Ospite di Mirella Catena a Overthewall un grande protagonista del metal italiano, Luca Bonzagni con il suo nuovo progetto musiale Krell.
Luca, sei stato il cantante storico dei Crying Steel e la tua estensione vocale è stata paragonata a quella di Rob Halford. Hai collezionato successi e hai calcato palchi importanti sin dagli anni 80. Chi è Luca Bonzagni adesso? Luca è un vecchio cantante che ha ancora la musica, vecchia amica fedele, che lo accompagna sin da quando era bambino, prima come fruitore e poi anche come musicista.
Come nasce il progetto Krell? Nasce qualche anno fa quando io e Di Nicola ci siamo incontrati per caso, dopo qualche tempo che non ci vedevamo, ed abbiamo deciso di fare qualcosa insieme.
Chi ha scelto il moniker e qual è il significato? Il nome Krell è una citazione cinematografica dal film “Il pianeta proibito” dove Krell era il nome di un popolo, ormai estinto, che possedeva tecnologie avanzatissime che permettevano loro di materializzare i sogni (o anche gli incubi…) delle persone che le utilizzavano.
I dieci brani sono stati registrati al Pristudio di Bologna, con Roberto Priori come tecnico del suono. Ci parli della realizzazione dell’album? Priori, grande tecnico ed amico, ha fatto un lavoro egregio adattando il sound ai contenuti sonori dell’album.
“Deserts” è targato novembre 2022, state già lavorando a qualcosa di nuovo? Non attualmente, anche se di materiale ne abbiamo ancora.
Sono previsti dei live per promuovere il nuovo album? Se dovesse capitare l’occasione di suonare live, saremo ben lieti farlo.
Come pensi che la scena metal italiana si sia trasformata, dagli anni ’80 ad oggi? Vantaggi e svantaggi, come sempre… si è purtroppo frammentata in mille rivoli ma al contempo si è diffusa enormemente.
Dove i nostri ascoltatori possono seguire i Krell? Attraverso le piattaforme social più famose e praticamente tutti i servizi di streaming attuali.
Grazie di essere stato con noi, lascio a te l’ultima parola… Mirella, sono io che ti ringrazio per avermi ospitato e saluto con affetto tutti gli ascoltatori. A presto.
Ascolta qui l’audio completo dell’intervista andata in onda il giorno 13 Febbraio 2023.
Walter “Crom” Grosse (Dark Fortress) è tornato con “The Era Of Darkness” (From the Vaults), il miglior album dal debutto “Vengeance” (2008) del suo progetto epic metal Crom.
Benvenuto Walter, come è nasto il tuo nuovo album “The Era of Darkness”? Ciao, l’intero album è stato scritto da me come già fatto in passato. Ma questa volta ho avuto l’opportunità di arrangiare le canzoni insieme al nostro batterista Tom. Questo è stato un nuovo approccio per me perché non l’avevo mai fatto prima per i Crom. Matthias Landes è un grande batterista e ha fatto un ottimo lavoro in studio. Ma con Heber abbiamo avuto il tempo di lavorare insieme alle canzoni. E penso che questo sia stato un miglioramento importante in “The Era of Darkness”.
Quanto sei soddisfatto del risultato? Sono totalmente soddisfatto di “The Era of Darkness”! Penso che sia il miglior album dal debutto “Vengeance” e le reazioni dei fan e delle fanzine dimostrano che ho ragione. Ho riascoltato le canzoni molto spesso e non c’è niente che farei diversamente. Questo è sempre stato molto importante per me. Voglio ascoltare le mie canzoni anni dopo ed essere soddisfatto come lo ero dopo l’uscita.
Questa formazione ha debuttato nel precedente EP “Into the Glory Land”, avete sentito una maggiore affinità tra di voi durante la registrazione di “The Era Of Darkness” rispetto alla precedente release? Ovviamente come band si cresce con ogni nota suonata insieme e ovviamente sapevo di più su come lavorare con i miei compagni di band durante i preparativi di “The era of Darkness”. Ma non abbiamo registrato insieme. Tom e io abbiamo fatto le registrazioni di batteria insieme, ma il resto delle registrazioni è stato fatto separatamente. Ho inciso tutta la musica e la voce da solo nel mio studio di casa e così ha fatto Steve con le sue parti da solista. Ma non credo che questo abbia avuto una cattiva influenza sull’album.
Quali sono le novità che avete introdotto in questo album? Non credo ci siano molte novità in questo album. Ho solo cercato di scrivere canzoni buone e versatili come ho fatto in passato. Volevo migliorare l’interazione tra batteria, basso e chitarra e, grazie a Tom, questo è stato possibile per la prima volta nella storia dei Crom.
Come è cambiato il tuo approccio alla musica in questi anni? È lo stesso. Secondo me non ho cambiato approccio neanche interagendo con Tom. In termini di songwriting e approccio alle canzoni, sono rimasto molto old-school. Non credo che potrei fare in altro modo.
Siete stati etichettato in un “genere” come l’epic metal, ma ti vedi come parte di questa scena in particolare? A causa di questioni private ho perso i contatti con tutte le scene in cui sono mai stato (se mai ho fatto davvero parte di una scena). Sono stato un artista solitario per tanti anni e non ho mai avuto molti contatti con altre band, promotor o persone importanti. Ora che suoniamo live, riesco a connettermi con le persone come mai prima d’ora. Forse in futuro faremo parte di una scena. Ma sinceramente non mi interessa. Per me è importante essere soddisfatto del nostro lavoro e spero che lo siano anche i fan.
Ci sono differenze tra la versione di “Into the Glory Land” dell’EP e quella del nuovo album? Ovviamente! È stata registrata completamente di nuovo, solo poche linee vocali sono state riutilizzate. La versione dell’EP è stata mixata dal nostro chitarrista Steve. Ma non è un tecnico del suono professionista. Ha fatto un ottimo lavoro ma ovviamente Victor dei Woodshed Studio ha saputo dare più potenza a questa canzone.
L’era delle tenebre è quella in cui viviamo? È divertente perché mi viene fatta questa domanda molto spesso. “L’era delle tenebre” non ha alcun riferimento alla nostra attuale situazione mondiale, alla politica o all’ambiente. Non è mai stato intesa in quel modo e non ci ho nemmeno pensato nemmeno. È solo una classica creazione dei Crom legata a un mondo fantastico, al suo declino e alla sua resurrezione.
Suonerete sul palco le nuove canzoni? Sì, in realtà già lo facciamo e continueremo a suonare altre nuove canzoni. Al nostro releas show abbiamo suonato “Into the Glory Land”, “Higher Ground”, “The Era of Darkness”, “Together We Ride”, “Riding into the Sun” e “When Will the Wounds Ever Heal”. Forse suoneremo “Heart of the Lion” e “Bridge to Paradise” anche in futuro. Ma è molto difficile trovare una buona scelta di canzoni per un concerto di 60 minuti quando hai pubblicato quattro album. E le canzoni dei Crom non durano solo tre minuti…
Walter “Crom” Grosse (Dark Fortress) is back with “The Era Of Darkness” (From the Vaults), the best album since the debut “Vengeance” (2008) by his epic metal project Crom.
Welcome Walter, how is born your new album “The Era of Darkness”? Hi, the whole album was written by myself like I did it in the past. But this time I had the opportunity to arrange the songs together with our drummer Tom. This was a new way for me because I’ve never done this with Crom before. With Matthias Landes I had a great drummer who did a great job in the studio. But we Heber had the time to work on the songs together. And I think that this was an important improvement on “The Era of darkness”.
How satisfied are you with the result? I am totally satisfied with the era of darkness!!! I think it’s the best album since my debut album Vengeance and the reactions of fans and zines show that I am right. I’ve listened to the songs very very often and there is nothing I would do in another way. This was always very important for me. I will listen to my songs years later and be as satisfied as I was after the release.
This line-up debuted on the previous EP “Into the Glory Land”, did you feel a greater affinity between you during the recording of “The Era Of Darkness” compared to the previous release? Of course as a band you grow with every note you play together and of course I knew more about how to work with my band mates during the preparations of “The era of darkness”. But we didn’t record the music together. Tom and me did the drum recordings together but the rest of the recordings was done separately. I recorded the whole music and vocals all alone at my home studio and so did Steve with his solo parts. But I don’t think that this had a bad influence on the album.
What are the novelties you introduced in this album? I don’t think there are really much novelties on this album. I just tried to write good and versatile songs like I did in the past. I wanted to improve the interaction between drums, bass and guitar and due to Tom this was possible for the first time in Crom history.
How did you change your approach to the music in these years? It’s the same here. In my opinion I didn’t change the approach instead of interacting with Tom. In terms of songwriting and the approach to the songs, I have remained very old-school. I don’t think I could do it any other way.
You’ve been tagged into ‘genre’ such as epic metal, but do you see yourselves as part of any particular scene? Due to private things I have lost the reference to all the scenes I’ve ever been in (if I ever really was part of a scene). I was a solo artist for so much years and I never had a lot of contact with other bands, promoters or important people. Now that we are playing gigs I get connections to people as much as never before. Maybe in the future we will be a part of a scene. But honestly I don’t care about that. It’s important for me that I am satisfied with our work and hopefully the fans also will be.
Are there differences between the version of “Into the Glory Land” on the EP and the one on the new album? Of course!! It’s completely new recorded, only a few vocal lines were used again. The version of the EP was mixed by our guitar player Steve. But he is not a professional sound engineer. He did a great job but of course Victor from Woodshed studio knew how to give this song more power.
Is the era of darkness the one we are living in? It’s funny because I get asked this question very often. The “Era of Darkness” should never actually have any reference to our current world situation, politics or environment. It was never meant that way and I never had this in mind either. It’s only a classic Crom fiction about a fantasy world, its decline and resurrection.
Will you play on stage the new songs? Yes, we actually do and we will continue to play more new songs. At our release concert we played “Into the glory land”, “Higher Ground”, “The Era of Darkness”, “Together We Ride”, “Riding into the Sun”, and “When Will the Wounds Ever Heal”. Maybe We Will Play “Heart of the Lion” and “Bridge to Paradise” also in the future. But it’s very hard to find a good choice of songs for a 60 minutes gig when you have released four albums. And Crom songs don’t last only three minutes…
Ospiti di Mirella Catena a Overthewall, Gae Amodio e Giulio Cattivera dei Dragonhammer per parlare del nuovo album “Second Life” (My Kingdom Music).
Gae, tu sei uno dei fondatori, la band si forma nel 1999 e, anche se la formazione attuale comprende sei elementi, siete partiti come un trio ( voce e chitarra, basso e batteria). Ci parli dell’evoluzione dei Dragonhammer? Gae: Ciao Mirella, si verissimo siamo partiti con una formazione di soli tre elementi, anche se a dire il vero eravamo principalmente in due ad aver costituito questo progetto, io e Max Aguzzi, sulla scia del nostro gusto personalissimo e del momento. Sai, il power metal la faceva da maggiore nel campo metal mondiale, era il periodo dove girava tutto intorno a band poi diventate storiche, e che a tuttora ascolto ben volentieri. Decidemmo di provare a mettere giù del materiale nuovo originale, e da lì a qualche settimana creammo un demo in cassetta (all’epoca ancora si usavano) di tre brani solamente, e decidemmo di spedirlo a persone che lavoravano nel settore, per avere un parere o chissà… Dopo pochi mesi, ricevemmo una telefonata che ci convocava presso una sede romana di distribuzione musicale, a cui con curiosità ed emozione partecipammo. Il fine di questa convocazione fu una proposta di registrazione di un intero album interamente spesato e distribuito dalla collaborazione di due label: la Elevate Records e la Legend Records. Capisci che per noi un piccolo sogno si stava realizzando, e da lì a firmare, passarono veramente pochi minuti. Tempo 5/6 mesi di preproduzione di nuovi brani, entrammo in studio nell’estate 2000, lavorando a volte dalla mattina alla sera. Trovammo il tastierista per l’album, poi entrato in pianta stabile nella band ed a marzo 200. Ecco il nostro album di esordio “The Blood of the Dragon” disponibile sugli scaffali dei negozi musicali europei e non solo. Piccolo inciso, che ora sembrerebbe un miracolo, la tiratura di 5000 copie fatta andò sold out in sei mesi! All’epoca era un buon risultato, ora sarebbe un miracolo discografico.
Dopo un periodo di pausa la band si riforma nel 2012 e nel 2013 firmate per la My Kingdom Music. Com’è nata questa collaborazione? Gae: Pausa sì, ma a livello solo discografico. Dopo l’uscita del secondo album nel 2004, la band era dedita esclusivamente a concerti, seppur sporadici, ma rimasta sempre attiva. Come dicevo io, con il motore regolato al minimo. Proprio perché credevo molto in noi, decisi con Max di cambiare il tutto, cambiare elementi della line up, e cambiare testa. Dal 2010 si ricercano nuovi musicisti adatti non solo a livello strumentale alla band, ma anche a livello personale e caratteriale. Con questo presupposto, ho avuto modo di conoscere, casualmente, Francesco Palumbo della My Kingdom Music e, dopo una breve telefonata, capii subito che nella ricostruzione e ripartenza dei Dragonhammer lui era una pedina fondamentale. In pochi giorni trovammo un accordo, che se dopo 10 anni è ancora valido, intuisci che non è risultato sbagliato.
Il 4 novembre è stato pubblicato il vostro nuovo album, “Second Life”. Parliamo di questa nuova uscita discografica? Giulio: “Second Life” è un album molto importante per la band perché arriva dopo cinque anni dal precedente e vede il debutto di tre musicisti nuovi, Alessandro Mancini alla chitarra, Marco Berrettoni alla batteria e Mattia Fagiolo alla voce, i quali subentrano al posto di Andrea Gianangeli e Max Aguzzi. In questi anni abbiamo rinnovato il nostro modo di fare musica e anche la nostra organizzazione interna. Volevamo che fosse un album almeno degno degno dei precedenti, perché i confronti col passato sarebbero stati inevitabili in questa situazione. A livello artistico, siamo ripartirti dagli elementi più caratteristici dei primi Dragonhammer, migliorandoli con fresche novità come, ad esempio, orchestrazioni e nuovi stili vocali. Personalmente siamo molto soddisfatti del risultato.
Ho notato che la vostra attività live si svolge moltissimo all’estero, quali differenze avete riscontrato rispetto ai live in Italia? Gae: In alcune nazioni ci sono differenze abissali dalla nostra, ed aggiungo purtroppo. In molti paesi stranieri abbiamo sempre notato una partecipazione più attiva e calda nei concerti, un po’ come era da noi negli anni ’90. Si andava ai concerti anche underground per il piacere di andare e divertirsi con gli altri bere fiumi di birra e saltare. Non è da tutte le parti cosi ovviamente, altrimenti sarebbe una tragedia per la nostra musica del cuore.
Cosa ci riserva il futuro? State già lavorando a qualcosa di nuovo? Giulio: Vogliamo che questa nuova formazione si consolidi, personalmente inizio già a pensare al prossimo album perché credo che ci sia del potenziale da sfruttare il prima possibile. Siamo infatti in una forte fase creativa. Sicuramente ci saranno nuovi live nel corso del 2023 e del 2024 per portare sul palco il nuovo album “Second Life”, quindi aspettatevi presto degli annunci al riguardo. Ci godiamo il momento per ora!
Dove i nostri ascoltatori possono seguirvi? Giulio: Su Facebook e Instagram ci sono i nostri profili ufficiali dove pubblichiamo regolarmente tutte le news riguardo la band. Mentre sul nostro sito web http://www.dragonhammer.com trovate anche il nostro shop, fondamentale per supportare la band nella maniera più diretta possibile e senza passare per altre piattaforme e-commerce intermediare. Chi vuole ci trova anche su Bandcamp!
Ascolta qui l’audio completo dell’intervista andata in onda il giorno 6 Febbraio 2023.
Il prossimo 10 febbraio uscirà per Avantgarde Music “Gem“, il disco che sancisse l’esordio dei Bosco Sacro, band che vanta nelle proprie fila Paolo Monti (The Star Pillow, Daimon), Giulia Parin Zecchin (Julinko), Luca Scotti (Tristan da Cunha) e Francesco Vara (Tristan da Cunha, Altaj). Tutti e quattro membri della band hanno accettato di rispondere alle nostre domande…
Benvenuti ragazzi, direi di iniziare ripercorrendo i momenti che hanno portato alla costituzione dei Bosco Sacro… Paolo: Quando Francesco, con cui ci conosciamo da molto tempo, mi ha proposto di contribuire a qualche traccia nata da lui e Luca, a cui si era già unita Giulia, ho accettato con la mia solita curiosità, ma ben deciso a non volermi coinvolgere in una band. Mi è bastato ascoltare i primi risultati per accettare di incontrarci in saletta in un giorno di estate 2021. Dopo questa giornata trascorsa a suonare è scattata una scintilla che ci ha portati pochi mesi dopo a chiuderci un weekend intero con Lorenzo Stecconi nello stesso studio in Versilia. Questo era il secondo nostro appuntamento e nasceva “Gem”. Francesco: Io e Luca, il batterista, abbiamo un duo ambient/drone/post rock di nome Tristan da Cunha. Durante il lockdown abbiamo avuto modo di collaborare con Julinko, aggiungendo il suo cantato ad un nostro pezzo strumentale per una compilation di Electric Duo Project; il risultato ci ha entusiasmato a tal punto da voler iniziare un nuovo progetto che includesse Giulia e un quarto elemento che abbiamo individuato in Paolo, nostro amico con il quale abbiamo condiviso molte date e tour con il suo progetto solista The Star Pillow, e che ha prodotto il primo disco dei Tristan da Cunha, “Soçobrar”. Provenendo da posti diversi (io e Luca da Pavia, Giulia da Treviso e Paolo da Carrara) abbiamo iniziato mandandoci registrazioni e bozze a distanza. Nel Giugno del 2021 abbiamo finalmente avuto modo di trovarci a provare insieme ed il risultato è stato umanamente e artisticamente enorme, perché oltre ad una band è nata anche una fratellanza fra di noi.
La scelta del nome ha in qualche modo a che fare con quel posto ricco di fascino e mistero che è il Bosco Sacro di Bomarzo? Paolo: Cercavamo un nome che richiamasse immediatamente tutti i connotati del progetto, la sacralità, circolarità, profondità, essere selvaggio, misticismo ed in generale la forte connessione con la Natura a cui, su diversi piani, ogni specie appartiene e ritorna, in un ciclo eterno. Il nome Bosco racchiudeva tutto questo e dopo diverse proposte ho suggerito un “Sacro”. Bosco Sacro descrive perfettamente la nostra essenza e la profondità del nostro suono. Francesco: Inizialmente il Bosco Sacro era semplicemente il concetto attorno al quale fondare la nostra poetica, ma lo abbiamo mantenuto come nome definitivo dato che incarna in maniera precisa i connotati di circolarità, di scambio dei nostri linguaggi espressivi, di stupore e meraviglia, di una sacralità liquida e indefinita come un miraggio.
La band nasce nel 2020, il disco viene inciso nel 2021: come mai abbiamo dovuto attendere il 2023 per la sua pubblicazione? Paolo: Nel 2021 nasce il nostro sodalizio scambiandoci tracce e molte molte suggestioni. Nella stessa estate ci incontriamo una prima volta per suonare tutto il giorno in uno studio. Poco dopo una seconda volta, per registrare l’album nello stesso studio. Quindi ad inizio 2022 con i mix dell’album in mano abbiamo iniziato la parte difficile, la ricerca di una label. Incontriamo ben due proposte e accettiamo quella di Avantgarde Music intorno a giugno 2022. Aggiungi i tempi tecnici e della label con le sue release già pianificate ed ecco che si arriva alla data di release il 10 Febbraio 2023.
Provenite tutti da band attive e con una certa storia alle spalle, ritenete che i Bosco Sacro siano un’entità che è la somma delle vostre esperienze musicali o che sia, invece, qualcosa che se ne distacca completamente per dar vita a un sound indipendente da ciò che avete fatto in passato? Luca: Credo che il sound di Bosco Sacro si porti indiscutibilmente appresso qualcosa di Tristan da Cunha, Julinko e The Star Pillow perché sono ormai da anni i nostri progetti musicali individuali. Per Paolo e Giulia i loro alter ego, per me e Francesco “la nostra isola” in cui tutto sfogare e affidare a suon di drone: fanno parte di noi. Quindi per questo motivo penso che Bosco Sacro sia la somma di tutte queste esperienze vissute da noi, di tutte le nostre influenze che messe assieme danno vita a un qualcosa di nuovo mai sentito prima. Penso, infine, che la nostra musica non sia una naturale evoluzione da abbinare ai nostri singoli generi musicali ma una musica nata dalla semplice voglia di sperimentare all’interno di questo nuovo progetto/percorso che noi quattro abbiamo deciso di creare insieme, proprio per poter dar vita al “nuovo”. Paolo: In Bosco Sacro sto esplorando e lavorando esclusivamente in un preciso range di frequenze (quelle più gravi) ed in una modalità / approccio compositiva ed esecutiva diametralmente opposta rispetto a quella degli altri miei progetti. Questo, sommato al lavoro di tutti gli altri, crea inevitabilmente un nuovo composto sonoro, pur portando in esso le nostre esperienze pregresse. Francesco: Personalmente, come chitarrista, ho cercato di lavorare diversamente rispetto al solito, concentrandomi principalmente sull’arrangiamento melodico, dialogando e intrecciandomi con la voce di Giulia, cercando una fusione armonica. E’ un esercizio per me del tutto nuovo, provenendo da esperienze quasi esclusivamente strumentali. Il risultato generale di Bosco Sacro per me è un divenire.
Non ho i testi, ma mi par di capire che il disco sia permeato da un spirito panteista ed ecologista, è così? Giulia: La nostra musica è contemplazione unita ad espressione, riflesso di qualcosa che sentiamo e vediamo. Non c’è una presa di posizione sul piano spirituale, sociale o politico che unisca i nostri intenti. L’istinto a cui rispondiamo è quello di liberare qualche scintilla della vastità che ci abita e ci percorre in ogni momento, legando il nostro spazio più intimo all’ ”altro”, all’ ”esterno”, agli altri corpi organici ed elementari che abitano questo mondo in cui viviamo, anche all’immateriale che non si può vedere. L’osservazione della natura e l’amore non sofisticato per quest’ultima, sono la base per questo movimento: i testi che ho scritto fanno riferimento ad esperienze vissute a stretto contatto con essa ed hanno origine dalla convinzione che l’uomo non sia una creatura qualitativamente e cognitivamente superiore a piante, pietre, acque. Dunque più che uno spirito panteista lo definirei pan-psichico, e più che uno spirito ecologista lo chiamerei semplicemente, naturalista.
Mi soffermerei sull’uso della lingua, per esempio la tracklist contiene titoli in inglese, italiano e francese, a cosa è dovuta questa scelta? Giulia: Da tempo m’interrogo sulla possibilità di liberare il mio canto dal vincolo della parola, dalla logica del significato, per far fiorire il suo afflato più essenziale, quello di essere aria, suono e nient’altro: puro innalzamento, puro abbandono. Inizialmente per Bosco Sacro avevo pensato che potesse essere questa la via da percorrere, poi nella pratica mi sono ritrovata a muovere le labbra e i muscoli del diaframma anche per descrivere qualcosa, veicolare dei nuclei di immagini che potessero essere comprensibili ai molti. Tutti i testi sono scritti in inglese, tranne uno,“Les ArbresRampants”, un brano nato e composto quasi ad impromptu che esigeva la musicalità del francese e non un’altra, un fattore che ha anche trasformato, per quell’episodio, il mio modo di cantare. Queste presenze linguistiche sommate al nome del gruppo ed omonima title-track “Bosco Sacro”, mi hanno riportata – seppur per via opposta – verso l’istinto iniziale che avevo avvertito, quello di sconfinare rispetto ad un codice linguistico fisso, andando verso la creazione di uno spazio che potesse ospitare una piccola fusione di impressioni e risonanze, provenienti da realtà metafisiche diverse.
Il titolo, “Gem”, a cosa fa riferimento? Giulia: Avendo creato un ambiente linguistico misto (pur sempre umilmente restando nella nostra micro-area di ascendenza latino-greca), “Gem” è una parola che irradia due significati e due immagini diverse in lingue distinte. In inglese, il termine derivante dall’antico francese indica solamente la pietra preziosa, mentre sappiamo che in latino, come anche in italiano corrente, con “gemma” si indica il primo germoglio di una pianta, oltre che un prezioso oggetto minerale. Questa ambivalenza di allusione viene rappresentata dall’immagine di copertina creata da Carlo Veneziano, dove viene suggerito anche un legame simbolico ed alchemico tra i due: scavando ancora più a fondo, l’etimologia greca della radice della parola ci rimanda a significati come “essere pieno/a”, “generare”, “ produrre”… (ecc). Per noi, “Gem” è una pietra preziosa che si è materializzata nella nostra strada a partire da un piccolo germoglio, un’intuizione semplice e proliferante, che ci porta a viaggiare insieme in un percorso fatto di scie, gallerie, reticoli e riflessi… una dimensione sonora che equivale a quella dell’anima.
Porterete dal vivo “Gem”? E secondo voi quale sarebbe la location migliore per ospitare i vostri show? Paolo: Quella del live è una dimensione sacra. Bosco Sacro trova in essa il suo habitat naturale e si sviluppa, anche su disco, proprio grazie all’intesa come live band. Sebbene di fatto non avessimo mai suonato insieme, è come se lo avessimo sempre fatto, e magari è proprio così. Anche se ognuno di noi proviene da rispettivi progetti ed esperienze, Bosco Sacro è di fatto una nuova band e come tale si è scontrata con la solita indifferenza degli “addetti ai lavori”, mentre ha ricevuto fin da subito grande supporto ed interesse dalla gente della nostra scena e questo non può che renderci veramente felici e motivati. Curo da sempre la gestione dei miei tour e concerti, e devo riconoscere che ho visto un imborghesimento ingiustificabile di molti booking: prima erano parte di uno stesso giro sopra, sotto, dietro il palco alimentandone curiosità, facendosi promotori di stimoli e contaminazioni, adesso hanno creato un divario, cedendo alla tentazione di lavorare con artisti di fama o di certi giri esclusivi. Stesso discorso vale anche per Festival e, peggio ancora, per molti promoter. Vorrei chiedere a questa gente cosa farebbe adesso se gli spazi di 10, 15 anni fa avessero ragionato allo stesso loro modo di adesso. Detto ciò, con non poca fatica, abbiamo chiuso in totale autonomia un primo tour italiano e, a seguire, un primo tour europeo. La location migliore è quella in cui riuscire ad esprimere pienamente il nostro suono insieme ad un pubblico disposto a lasciarsi andare completamente insieme a noi.
Cosa vi aspettate da questo 2023 segnato dal vostro esordio discografico? Paolo: Ci auguriamo di poter suonare “Gem” ovunque sia possibile farlo. Ringraziamo la nostra label, Avantgarde Music, composta da grandi professionisti e persone coraggiose che amano quello che fanno e creano nuovi stimoli: esattamente l’opposto delle persone di cui parlavo prima.
Ospiti di Mirella Catena a Overthewall, gli Apogod Project– Patrick Fisichellae Giovanni Puliafito – per parlare dell’album “A Prog Bible”.
Grazie di essere qui su Overthewall, vi chiedo subito come è iniziata la vostra carriera musicale? Giovanni: Innanzitutto vi ringrazio per l’opportunità che ci avete dato, di presentare il nostro disco e di spiegarne la genesi e lo sviluppo. Sia io che Patrick abbiamo iniziato la nostra carriera da molto prima rispetto al concepimento di questo album e la formazione di questo duo. Ho iniziato all’età di nove 9 lo studio del pianoforte, conseguendo il Diploma in Conservatorio. A 18 anni ho iniziato anche a studiare Composizione sempre in Conservatorio, conseguendo anche il Diploma. Mi sono avvicinato al mondo della musica per film, studiando con il Maestro Luis Bacalov all’Accademia Chigiana di Siena. Sono attualmente Docente di Teoria Analisi e Composizione presso il Liceo Musicale di Messina, ho anche insegnato Composizione in Conservatorio sempre a Messina, la mia città. Da diversi anni mi occupo di composizione di colonne sonore, con diverse collaborazioni con produzioni indipendenti. Prodotti che hanno vinto concorsi, andati in onda su canali anche internazionali. Mi occupo anche di arrangiamenti per diversi generi musicali e quasi sempre in collaborazione con Patrick. Io e Patrick coltiviamo da oltre venti anni un’ amicizia fraterna, fatta di stima e affetto, che poi è scaturita anche nella nostra prima importante collaborazione, ApoGod Project – A Prog Bible. Patrick: Mi unisco al “grazie” di Giovanni. Io ho iniziato studiando chitarra, prima da autodidatta e poi seguendo lezioni da privato ed in alcune delle scuole più note in giro per l’Italia. dal 1999 insegno chitarra per varie strutture ed istituzioni private e dal 2009 per i corsi Yamaha Music, per i quali sono esaminatore internazionale dal 2013. Da tre anni insegno chitarra e produzione audio anche per i corsi RSL Rockschool Of London. In ambito audio e registrazione la passione è nata da piccolissimo. Nel biennio 2001/02 ho conseguito il Diploma Tecnico Superiore come “Esperto in Tecnologie Multimediali” presso la facoltà di Ingegneria di Messina, con una tesi sull’audio digitale. Mi sono occupato negli anni di tanti spettacoli teatrali, anche di rilievo nazionale, per i quali ho curato la scrittura delle musiche, il sound design, la fonica e l’esecuzione dal vivo anche in tournée in giro per lo stivale. Ho prodotto album di artisti in ambito pop, rock, metal, orchestre sinfoniche, gruppi corali, spesso lavorando, come già lui anticipava, proprio insieme a Giovanni.
Siete autori di una delle più interessanti produzioni musicali degli ultimi anni, com’è nata l’idea del progetto Apogod? Giovanni: L’idea nasce nel lontano 2003 da Patrick che è da sempre appassionato di storia delle religioni. Una sera mi disse che il suo desiderio era quello di musicare la storia più appassionante e cruenta di tutti i tempi: l’Antico Testamento. Iniziammo a parlarne ma purtroppo per tanti impegni a cui la vita ci sottopone, ritardammo la lavorazione dell’album per tanti anni fino al 2018. Quella sera del 4 luglio 2018, alla festa del mio compleanno, un nostro caro amico (Marco Giliberto, il nostro fotografo) ci disse: “Avete musicato tanta roba, scritto tanti brani per altri musicisti, avete tutto il necessario e tutte le potenzialità, perché non lavorate a qualcosa di completamente vostro”? Quella notte stessa iniziammo seriamente a lavorare a quella vecchia idea conservata nel cassetto. Dopo 4 anni, il 28 luglio 2022 lo abbiamo presentato ufficialmente, appoggiati dalla casa discografica Metalzone Italia che ci supporta egregiamente in questa nostra impresa. Patrick: Aggiungo che l’idea è dovuta anche al fatto che Giovanni aveva già messo in musica all’inizio del 2000 (insieme all’amico chitarrista Giorgio Napolitani) la “Divina Commedia” ed aveva musicato anche molti passi dell'”Odissea” ( qualche anno dopo si sarebbe cimentato anche con l'”Eneide”). Io venivo da lunghe letture su Zarathustra ed il mazdeismo ed avevo preso spunto da alcuni passi dell’Avesta (libro sacro del mazdeismo) per comporre svariati brani. Mettere in musica i racconti sul dio di Abramo sarebbe stata la naturale prosecuzione…
Quali sono stati i tempi di realizzazione di “A Prog Bible“ e come si è svolto il processo di composizione? Giovanni: Il processo di scrittura è stato complesso e lungo 4 anni. Abbiamo iniziato delineando una struttura dell’album, formato da 10 brani, inizialmente strumentali, ma in corso d’opera abbiamo ritenuto di inserire un cantante in 5 brani. Abbiamo scritto tutto noi due, Patrick ha curato oltre alla composizione dei brani, i testi, le chitarre e i bassi che lui stesso ha registrato e tutta la produzione audio, nei suoi Gargamella’s Studios. Io oltre alla composizione, ho curato l tastiere, synth, tutte le orchestrazioni e la programmazione della batteria che poi abbiamo affidato al nostro batterista che ha registrato. Insieme io e Patrick abbiamo scritto le melodie vocali. Un processo lungo, impegnativo, ma anche emozionante, abbiamo creato la musica che a noi piace, con cui siamo cresciuti. Insieme ai miei studi classici in conservatorio, dall’età di circa 13 anni ho sempre ascoltato metal, con tutte le sue ramificazioni e sottogeneri. Ci siamo lasciati ispirare, emozionare ed anche turbare dalla lettura del testo stesso, immaginando la nostra musica come se fosse la colonna sonora di questa grande storia. Patrick: Vorrei però puntualizzare che nel momento in cui ci accingevamo alla scrittura di un brano avevamo già in mente l’argomento che avremmo trattato, tanto che quasi tutti i titoli che sarebbero poi diventati quelli definitivi erano già presenti e pronti anche a brani appena iniziati. Po la fase di editing, mix e master è stata un incubo. La massa strumentale era così imponente che sono dovuto scendere spesso a compromessi per tentare di far sentire ogni linea. In alcuni brani mi sono trovato a lavorare su oltre cento tracce.
L’opera vanta la partecipazione di musicisti che hanno contribuito alla sua realizzazione. Ci parlate di queste collaborazioni? Giovanni: Con noi hanno collaborato numerosi musicisti, di cui siamo estremamente soddisfatti perché hanno sposato la nostra causa, appassionandosi fortemente a questo ambizioso progetto. Salvo Cappellano, ha cantato sui brani “Cyber Abraham and the Massacre of Sodom”, “Egyptian Plagues”, “Promised Land (A prayer of Moses)” e “The Divine Code”. Il “misterioso” Azathoth ha cantato invece “The Great Flood of Blood”. Salvo Pennisi ha registrato tutte le batterie, Silvia Bruccini ha realizzato i cori sul brano Promised Land, Francesco Aiello ha suonato le percussioni nell’intro di “Egyptian Plagues” e “Gabriels” ci ha regalato un bellissimo assolo nel brano “The Divine Code”. Tutti musicisti che hanno un passato musicale alle spalle di un certo rilievo, fra studi, collaborazioni ed esperienze sia live che incisioni. Alcuni di loro provengono anche da generi musicali diversi, come Silvia Bruccini, cantante jazz, pop, fusion e Francesco Aiello, specializzato in percussioni latine e ritmi sudamericani.
L’Artwork della copertina è stato affidato all’artista messinese Domenico Puzzolo, cosa rappresenta? Giovanni: Domenico Puzzolo è un fantastico artista messinese, anche nostro caro amico. Quando iniziammo a scrivere i brani, ancora in fase embrionale, inviammo alcune demo insieme ad una spiegazione dell’album a Domenico, lasciandolo assolutamente libero di ispirarsi e rappresentare le sue idee ed emozioni. Dopo pochissimo tempo ci ha consegnato la copertina, realizzata a mano con la tecnica della china su un foglio formato A3 circa, ed il nostro logo. Eravamo entusiasti! La copertina rappresenta Salomè con la testa di San Giovanni, un’idea scaturita dall’artista che simboleggia le proprie emozioni derivate dalla narrazione, dalla nostra musica e (forse) un collegamento tra questo album ed una futura continuazione… Patrick: Domenico è un grandissimo amico ed uno straordinario artista. Ci ha fatto un regalo dal valore incommensurabile per “A Prog Bible”!
Siete già al lavoro su altre opere che riguardano gli Apogod? Qualche anticipazione per i nostri ascoltatori? Giovanni: Gli Apogod Project avranno sicuramente un seguito. Io e Patrick stiamo già lavorando al nuovo disco, che non riguarderà la “Bibbia” (almeno per il momento), posso solo dire che sarà sempre ispirato da argomenti culturali e letterari. Patrick: Shhh! Non dire troppo, non dire troppo che scema l’hype!
Dove i nostri ascoltatori possono seguirvi? Giovanni: Potete seguirci sulla nostra pagina Facebook ed instagram e ascoltarci praticamente ovunque, Spotify, Youtube e tutti i social cercando ApoGod Project – A prog Bible.
Grazie di essere intervenuti su Overthewall! Giovanni: Grazie a tutti voi! Patrick: Grazie a te Mirella ed a tutti gli amici di Overthewall!
Ascolta qui l’audio completo dell’intervista andata in onda il giorno 23 Gennaio 2023.
A tre anni dall’uscita del suo primo album, Bruno Pitruzzella pubblica “Respawning” (Autoprodotto, 2022). Dalle ovattate profondità marine presenti nel precedente lavoro, la chitarra acustica si estende ad atmosfere più elettronicamente astrali in questo EP, secondo volume della discografia del compositore palermitano. Scopriamone di più nella nostra intervista.
Ascoltando Shift, prima traccia di “Respawning”, sembra di immergersi in un lavoro di musica elettronica. Come sei riuscito ad ottenere questi suoni usando esclusivamente la chitarra acustica? “Shift” è stato il primo tra i nuovi brani a vedere la luce. L’idea di suono viene da lunghe sessioni di prove casalinghe con un multieffetto “nuovo” per me, l’HX Effects della line6, che ormai è parte imprescindibile del live set. Nello specifico qui è il frequency shifter a modificare il segnale della chitarra acustica, in modo da alterare totalmente anche l’altezza dei suoni oltre che il timbro; le note “suonate” non corrispondono più a quelle reali emesse dall’impianto e questo è stato di enorme stimolo per la creazione di qualcosa di nuovo. Poi loop station, delay e riverberi hanno fatto il resto.
Dalla seconda traccia emergono più chiaramente gli echi del tuo primo album, “Spawning”. In “Bees”, terza canzone in scaletta, è ancora più in primo piano la chitarra, accompagnata anche da violino, basso e mandolino. La melodia in particolare è molto accattivante, da dove è saltata fuori questa canzone? “Bees” in origine era un pezzo per chitarra e violino che avevo scritto pensando nello specifico a Francesco Incandela, il bravissimo violinista che lo ha eseguito, con cui abbiamo condiviso il palco in svariate occasioni negli ultimi anni. Per cui la melodia è pensata proprio per uno strumento diverso, con maggiori possibilità espressivo/melodiche rispetto alla chitarra. Ma come spesso avviene tutto è nato dalla base, potremmo dire dal riff iniziale della chitarra, sempre accordata in modo alternativo, coi bassi più gravi rispetto all’accordatura standard. E poi la forma definitiva è stata il quartetto con basso elettrico (Luca La Russa) e mandolino (Martino Giordano), come fosse un quartetto di musica da camera. Il pezzo è registrato infatti “live” in studio, senza sovraincisioni (grazie anche all’abilità di Luca Rinaudo dello Zeit studio di Palermo).
Sulla copertina di “Respawning” c’è una fenice, rappresentata come la schermata iniziale di un videogioco del secolo scorso. Perché hai scelto questo simbolo e questa tecnica grafica? L’artwork è ad opera del grafico Antonio Cusimano, che aveva curato anche le grafiche del primo album. Io mi sono limitato a spiegare il concetto di base e lui ha trovato questa forma finale con la fenice “pixellata”. L’idea di fondo rimanda proprio ai vecchi videogiochi 8 bit. Infatti il titolo dell’EP “Respawning” è tratto dal linguaggio videoludico e significa “resurrezione”, riapparizione di un personaggio, del “cattivo” o del protagonista, dopo la sua morte o distruzione. Chi ha qualche trascorso in compagnia delle gloriose console capirà cosa voglio dire… Ma in questo caso c’era un nesso anche col suono dell’EP, che come detto in precedenza è in certi casi più “elettronico”. La fenice incarna alla perfezione il concetto di rinascita e ha anche a che fare con la riapertura del progetto di solo chitarra dopo anni dal primo album, che si chiamava appunto solo “Spawning”.
Il video di “Depicted“, seconda traccia dell’EP, esalta la vocazione da colonna sonora del tuo stile. Infatti si tratta di un vero e proprio cortometraggio, realizzato con varie tecniche 3D da Basiricò Studio. L’idea della trama è tua oppure ti sei affidato alla fantasia degli autori? Esatto, il video di “Depicted” si può definire cortometraggio a tutti gli effetti, ed è stato realizzato quasi del tutto con la tecnica di animazione dello stop motion. L’idea di trama è totalmente frutto della fantasia dei bravissimi creatori di Basaricò Studio, Nicolò Cuccì e Salvo Di Paola, ai quali mi sono totalmente affidato, direi di sì! E’ un “prodotto” cui siamo molto legati: ha avuto una gestazione lunghissima, è stato frutto di grandi sacrifici e impegno da parte di tutti e il risultato finale è stato molto soddisfacente. Ovviamente devo citare anche Gaia e Cecilia Picciotto e Silvia Salomone che hanno lavorato ai puppets e alle ambientazioni. Personalmente sono da sempre grande appassionato di animazione e la tecnica dello stop motion mi affascina moltissimo. Come hai detto bene tu, volevo anche che venisse fuori chiaramente questa vocazione da colonna sonora, destinazione ideale per questo tipo di musica, dal mio punto di vista.
Hai suonato tutte le tracce con un’accordatura diversa da quella più comune. Tecnicamente le corde a vuoto ripetono due volte, partendo dalla corda “più bassa”, le stesse tre note: re, sol, do, sol, do, re. Cosa ti permette di fare questa accordatura, che invece non potresti ottenere con quella standard (mi, la, re, sol, si, mi)? Questa accordatura è quasi “aperta” in realtà, basta usare il solo indice della mano sinistra per trovarsi praticamente in do, maggiore o minore che sia. Per cui gravita fortemente su do, anche se il basso è un Re, e mi consente di avere delle linee melodiche sulle corde a vuoto che sarebbero altrimenti impossibili con accordatura standard. Un esempio è il brano “Salpa” del primo album, pressoché ineseguibile se non così.
Ah, ma ne avevamo già discusso… Rileggendo la nostra precedente intervista, mi avevi detto che con questa accordatura “vengono a mancare gli automatismi delle scale… Ma è proprio quello che serve per trovare soluzioni sempre nuove”. Nel frattempo hai assimilato questa accordatura e sei passato a sperimentarne altre? La mancanza di punti di riferimento, soprattutto in relazione alle tipiche formule scalari su cui ci blocchiamo noi chitarristi, di fatto spalanca le porte all’immaginazione e alla sorpresa dal punto di vista creativo, improvvisativo e compositivo. Ovviamente il rovescio della medaglia è la difficoltà di suonare tutto così, perché bisogna re-imparare alcune cose. Sicuramente adesso mi sento più a mio agio rispetto a prima e gli automatismi iniziano a esserci ma non credo che dominerò mai totalmente questo schema. Per cui sì faccio qualche altro esperimento ma di base suono così per il momento. Ovviamente va sottolineato come non sia chissà quale nuova trovata usare le accordature alternative, lo si fa da secoli ovunque e spesso con risultati interessanti. Semplicemente questa si addiceva molto a quello che volevo fare e non ho mai più smesso di usarla. Mi è stata “insegnata” dal mio grande amico Giancarlo Romeo, che ha anche donato uno dei suoi pezzi per il primo album.
Come presenti la tua musica dal vivo? Da solo o in gruppo? Sei fedele alle versioni in studio o preferisci arrangiare in modo diverso le composizioni? Di solito il mio è un set solitario, un solo chitarra con multieffetti e loop station. In occasioni particolari eseguiamo per esempio “Bees” in quartetto così come nell’EP, ma ho un arrangiamento anche in solo che uso dal vivo. Per il resto ai concerti mi piace moltissimo improvvisare e spesso faccio pezzi creati per l’occasione o letteralmente composti “sul palco”, ma in realtà le versioni originali in studio sono state registrate “live”, nel senso che sono esecuzioni “filate” dall’inizio alla fine, coi loop creati in diretta. Abbiamo aggiunto giusto qualche raddoppio qua e là in fase di registrazione, ma la resa dal vivo è pressoché identica a quella della rec.
Stai già lavorando al prossimo capitolo della tua discografia? Ci sono già tre o quattro pezzi nuovi che a volte eseguo live, ma non li sto ancora sistemando con l’obiettivo di entrare in studio. Sicuramente questo passaggio sarà inevitabile ma voglio maturare ancora qualcosa di diverso prima di una nuova produzione. Nel frattempo mi dedico ai live…
“In The Heart Of The City” è il nuovo EP dei Flying Disk, trio heavy rock piemontese già con due album all’attivo,“Circling Further Down” del 2014 e “Urgency” del 2018. Anticipato dai singoli “Connections” e “Wasted”, l’EP è uscito lo scorso 28 ottobre per quattro etichette indipendenti – la francese Araki Records, la statunitense Foribidden Place Rec, la svizzera Urgence Disk e l’italiana Karma Conspiracy – con il mastering del lavoro curato da Jonathan Nuñez dei mitici Torche. Il risultato sono quattro tracce di heavy rock con influenze stoner, punk, emo e alternative, cantate rigorosamente in inglese come nella migliore tradizione della band. A parlarcene sono gli stessi ragazzi:
Ciao ragazzi e benvenuti sul Raglio del Mulo, la vostra terza fatica discografica “In the Heart of City” è fuori ormai da qualche mese, com’è stata l’accoglienza di critica e pubblico? Ciao, intanto grazie, il disco per ora sta andando bene, abbiamo fatto qualche mese fa un tour che ci ha portati a suonare in Francia, Germania, Svizzera, Milano, Roma e varie altre città, a fine gennaio ritorneremo in tour fino a questa estate!
Ho trovato il vostro suono abbastanza poliedrico, frutto di tante influenze – emo, punk, stoner – ma senza legarsi ad una etichetta precisa, come siete arrivati a questa sintesi nella vostra musica? Siamo partiti nel 2010 facendo cover di gruppi punk, poi negli anni ci siamo appassionati alla scena locale della Canalese Noise (Cani Sciorrì, Dead Elephant, Ruggine) e tutti i gruppi da cui di conseguenza prendevano spunto. Per un po’ abbiamo cercato avvicinarci a quel suono, poi negli anni abbiamo trovato una nostra via più personale.
In che maniera siete entrati in contatto con Jonathan Nunez dei Torche che ha curato il mastering del disco? Apprezziamo parecchio i lavori di Jonathan, lo abbiamo contattato tramite Instagram all’inizio, lui è stato super disponibile, ci abbiamo messo un attimo a scegliere il master definitivo ma alla fine è uscito veramente bomba.
Dallo studio ai concerti il passaggio non è dei più semplici, come state promuovendo in giro l’EP? Da ormai più di dieci anni siamo tutti coinvolti nell’organizzazione di concerti e andiamo spesso a sentire le band di zona e non, abbiamo creato una rete di amicizie abbastanza forte per cui riusciamo sempre a suonare, chiaramente è difficile entrare in circuiti dove ci vogliono certe strutture alle spalle come agenzie, manager, label ecc. Sicuramente all’estero stiamo avendo più riscontro che in Italia questo purtroppo è risaputo tra tutte le band che hanno la possibilità di suonare fuori dal proprio paese.
Parlatemi dei testi, sono frutto di un lavoro di gruppo o del singolo? I testi li scrivo io (Simone) e spesso mi faccio dare una mano a correggerli e migliorarli, siamo un gruppo di amici per cui spesso in studio ci confrontiamo e aiutiamo, cerco di rappresentare quello che vive un ragazzo in una provincia come Cuneo e di tutto quello che comporta, per quanto ci sia benessere c’è una rassegnazione preoccupante, non è una città così facile in cui vivere soprattutto se hai passioni/sogni come la musica.
Per “In the Heart of City” vi siete affidati a quattro diverse etichette, in che maniera si è creata questa collaborazione allargata? Per coprire i costi di stampa abbiamo dovuto tirare in ballo diverse realtà che si sono messe in gioco per mettere alla luce il vinile, ne abbiamo ancora qualche copia e siamo felici di come è uscito fuori, è un vero gioiellino.
Quali sono i vostri prossimi progetti? Dopo questa estate ci metteremo al lavoro sul disco nuovo, che sarà un LP completo, nel frattempo faremo ancora uscire fuori del materiale inedito e ci piacerebbe rielaborare delle canzoni in versione acustica.
Gli stralci di violenza nati dalla mente di Anthony Burgess, e magistralmente riportati su celluloide da Stanley Kubrick, da più sessant’anni alimentano i nostri incubi metropolitani. I Necrodeath,che negli incubi ci sguazzano da sempre, non potevano esimersi dal rileggere a proprio modo “Arancia meccanica”, così hanno dato alle stampe un disco ruvido, violento e senza compromessi dall’emblematico titolo “Singin’ in the Pain” (Time to Kill Records \ Anubi Press). Peso e Flegias ci hanno raccontato l’ultima scorribanda della propria gang…
Bentrovati ragazzi, la nostra ultima chiacchierata risale ai tempi dell’EP “Neraka” nel 2020. Dopodiché avete pubblicato nel marzo del 2022 il primo singolo da “Singin’ in the Pain”, “Transformer Treatment / Come to the Sabbath”. Come mai è passato quasi un anno tra quell’uscita e l’album definitivo? Peso: In effetti forse neanche noi ce ne siamo resi conto che è passato così tanto tempo, un po’ perché siamo una band libera e insieme alla nostra etichetta avevamo comunque deciso di far passare l’estate e un po’ perché ci sono stati dei problemi di copyright che abbiamo dovuto gestire e alla fine l’uscita è stata ridefinita per il 13 gennaio del 2023. Ora finalmente è on line e disponibile nelle versioni fisiche cd, vinile e cassetta.
Come è nata l’idea di scrivere un concept album dedicato a quel capolavoro che è “Arancia meccanica”? Flegias: L’idea è nata da Peso, dopo un periodo in cui è andato in fissa con il film per parecchio tempo. Se l’è assimilato in tutte le sue sfumature e aveva chiaramente in testa la struttura dell’album. Quando ce l’ha proposto ne siamo rimasti tutti entusiasti. Come si fa a non amare quel film? Ovviamente l’argomento principale è la violenza che ben si sposa con il genere che suoniamo… tutto filava perfettamente.
Siete partiti dal libro o dal film per creare il canovaccio su cui si regge il disco? Flegias: Dal film sicuramente.
Il dover seguire una linea tracciata da un altro autore, cambia il modo di lavorare in studio oppure alla fine la fase compositiva in sé trascenda da quella che è la trama? Flegias: A parte alcuni spunti dettati dalla forma puramente lirica, ci siamo mossi liberamente come facciamo di solito. Il fatto che le tematiche riguardino questo o quell’altro argomento non influenza il nostro stile e la nostra musica.
Vi crea un po’ di ansia il sapere che là fuori ci sono fan sfegatati di “Arancia meccanica” pronti a vivisezionare il vostro album per certificarne l’adeguatezza all’opera originale? Flegias: No. Ben vengano le critiche ma se riguardano l’argomento trattato soprassediamo. Come ti dicevo prima il concept è solo un pretesto per fare la nostra musica. L’ansia, se così vogliamo chiamarla, piuttosto può riguardare l’aspetto puramente musicale dell’intero album.
A proposito di tributi, anni fa siete stati voi oggetto di un tribute album, come avete trovato quelle reinterpretazioni dei vostri brani? Flegias: Tutto è stato molto gratificante. Ci ha fatto sentire più importanti di quello che siamo e saremo eternamente grati a chi ci ha voluto omaggiare. Quando tu conosci alla perfezione i tuoi pezzi, pensi che possano esistere solo così, invece grazie a questo tributo ho aperto gli occhi a nuove chiavi di lettura dei Necrodeath.
Come è stato lavorare con con Tony Dolan dei Venom Inc. e con Eric Forrest degli E-Force\Voivod? Flegias: Grandioso! Hanno fatto un egregio lavoro che è andato oltre qualsiasi aspettativa. Tony lo avevamo già collaudato con il nostro singolo “Headhunting”, insieme a Mantas ma qui avevamo bisogno delle sue doti di attore ed è stato veramente formidabile. Con Eric invece avevamo già avuto modo di sentirlo sia in sede live che sul CD tributo poc’anzi menzionato; ha una voce formidabile che mi fa provare non poca invidia ah ah ah…
Copertina censurata: vostra scelta per evitare guai oppure vi è stata imposta? Peso: La copertina censurata è stata una nostra scelta più che altro per rendere omaggio a Kubrick che ha dovuto subire la censura forzata in Inghilterra per oltre 20 anni del film. Da un altro punto di vista quando abbiamo proposto l’idea alla Time to Kill, hanno accettato volentieri, anche perché forse la cover vera è un po’ forte… anche se a mio avviso è molto ironica in realtà, ma qualche distributore avrebbe potuto storcere il naso.
Siete pronti a portare il disco dal vivo? Lo proporrete nella sua interezza o solo dei brani? Peso: Non lo so, ci stiamo pensando. Devo dire che non possiamo tralasciare certi pezzi di “Into the Macabre” o di “Fragments of Insanity”, senza contare anche l’importanza che ha per noi “Mater of All Evil”, l’album della reunion con l’ingresso di Flegias nella band. Con oltre 100 canzoni scritte in questi quasi 40 anni la scaletta è sempre dura da decidere, ma alla fine sappiamo che non potremmo mai rinunciare a pezzi come “Mater Tenebrarum”, per farti un esempio…
I Godwatt ci hanno messo un po’ – a causa di fattori interni, cambio di line-up, ed esterni, restrizioni covid in primis – per tornare tra noi. Ma quando l’hanno, l’hanno fatto a modo loro, con una vagonata di riff pensanti e oscuri. E’ toccato a Moris Fosco il compito di presentarci il nuovo album “Vol III” (Time to Kill Records \ Anubi Press).
Benvenuto Moris, ai tempi della pubblicazione di “Necropolis”, vi chiesi da quale lavoro dovessimo iniziare a contare i vostri dischi, dato che in precedenza vi chiamavate Godwatt Redemption e avevate testi inglese, e tu mi rispondesti: “I nostri album dobbiamo contarli dal demo precedente a “The Hard Ride…””. Come mi spieghi, allora, quel “Vol. III” che dà il nome alla vostra ultima fatica? Intanto grazie per averci di nuovo cercato per questa intervista! “Vol. III” indica semplicemente il terzo lavoro ufficiale della band uscito per una label, poiché tutti i dischi precedenti a “L’ultimo sole” del 2015 sono autoprodotti.
Mi pare che in generale “Vol. III” riprenda una certa oscurità che in parte avevate “diluito” in “Necropolis”, è così? Sinceramente io trovo molto oscuri, anche se in maniera diversa, tutti i nostri ultimi tre dischi soprattutto se paragonati ai nostri primi lavori autoprodotti dove forse l’impronta stoner era un po’ più marcata. Devo ammettere inoltre, che ogni nostro disco, anche se può essere considerato stoner doom come genere, abbia caratteristiche diverse l’uno dall’altro, sia per la composizione che per la produzione in generale. Ogni disco ha un suono, una sua caratteristica, un suo groove, anche se l’impronta Godwatt si riconosce comunque.
Il vostro terzetto non è mai cambiato, almeno sino ai giorni successivi alla pubblicazione di “Necropolis”. Come sono andate le cose? Purtroppo è proprio così poiché nel 2018, dopo pochi mesi dall’uscita di “Necropolis”, il nostro batterista storico Andrea Vozza per motivi diversi decise di lasciare la band. All’inizio non fu facile, dopo circa 12 anni di convivenza, cercare un altro batterista, sia perché eravamo e siamo ancora grandi amici e sia perché avevamo ormai un’intesa collaudatissima da anni sul palco. Questa cosa non ci permise di promuovere nella maniera idonea il disco poiché dovemmo fermarci e cercare un nuovo batterista. Dopo qualche avvicendamento, comunque, nel settembre del 2019, quindi circa un anno dopo, abbiamo ritrovato la quadratura del cerchio con l’ingresso in pianta stabile di Jacopo Granieri. Anche se proveniente da ascolti e esperienze diverse, nel giro di poco tempo è riuscito ad entrare nei meccanismi della band, tanto che pochi mesi dopo, ci siamo catapultati in studio per iniziare le registrazioni di “Vol. III”.
Il disco si apre con “Signora morte”, che se non erro è stato anche il primo singolo estratto da “Vol. III”, credi che sia il brano che oggi vi rappresenti al meglio? Sicuramente è uno dei brani del nuovo album che noi preferiamo suonare dal vivo e comunque credo ci rappresenti anche bene, dato che ha una parte heavy iniziale e una parte stoner-doom finale che in definitiva sono un po’ le nostre caratteristiche principali.
Tra le vostre due ultime pubblicazioni sono scoppiate una pandemia e una guerra sul territorio Europeo. Nei vostri testi avete sempre trattato temi come la morte e la disperazione, ma questi anni particolarmente ricchi di eventi nefasti hanno in qualche modo cambiato la vostra percezione della morte? Di sicuro non hanno portato gioia e solarità nei nostri testi… Anche se devo ammettere che non mi hanno influenzato più di tanto, dato che avrei comunque parlato di certe tematiche perché penso che si adattino alla perfezione alla nostra musica, che di base è negativa e oscura.
Restando in tema pandemia e guerra in Ucraina, i costi dei tour sono notevolmente aumentati in questi anni: quanto è dura per un gruppo come il vostro organizzare oggi delle date? Sicuramente questi eventi catastrofici non ci aiutano affatto e organizzare date è diventato veramente difficile dato che le spese per i gestori/organizzatori sono aumentate a dismisura e quindi di conseguenza chiamare una band, specialmente se proveniente da lontano, diventa una spesa non sempre sostenibile. Speriamo comunque di poter riuscire a suonare il più possibile, come spiegavo precedentemente abbiamo avuto periodi di stop forzato per cercare un batterista prima e, come tutti, le restrizioni per covid successivamente.
Nonostante questi fattori critici, avete dei concerti in programma? A Marzo suoneremo al Roma Caput Doom Fest, abbiamo una data a Latina ad Aprile e una in Puglia da confermare. Stiamo comunque lavorando per organizzarne altre.
Avete già proposto i nuovi brani dal vivo e quali sono stati i riscontri? Si abbiamo realizzato un release party suonando tutto “Vol. III “ed è stato accolto alla grande dal pubblico anche, se un paio di brani venivano eseguiti dal vivo già da un po’ di tempo. In generale, dalle recensioni, come anche dai social, sembra che il disco stia piacendo molto e non vediamo l’ora di farlo ascoltare il più possibile.
In chiusura vorrei tornare nuovamente alla nostra intervista del 2018: in quell’occasione mi parlaste di un brano escluso da “Necropolis” per la sua lunghezza e che nelle vostre intenzioni sarebbe dovuto poi andare a finire in un futuro EP. Che fine ha fatto quel pezzo? Avete ancora intenzione di fare un EP? Che memoria! Quel pezzo è rimasto purtroppo nel cassetto… almeno per ora! È stato registrato con il vecchio batterista e aveva una produzione diversa da quella di “Vol. III”, quindi sarebbe da registrare nuovamente magari per una prossima uscita.
Un paio d’anni fa ha fatto la propria comparsanella scena doom nostrana una nuova e interessante creatura. I lombardi Cancervo, nel giro di due dischi, sono stati capaci non solo di attirare le attenzioni degli amanti delle sonorità più fumose e lisergiche, ma anche di variare il proprio sound da un doom\stoner strumentale dal taglio psichedelico a un doom più tradizionale con voce e rimandi alla scuola italica . “II” (Electric Valley Records \ Qabar Pr) è fuori da qualche giorno, ne abbiamo discusso con il bassista\cantante Luca.
Benvenuto Luca, anche se potete contare già due album nella vostra discografia, la band è di recente formazione, per questo ti chiederei di ripercorre velocemente la vostra storia a vantaggio di chi ancora non vi conoscesse… Ciao, nasciamo come Cancervo ad inizio 2020, dopo qualche cover per trovare il giusto feeling, proviamo ad inviare il nostro primo brano (“Darco”) ad Electric Valley Records. Sorprendentemente il pezzo piace e ci accordiamo per l’uscita di “I” che vede la luce a febbraio 2021. Persuasi dal buon feedback ricevuto per il nostro LP d’esordio, concordiamo, sempre con Electric Valley Records, l’uscita del nostro secondo album “II” per Gennaio 2023.
Un elemento che colpisce immediatamente è il vostro nome, ti andrebbe si piegarne il significato? Il nome proviene dalla montagna che domina la nostra valle. In passato i suoi boschi venivano incendiati per rigenerare i pascoli per gli anni a venire. Questo ci ha dato l’ispirazione per “prendere in prestito” il nome e scrivere il nostro primo singolo.
Alla luce di ciò, quanto la natura che vi circonda vi influenza al momento della composizione dei vostri brani? Tanto. Conosciamo i nostri territori e le loro leggende, esploriamo e cerchiamo inspirazione in tutto questo. Una volta immersi in una di queste storie cerchiamo di metterla in musica preservando quelle emozioni.
Tra la pubblicazione di “I” e “II” è passato relativamente poco tempo, c’è qualcosa che non è stato utilizzato nel primo disco che poi è andato a finire nel secondo? Assolutamente no. Anzi “I” è stato completato con la nostra versione di una delle cover che all’epoca proponevamo live (“Swlabr”). Forse proprio questa canzone ha segnato lo spartiacque per giungere poi al secondo album.
Come dicevo, tra i due dischi non è che ci passi molto tempo, eppure “I” mi sembra più orientato sullo stoner\doom, mentre “II” in molti frangenti mi pare più vicino alla tradizione doom italiana: sei d’accordo con me? Pienamente d’accordo, il primo album è fortemente influenzato dal prog-rock inglese degli anni ‘60/’70, Cream e King Crimson in testa. Nel secondo invece non sappiamo bene quale sia stata la nostra fonte d’ispirazione, diciamo che forse siamo stati meno influenzati e abbiamo trovato il nostro sound e la nostra via..
Altra novità importante in “II” è il ruolo della voce, del tutto assente sull’esordio e invece presente su questo disco: a cosa è dovuto questo cambio stilistico? Un caro amico ci disse “se non avete nulla da dire (cantare) meglio non dire nulla”. Sacrosanta verità! Non abbiamo mai voluto autoimporci la presenza o no della voce. Nel primo album siam riusciti ad esprimere tutto con la sola musica, mentre in ”II” è stata essenziale per dar forma a certe sfumature.
Ho fatto un giro su Bandcamp e ho scoperto che l’edizione in vinile del vostro esordio è esaurita in tutte le sue varianti fisiche. Sono previste delle ristampe, magari per la prima volta in CD, dato che in precedenza lo avete pubblicato solo in digitale e vinile? A grande sorpresa è andato completamente sold-out ed il secondo lavoro è arrivato subito senza farci pensare ad un’eventuale ristampa. Ad oggi la escludiamo, ma mai dire mai…
Invece, “II” in quali formati uscirà? Anche “II” è previsto in digital e vinile, ma con una tiratura di 500 pezzi.
Dalla vostra pagina FaceBook ho appreso che nel mese di marzo farete alcuni concerti all’estero e in Italia, possiamo aspettarci altre date? Stiamo lavorando ad altre date della tournee europea che ci occuperà metà mese di Marzo. In parallelo stiamo finalizzando un evento per il mese di Febbraio, in compagnia degli amici Humulus e di una nota band tedesca, ed uno per il mese di Aprile ancora tutta da imbastire. Per l’estate c’è ancora tanta indecisione, “III” sta prendendo forma e la voglia di pubblicarlo ad inizio 2023 è forte…