abbiamo contattato. Neanche a dirlo, si doveva trasferire in Germania e qui entra a far parte della band, e da allora in poi abbiamo iniziato a creare nuovi brani. Ma le difficoltà c’erano sempre, non riuscivamo a trovare un cantante e un bassista, dopo varie ricerche e vari anni sonio entrati Michael (voce) e Simon (basso).

Finalmente è arrivato il momento di parlare di “Curse of the Pharaoh”, i brani esistono da anni o sono stati creati con la nuova formazione?
I brani esistono dal 2016 e sono stati creati da me, Ray e Antonino. Principalmente i riff partono da Ray e poi tutto il resto viene dagli altri componenti della band.

Cosa presenta di diverso questo secondo album rispetto al vostro esordio?
Sinceramente non lo sappiamo, ahahahah. Penso che col passare del tempo si cresca, le tendenze musicali cambiano e quindi, senza volerlo, vai a modificare il DNA musicale: il marchio è lo stesso, ma i tempi cambiano…

A proposito di “Memories from the Abyss”, credi che un giorno possa essere ristampato?
Magari, sinceramente ci avevo pensato anch’io. E’ un bel lavoro, non cambierei niente, è il tipico sound humatoriano, ahahahah…

Torniamo a “Curse of the Pharaoh”, il disco è un concept di ispirazione egiziana, si basa su fatti storici-mitologici oppure è tutto frutto della vostra fantasia?
Noi volevamo solo un album che non contenesse troppi cliché. L’antico Egitto non è così fortemente rappresentato nel death metal, a parte i grandi Nile. E ne abbiamo anche ricavato un album fantasy, invece di trattare testi troppo accuratamente storici.

Secondo te, come mai l’antico Egitto ha sempre affascinato i musicisti metal?
Abbiamo notato che alcune sonorità ci portavano l’orecchio a quel sound quasi tipicamente egiziano e dopo siamo arrivati alla conclusione che avremmo dovuto parlare dell’antico Egitto. Come ben si sa, non siamo gli unici a trattare queste tematiche, probabilmente perché l’antico Egitto ha tantissimi misteri e ancora oggi non si sono trovate risposte. Magari sarà per questo motivo? Chi lo sa?!

E’ presto per parlare di tour o qualcosa si sta muovendo, magari anche qui da noi in Italia?
Non è presto, stiamo cercando di organizzare qualcosa. Ma visto la situazione Covid, non siamo ancora in grado di dare delle conferme…

Napoli Violenta – Piombo napoletano

I quattro misteriosi figuri che si celano dietro un passamontagna nero, noti alle cronache come i Napoli Violenta, sono tornati alla ribalta con l’ennesima cruenta mattanza a mano armata, “Neapolitan Power Violence” (Time To Kill Records) per gli inquirenti. Dopo che l’Anubi Press ha garantito per noi, siamo riusciti ad incontrarli in una località campana segreta….

Benvenuti, “Neapolitan Power Violence” da qualche giorno è fuori per la Time To Kill Records, la mala come ha accolto il vostro ritorno?
Se rispondessimo a questa domanda, per un giudice sarebbe la prova che sappiamo ciò di cui stai parlando. Quale mala? La malasanità? Forse intendeva la mela?

Il Commissario Betti come avrebbe reagito ascoltando i vostri pezzi?
Teneva il solito sguardo di ghiaccio ma col piede portava il tempo.

Il primo brano estratto dal disco è stato “Extreme Noise Terron”, lo possiamo intendere come un inno auto-celebrativo?
In Italia c’è una moltitudine di gente che suona merda estrema come noi. Tantissimi sono terroni, anche se sono distribuiti ovunque e hanno iniziato a parlare con accenti strani. Vengono anche dalla periferia e provincia più brutale dove non c’è mai campo e il divertimento più sano e trasgressivo è bere Peroni 1846 e suonare, appunto, merda. Se questo pezzo è un inno a qualcuno, è per questi eroi.

Al di là dell’evidente ironia che permea i vostri titoli, tra citazioni più o meno colte, le tematiche che trattate nelle liriche quanto le dobbiamo prendere sul serio?
Non conosciamo un modo diverso per parlare di quello che ci circonda. Se per voi è ironia allora sarà un modo ironico, ma si può essere ironici essendo serissimi. Detto questo, non dovete mai prendere sul serio quello che diciamo: noi suoniamo e basta.

Avete deciso di rendere tributo a un filone del cinema italiano che in passato è stato al centro di discussioni sul suo orientamento politico. Accuse fondate, a mio parere, su un approccio molte volte superficiale. Vi siete posti mai il problema di poter essere a vostra volta ricondotti a una certa ideologia?
Da dove veniamo noi, e sin da piccolo, impari che nel nostro tempo le ideologie sono funzionali ai soldi. Non sui libri magari, ma per la strada è così. Ai pezzi da novanta della politica e della Chiesa piace sbandierare idee sofisticate, impegno sociale e una buona fetta di popolazione non solo gli va dietro ma è disposta pure a farsi guerre tra poveri per difendere queste idee indotte con la propaganda. La realtà sottostante è marcia, basta guardarsi attorno con realismo per capirlo. Il Poliziottesco, se ebbe un pregio, fu quello di rappresentare e parlare senza fronzoli o compromessi di una realtà cruda, ingiusta e violenta. In un Paese dove la giustizia si comprava e il controllo non ce l’aveva nessuno, ma c’era una guerra tra Stato, apparati deviati, bande armate, organizzazioni criminali, Chiesa. E si fece tanti nemici per questo. Oggi le cose sono cambiate, ma non di tanto. Riguardo a noi, non ci siamo mai posti il problema di dove la gente potesse ricondurci perché sappiamo chi siamo e da dove veniamo: siamo cresciuti in posti come il Tien’A’Ment, Officina99 e Slovenly. Però vi invitiamo a riflettere sul fatto che siamo in un Paese in cui i massimi organi dello Stato, per prendere una decisione ritenuta scomoda, devono rifugiarsi dietro un voto segreto. Per cui chi volesse cercare la puzza di certe ideologie deprecabili dovrebbe guardare altrove, piuttosto che a una band che per divertimento si mette il balaclava. Un suggerimento: guardate in alto.

Avete deciso di puntare su una produzione diretta e lo-fi per ricreare in studio il vostro sound dal vivo, pensate di esserci riusciti o in fin dei conti è impossibile raggiungere un risultato del genere per svariati motivi?
Abbiamo registrato questo disco in condizioni oggettivamente difficili. Vigeva il lockdown e la zona rossa: rischiavamo multe salate solo per stare andando a registrare o per una delazione dei vicini dello studio. Non c’era né tempo né voglia per fare fiocchetti così, assieme a Butch, il nostro producer esecutivo, abbiamo deciso di farlo come si sarebbe fatto a fine anni ‘80. Unica take, tanti microfoni, no editing. Doveva rappresentare noi in questo presente, non solo come suoni e impatto, ma soprattutto nell’attitudine. Questo è quello che abbiamo ottenuto, alla fine. E un disco così si può fare, solo che spesso si preferisce seguire un approccio diverso: i suoni delle band si sono uniformati, ascolti dieci dischi e la batteria suona uguale in tutti e dieci perché magari hanno usato la stessa libreria di campioni. E se non suonano uguali non vendono. Ecco, questo è l’opposto di quello che intendiamo noi: merda sì, ma fatta bene. Merda deluxe.

Restando in tema live, si sta muovendo qualcosa?
Se qualcosa si muove è perché, anche nell’ambito degli show, c’è gente (non riconosciuta e mal pagata) che si fa il mazzo. Di certo non per un francobollo verde.

Un annetto fa ho letto una vostra intervista rilasciata al sito ufficiale di Soundreef, in cui spiegavate le ragioni della vostra scelta di non usufruire dei servigi della SIAE. Il vostro intervento terminava con un minaccioso “non so se vi conviene deluderci”. Ora che è passato un po’ di tempo dalla vostra iscrizione a Soundreef, siete soddisfatti? Lo consigliereste? Ma soprattutto, ci siete voi dietro la richiesta di riscatto per lo sblocco dei server SIAE?
Pensiamo che sia giusto che chi fa musica o si dedica a qualsiasi arte venga riconosciuto e tutelato. Quanti più organi e soggetti si occupano di questo, tanto meglio. Soundreef è un’ottima alternativa a SIAE e auspichiamo che nel mercato entrino sempre più soggetti a tutela degli artisti. Oggi ci sono tecnologie come la Blockchain che possono incidere tanto in questo ambito e rivoluzionare il sistema a cominciare dalla riduzione dei costi per gli autori. Ciò detto, questa è una domanda che dovreste rivolgere a chi fa musica o arte: noi facciamo grindcore. Riscatto? Server? Non conosciamo.

Per chiudere l’intervista, butto là un’idea: avete mai pensato a un split album da condividere con Bologna Violenta?
Abbiamo più o meno le stesse influenze di immaginario con loro, ma facciamo generi troppo diversi. Giriamo la domanda ai vostri lettori: ve lo accattereste un siffatto split? Il nostro sogno, veramente, sarebbe farne uno con Raw Power o Cripple Bastards, perché sono i nostri miti sin da ragazzini. Sognare è un po’ rapinare.

E’ tutto, grazie…
Grazie a te Peppì… e fà ‘o brav!

Neker – Louder, slower and Neker

A Neker piace il rumore. A Neker piace la lentezza. A noi piace Neker. A noi piace il suo nuovo album, il secondo, “Slower” (Time to Kill Records).

Ciao Neker, partiamo subito con le domande più intelligenti: è nato prima il tuo amore per i baffi o quello per gli ampli rumorosi?
Direi, decisamente, che è nato prima l’amore per gli ampli rumorosi.

“Slower” è il secondo capitolo a nome Neker, quando hai rilasciato il primo disco avevi intenzione di dare continuità al progetto oppure per te, in quel momento storico, si trattava di una pubblicazione estemporanea?
Ho sempre pensato di continuare, anzi il progetto è nato proprio per continuare. Venendo dalle esperienze con le band nelle quali c’era sempre discontinuità e si finiva inesorabilmente per smettere di suonare ho deciso di andare avanti da solo.

“Slower”, ma più lento di cosa o di chi?
Di niente in particolare. Lento come una colata lavica!

I tuoi brani nascono sempre da riff di basso oppure ti capita anche di comporre partendo dalla chitarra?
In realtà compongo quasi sempre con la chitarra! La chitarra mi da subito l’idea dell’impronta e del colore che può lasciare un riff.

I Neker, inevitabilmente, vengono ricondotti alla tua figura, ma si ci troviamo innanzi a una vera e propria band: mi presenteresti i tuoi due compagni?
Beh credo che vengano condotti alla mia figura perché “i Neker” semplicemente non esistono, Neker sono io. Ma sicuramente ho i miei musicisti di fiducia: come per Jhon Zorn c’è Marc Ribot per me alla chitarra c’è Alessandro Eusebi e come per Ozzy c’era Mike Bordin per me alla batteria c’è Daniele Alessi!

Dopo l’uscita di “Louder” nel 2017, avevate intrapreso un ottimo cammino live che vi aveva portato persino in Canada. Sul più bello sono arrivati i blocchi sanitari e avete dovuto interrompere il vostro percorso. In termini pratici, quanto credi che questa situazione abbia compromesso la crescita della tua band?
Non credo che abbia compromesso la mia crescita o quella della mia band credo solo, in termini pratici, che abbia “rotto i coglioni”.

Questa situazione frustrante ha in qualche modo inciso sui pezzi contenuti in “Slower”?
No, il disco era già stato registrato prima della pandemia.

Nelle note promozionali appare una tua dichiarazione “Non ho grandi messaggi da dare posso solo esprimere ciò che provo o raccontare storie. Credo che la gente sia satura di messaggi e abbia solo bisogno di buona musica in cui perdersi.” Credi di avercela fatta a creare con “Slower” buona musica in cui perdersi?
Lo spero, ma questo forse dovreste chiederlo a chi l’ha ascoltato! Personalmente, “Slower” è un lavoro che mi fa impazzire e in cui mi ci perdo volentieri come non mi era mai successo prima con qualcosa di mio!

In chiusura ti chiedo se hai già individuato l’aggettivo che darà il nome al prossimo disco…
Non sei il primo a farmi questa domanda! Al momento ti direi che sono ancora indeciso su vari nomi, non per forza aggettivi!

Fulci – Voices from beyond

I Fulci non si fermano mai! Solo qualche mese fa abbiamo discusso con la band romana dell’ennesima edizione del secondo album, “Tropical Sun”, oggi ci ritroviamo a parlare con il chitarrista Domenico della ristampa dell’esordio, “Opening the Hell Gates” , e del nuovo disco “Exhumed Information” (Time To Kill Records \ Anubi Press) la cui uscita è prevista per la fine di luglio.

Ciao Domenico, non riuscite proprio a stare fermi con le mani nelle mani, come cantava qualcuno tempo fa! Tra una riedizione e l’altra di “Tropical Sun”, avete tirato fuori la ristampa del vostro esordio, “Opening the Hell Gates”, e annunciato l’uscita del nuovo “Exhumed Information”! Siete degli stacanovisti o più semplicemente questa iper-produzione è il frutto di una fortunata combinazione di eventi?
Ciao, piacere di ritrovarti. Diciamo che siamo sia stacanovisti che creativi. Abbiamo tante idee ma sempre poco tempo per svilupparle. Per fortuna abbiamo trovato come partner la Time To Kill che riesce a stare al passo con le nostre follie! Oltre a quello che hai già citato infatti abbiamo in serbo altre sorprese per questo 2021, sia musicali che cinematografiche.

Partirei dalla ristampa di “Opening the Hell Gates”: chi avuto l’idea di riproporlo? Rispetto all’edizione originale, quali sono le novità, se ci sono?
Dopo il successo di “Tropical Sun” abbiamo subito pensato di far uscire il primo disco su vinile (TIME TO KILL RECORDS) e cassetta (Maggot Stomp Records) perché all’epoca era uscito solo in CD su Despite The Sun Records. L’idea però era di arricchire l’edizione con un layout aggiornato e con delle bonus tracks. Siccome ultimamente ci siamo presi bene a suonare in chiave metal le colonne sonore dei film di Lucio, abbiamo provato a suonare uno dei temi di “Paura nella Città Dei Morti Viventi” del maestro Frizzi e l’abbiamo inserita nella ristampa. Inoltre potete trovare “Death By Metal” che è il singolo death/rap fatto con Metal Carter.

“Exhumed Information” è l’ennesimo tributo al maestro Fulci, questa volta vi siete concentrati su “Voices from Beyond”, film del 1991 tra i meno noti del regista italiano: come mai la scelta è caduta proprio su questa pellicola?
Credo che dopo aver dedicato i primi album a due filmoni cult (paura nella Città dei Morti Viventi e zombi 2) molti si aspettavano the Beyond o Quella villa accanto al cimitero. Invece abbiamo scelto di basare il concept del disco su “Voices From Beyond”. Siamo consapevoli che alcuni film di Fulci sono criticabili e di bassa qualità ma essendo noi devoti al maestro pensiamo che l’intera filmografia meriti rispetto. Abbiamo scelto Voci dal Profondo perché è stato uno dei primi film di Fulci che abbiamo visto. Inoltre la trama è ancora oggi originale. Anche le atmosfere folkloristiche del film sono interessanti. Ovviamente essendo un film a basso budget a tratti risulta molto trash ma anche per questo motivo ci ha ispirato!

Il disco si divide in due parti, per la seconda, quella dall’appeal più cinematografico, vi siete affidati ai Tv-Crimes, come è nata questa collaborazione?
Abbiamo sempre cercato di inserire influenze musicali diverse dal metal nei nostri album. Questa volta volevamo esagerare ma allo stesso tempo non volevamo che i Fulci diventassero un progetto di musica elettronica. Per questo motivo ci siamo affidati ai TV-CRIMES per il lato B del disco. Possiamo quasi definirlo un Split album ma in realtà l’intero album è stato scritto a “quattro mani”.


Il singolo “Glass” è frutto di questa collaborazione, siete partiti con questo singolo proprio per presentare il nuovo aspetto della vostra produzione?
Si, Glass e la opening track del lato B. Volevamo spiazzare l’audience pubblicando un pezzo totalmente fuori dai soliti schemi Fulci. È stato un gesto un po’ rischioso ma direi che ha funzionato.

Questo è il vostro album con il fascino più cinematografico, avete mai pensato di scrivere una colonna sonora, anche immaginaria, magari scevra da ogni contaminazione death?
Il lato B di Exhumed Information è esattamente la soundtrack di un film che ancora non esiste ed il sound è totalmente lontano dalle sonorità Death metal se non per il mood horror.

Vi andrebbe di consigliare delle colonne sonore classiche ai nostri lettori?
La lista sarebbe troppo lunga! Però ultimamente ho ascoltato la colonna sonora che i Coil avevano scritto per Hellraiser ma che non è stata mai usata perché giudicata poco commerciale. Ascoltare quel disco immaginando le scene del film è un trip che consiglio a tutti.

Forse è finalmente arrivato il momento di riprendere l’attività live, voi avete novità in questo senso?
Certo! Non vediamo l’ora! Stiamo organizzando il nostro secondo tour in USA per il 2022. Mentre dal 23 al 26 luglio 2021 saremo in tour in Italia per alcuni release parties dedicati a “Exhumed Information”. Ci vediamo on the road! Grazie per lo spazio concesso e un saluto a tutti i lettori. Fulci Lives.