Circa tre anni fa Sara Baggini, in arte Augustine, pubblicava il suo esordio discografico “Grief and Desire”. Oggi ritroviamo la cantautrice grazie allo splendido “Prosperine” (I Dischi del Minollo), un viaggio nelle profondità dell’Ade che si sorregge su una raffinata colonna sonora in bilico tra neo folk, dream pop e dark wave…
Ciao Sara, o preferisci Augustine?
Ciao! Non ho preferenze, siamo la stessa persona; ma dal momento che si parla di me in quanto cantautrice, mi nomino come Augustine in questa sede.
Dove finisce Sara e dove inizia Augustine? Convivono pacificamente?
La coincidenza è totale. La musica – e l’arte in generale – sono da sempre per me una questione identitaria. Non solo mi rispecchio in ciò che faccio, ma SONO ciò che faccio. È chiaro che l’identificazione con un personaggio letterario – Augustine, l’isterica protagonista del saggio di Georges Didi-Huberman “L’invenzione dell’isteria” – è per me un filtro necessario per portarmi in una dimensione “altra”, parallela rispetto alla vita, dove il racconto auto-biografico diventa musica e il linguaggio cessa di essere comunicazione per cercare una sua dimensione poetica. Detto ciò, la convivenza con me stessa non è mai stata pacifica, ma questo è un discorso che qui non ci interessa…
Hai esordito con un album, “Grief and Desire”, che nella sua semplicità era comunque un’opera complessa, una sorta di zibaldone con finalità identitarie. Secondo te, aver mosso in modo così deciso i tuoi primi passi come Augustine nel mondo della musica, con il senno del poi, è stato un vantaggio o uno svantaggio?
Non faccio mai questo genere di bilanci, soprattutto perché ogni mia azione è dettata da necessità e non da strategie o obiettivi. Dunque non potevo fare altrimenti. Che poi “Grief and Desire” avesse i suoi limiti, lo sapevo in partenza e con il tempo ho avuto modo di capire molto di più. Ma in quel momento era esattamente ciò che andava fatto.
A tre anni di distanza quanto è rimasto di quella identità di Augustine nel nuovo “Proserpine”?
Ho una personalità piuttosto monolitica, restia ai cambiamenti, non rinnego mai il mio passato o qualcosa fatto in passato. È rimasto tutto quanto, si sono solamente aggiunte delle cose: maggior consapevolezza, apertura, forse semplicità, ma non nel senso di “semplificazione”, persino la complessità rimane invariata. Ho trovato solo delle forme espressive più dirette, ma tutto ciò forse si riassume in un naturale percorso di maturazione artistica.
Hai dedicato l’album alla figura alla dea Proserpina e hai detto: “nasce da un’idea di inesorabilità, di reclusione, di auto-esilio; di vita vissuta osservando il mondo da dietro una finestra”. Decontestualizzando la tua affermazione, parrebbe il racconto di questi giorni di uno qualsiasi di noi: quanto ha influito il lockdown sulla genesi di “Proserpine”?
Per nulla! “Proserpine” è nato prima! Quando il Covid è arrivato in Italia, io ero al lavoro in studio, avevo già composto tutte le tracce e terminato la pre-produzione. Quando subentrò il primo lockdown stavamo registrando (fummo costretti ad interrompere momentaneamente il lavoro). “Proserpine”, ad ogni modo non ha a che fare con delle contingenze “esterne”; è tutto intro-flesso, interiorizzato. Non riguarda affatto l’hic et nunc né qualche condizione collettiva; i contenuti sono del tutto personali. Che, poi, l’ascoltatore riviva le sue esperienze di reclusione ascoltandolo, è un altro discorso, un’identificazione forse inevitabile in questo momento, ma la reclusione di “Proserpine” è qualcos’altro, rispetto a ciò che noi tutti abbiamo sperimentato nell’ultimo anno, qualcosa di molto profondo, di abissale. Mi è capitato di pensare che questo album sia stato un po’ preveggente e questo mi convince della sua buona riuscita: l’arte in qualche modo è sempre premonitrice.
Hai una passione per i miti classici e per la letteratura di autrici quali Virginia Woolf e Sylvia Plath, musicalmente sei attratta dal folk e dagli anni 80 (dark wave e dream pop): non salvi nulla della contemporaneità?
Certo che sì, salvo molte cose, fortunatamente l’umanità non ha mai smesso di produrre capolavori. Leggo anche autori contemporanei e musicalmente posso citare il mio amore per Agnes Obel, o Julianna Barwick, per esempio. Insisto comunque nell’affermare che l’arte è fuori dal tempo, è sempre anacronistica e non è una semplice espressione del suo tempo, è piuttosto una voragine del tempo, un corto circuito della temporalità. Io è lì che voglio stare. Altrimenti non si fa arte (o musica), ma cronaca, storiografia o futurismo.
Per quanto un artista oggi possa in modo volontario o involontario isolarsi dal resto del mondo, necessariamente deve confortarsi con questo. Per esempio, pubblicando dei dischi o dei video – tu hai lanciato i singoli “Pagan” ed “Anemones” tra gennaio e aprile – oppure rilasciando un’intervista come questa. Qual è il limite che separa il vero artista dal mercante?
Ho risposto in parte con le domande precedenti. L’artista ha le idee ed i mezzi espressivi necessari per dar loro vita. È ciò che fa. Risponde in primis ai bisogni imposti dal proprio lavoro. Il mercante è qualcuno che fa un mestiere perché si pone un obiettivo (in termini di visibilità o guadagno), ma non si pone il problema dei contenuti e spesso vende aria fritta, scatole vuote, anche se le vende benissimo. Non bisogna però certamente demonizzare tutto ciò che gira intorno al rendere fruibile il proprio lavoro. Anzi, un artista chiuso in se stesso, incapace di dare al proprio lavoro la visibilità che merita, non è un artista completo. C’è un modo, voglio dire, per essere un po’ “mercanti” senza tradire i propri contenuti e le proprie necessità artistiche.
Sin dalla copertina – opera di Francesco Capponi – ci metti la faccia, ma in realtà “Proserpine” non è il frutto di una persona sola: chi ha collaborato con te?
“Proserpine” ha avuto, come ogni mio lavoro, una gestazione solitaria, ma una realizzazione davvero condivisa con molti carissimi amici. In primis, al mio fianco c’è stato il suo produttore, Fabio Ripanucci, de La Cura Dischi: l’album, nella sua veste definitiva, deve a lui almeno quanto deve a me. Insieme a noi in studio c’era anche Daniele Rotella e il suo apporto tecnico (ma non solo) è stato fondamentale. E poi ho avuto l’occasione di ospitare in studio alcuni amici musicisti, perché dessero il loro contributo: il bassista Massimo “Marga” Margaritelli con il suo inconfondibile sound wave ed il batterista Niccolò Franchi, mio prezioso collaboratore da anni. Poi devo citare il regista dei miei video, Francesco Biccheri, che – insieme a Francesco Capponi – mi ha aiutato a dare a “Proserpine” un’adeguata veste visiva. Ho voluto poi coinvolgere i miei amici artisti visivi nei modi più svariati: Diletta Rondoni ha creato per me il melograno di ceramica che stringo in mano nella foto di copertina e ha messo a disposizione alcuni suoi lavori per il video di “Anemones”, Erica Landi mi ha aiutata a fabbricare i costumi che indosso nel video di “Pagan” ed Antonio Rossi ha realizzato per me le scenografie di entrambi i video, oltre ad avermi affiancato nella creazione dell’artwork del cd. In ultimo in ordine temporale, è al mio fianco in questa seconda fase del lavoro – quella di promozione, per l’appunto – Francesco Strino de I Dischi del Minollo.
Alla fine del tuo viaggio nell’oltretomba con “Proserpine”, sei riuscita a riveder le stelle?
Sì, certo! Ma le stelle non hanno mai smesso di essere presenti. È indubbio che “Proserpine” sia un album piuttosto cupo e che lo siano i suoi contenuti, le sue sonorità, le immagini che lo accompagnano… Ogni volta che porto a termine un lavoro mi immagino di essermi tuffata in un abisso, per poter riemergere con una perla in mano. E mi piace pensare all’abisso come ad un cielo al contrario. Il punto più basso ed il più alto coincidono sempre. La vita mi ha regalato di continuo esperienze di questa coesistenza. Mi piace stare lì, su quel filo sottile, in quell’equilibrio precario. Direi, anzi, che non so fare altrimenti.
