A Giant Echo – Resine

Sergio Todisco torna con il suo progetto A Giant Echo, non più un semplice alter ego musicale, ma una vera e propria band capace in “Resins 2” di eseguire sonorità ricche di sfaccettature e influenze che si “appiccicano” sin dal primo ascolto e non ti lasciano più…

Ciao Sergio, nel 2018 usciva “Songs By Ghosts And Machines”, cosa è accaduto da quel momento?
Ciao, piacere di conoscersi e scambiare due chiacchiere. Mi verrebbe da dire che nulla di straordinario è accaduto, rispetto al tempo che nella mia vita dedico a scrivere, comporre ed esercitarmi nella musica. Rispetto al progetto A Giant Echo, invece, è cambiato che finalmente ora c’è una band che può suonare i brani dal vivo, ci sono amici cari con cui condividere certe sensazioni suonando e, infine, le composizioni possono esulare dalla dimensione studio e prendere forma, con arrangiamenti diversi, su un palco, di fronte ad un pubblico.

Il presente si chiama “Resins 2”, un titolo che non è un semplice nome per l’album, ma quasi una dichiarazione d’intenti. Ti andrebbe di spiegare il concept che sta dietro questa seconda opera?
Sì, intendo l’album come un concept. Intanto il titolo, “Resins” (resine), è stato scelto come richiamo a qualcosa che si attacca, che ha la capacità di rimanere, che anche quando sembra essere andato via, ha lasciato traccia di sé, che si incolla quasi e non se ne va più, o non se ne va mai del tutto. Sono delle impressioni, dei sentimenti, dei sorrisi, o delle lacrime versate, legati a degli eventi, accaduti una volta, ma che in qualche modo rimangono incollati per sempre all’esistenza di chi li vive, legando in una forma particolare passato, presente e futuro dei cicli esistenziali. Così, diversi brani cominciano, hanno un’evoluzione, sembrano finire, ma poi ricominciano (un’evoluzione che si manifesta particolarmente in “Part Three”, che inizia con un’introduzione, poi si sviluppa in un altro modo, sembra finire, ma poi riprende suoni, impressioni e melodie dell’introduzione). Così anche l’arpeggio finale di “Part One”, che riemerge durante la coda di “Last Part”, a manifestare la ricomparsa di quanto è stato vissuto, ma dentro un altro contesto, sebbene quello generale (l’insieme, il contesto complessivo) sia il medesimo. Quello che si cerca di richiamare è una rievocazione di accadimenti, di sensazioni che hanno marcato la persona in dei momenti, modificandola nella sua costituzione nel tempo. I brani, allora, diventano le parti di un processo di costituzione in cui si forgia l’essenza di chi racconta, scrive e canta di questi pezzi di esistenza, dalla prima all’ultima, non necessariamente in ordine cronologico. Infatti, “Part Four” sembra non esserci, sul supporto fisico compare come sesta traccia, ma non è annoverata in copertina (qualcosa che sembra scomparsa, ma che in realtà ricompare dopo). Ecco perché le strutture hanno un ciclo che parte, cresce, muore, rinasce, finisce; o perché le melodie ritornano.

Quel “2” che appare nel disco come lo dobbiamo intendere: parte integrante del titolo oppure una semplice appendice a rappresentare che si tratta della seconda opera dei A Giant Echo?
Sicuramente è parte integrante del titolo dell’album, ed ha un significato: c’è stato un precedente di quest’album, si chiamava “Resins”, dove c’erano i prototipi di questi brani, fu la prima autoproduzione di A Giant Echo, nata da tanta ispirazione ma accompagnata da pochissime capacità e abilità e ancora meno esperienza. Nel tempo quei brani sono cresciuti, sono stati cambiati, riarrangiati, fino ad arrivare alla versione confluita in “Resins 2”.

A proposito, dobbiamo parla dei A Giant Echo oppure di A Giant Echo? Di un progetto tuo personale o vera e propria band?
Una definizione non per forza esclude l’altra, soprattutto se si guarda all’evoluzione nel tempo e ai modi di scrivere e poi di suonare live. I brani di “Songs by Ghosts and Machines”, come quelli di “Resins 2”, sono nati dalle idee di un singolo, ma poi quel singolo ha cercato persone con cui condividere e portare davanti a un pubblico le idee. Fortunatamente ho trovato delle persone e degli amici, musicisti bravissimi che hanno voluto partecipare al progetto A Giant Echo, dapprima Riccardo Bianchi alla batteria e Davide Pascarella al basso, e infine, ultimo ad unirsi, Marco Nardone alla chitarra e synth. Ora c’è una band che si chiama A Giant Echo e che può suonare i brani live; ma il songwriter singolo non è scomparso, e risponde sempre al nome A Giant Echo. Tutto quello che c’è stato e c’è, è sempre in evoluzione, e ciò che si potrà creare insieme, fra quattro musicisti, è sempre da considerarsi in evoluzione.

Torniamo al disco, pur essendo legati tra loro, i brani appaiono molto vari. Questa scelta di spaziare tra i generi e le influenze è stata una scelta nata a tavolino oppure un processo spontaneo?
Non ho studiato musica né, allargando il senso della domanda, mi sono mai posto obiettivi commerciali, quindi, tenderei a dire che le strutture dei brani non sono nate a tavolino; per altro, dal momento del concepimento a quello della sintesi finale, i brani sono cambiati. In sostanza direi che la base di partenza è assolutamente spontanea, lo sviluppo è frutto di un’esperienza di studio, ma inteso come studio ricco di istinti e influenze, e povero di nozioni. Credo che lo spaziare fra generi e influenze dipenda dalle variegate esperienze di ascolto.

I brani sono nati nell’ordine in cui appaiono in scaletta oppure hai assemblato la tracklist in un secondo momento?
All’interno del processo di creazione, credo di aver pensato in itinere all’ordine della scaletta.

“Part Four” perché hai deciso di utilizzarla come bonus e non come parte integrante del disco?
“Part Four” è decisamente diversa dalle altre, c’è molta più influenza di musica elettronica, più uso del computer e dei synth ed è nata da sensazioni più tetre rispetto ai vissuti che hanno ispirato le altre. Intendevo separarla dalle altre, e con essa ho voluto segnare la fine triste di un disegno, ma in qualche modo quella fine era prevista, immaginata in anticipo e solo dopo confermatasi come chiusura (ecco perché è segnata da un numero che la presupporrebbe in una posizione antecedente). Così come, invertendo la prospettiva, le parti del ciclo che nell’ascolto arrivano prima della fine prevista, possono rivivere ed essere immaginate anche dopo di essa.”Last Part” sarebbe la chiusura, reca con sé tracce di “Part One”, si pone in scaletta prima di “Part Four”, ma è marcata da un aggettivo che la presupporrebbe alla fine del ciclo. In sostanza, se non si capisce quale sia la fine tra “Part Four” e” Last Part”, il concetto è passato.

Proporrai le canzoni di “Resins 2” dal vivo?
Sì, e le abbiamo già proposte in due concerti, ma solo quelle cantate; per le strumentali si pone qualche difficoltà nel riadattarle in maniera soddisfacente con l’attuale formazione a quattro membri.

Le tue prossime mosse?
Scrivere, comporre, registrare, riarrangiare, suonare.

DuoCane – Teppisti da sempre

“Teppisti in azione nella notte” è il primo full length dei Duocane, power duo pugliese composto da Stefano Capozzo (basso e voce) e Giovanni Solazzo (batteria), amici di vecchia data e musicisti in svariati altri progetti (Banana Mayor e Turangalila su tutti). Anticipato dal dissacrante singolo “Neqroots” (omaggio ad un mitico calciatore del Bari degli anni ’90), l’album d’esordio della band è il seguito ideale dei primi due EP “Puzza di giovani” (2019) e “Sudditi” (2020), ed esce autoprodotto il 12 ottobre 2022, su Cd oltre che in streaming e digital download.  Otto tracce in bilico tra math-rock, stoner & noise, dall’approccio ironico e dissacrante.

Ciao ragazzi e bentrovati sul Raglio! E’ finalmente uscito il vostro primo full lenght, in realtà dal vostro esordio del 2019 non vi siete mai fermati pubblicando ancora un Ep nel 2020 e adesso un disco di otto tracce. Come spiegate questa vostra prolificità? 
Siamo in due e questo rende più semplice la stesura dei brani, non c’è nessun chitarrista con relativo ego a rallentare i processi creativi.

Nella nuova release vi siete avvalsi di diverse collaborazioni che hanno allargato un pò lo spettro sonoro del duo, ce ne volete parlare?
Nel nostro disco hanno collaborato Gianluca Luisi al vibrafono, Alessandro Vitale al sax, Pino di Lenne agli archi (l’unico presente anche nel nostro EP precedente “Sudditi”) ed Enrico Carella alle tastiere. L’intento è stato quello di ricreare in studio il nostro suono naturale avvalendoci della possibilità di arricchirlo con quelle voci nella testa che ci dicevano “metti questo, metti quello, vedi come suona bene?”. Abbiamo avuto entrambi la fortuna negli anni, di suonare con tanti musicisti di diverse estrazioni (dal metallaro al jazzista, all’accademico, al frikkettone puzzolente che non paga le birre ecc.). Quindi abbiamo colto l’occasione di toglierci degli sfizi sonori cercando di rimanere fedeli ad un approccio punk e viscerale.

Spesso suonare in duo non è affatto facile, anzi sicuramente non lo è, per voi è una cosa molto naturale. Come siete arrivati a questo approccio?
Abbiamo suonato insieme nel primo periodo dei Banana Mayor e ci conosciamo da quasi vent’anni, questo ci permette di avere una confidenza tale da amalgamare le menti creative con molta facilità. Abbiamo gusti molto simili e complementari e pur essendo persone molte diverse, siamo praticamente cresciuti insieme.

Suonate insieme da tempo e anche in altri progetti come ad esempio i notevoli Turangalila, come riuscite a ritagliare lo spazio per entrambi questi due progetti così impegnativi?
Giovanni: non ho tempo manco per cacare, bugia, cancella… sono sempre stressato, no dai cancella.
Stefano: dai dì la verità.
Giovanni: grazie per il complimento ai Turangalila. Non solo suono in questi due gruppi, aggiungici pure il lavoro e la gestione della propria vita privata e familiare. Dormo 10 ore a settimana e sono stressato. Però si fa, e non solo, mi piace moltissimo farlo, la musica è tuttora una cosa che ci distende, eccita e rilassa, ne abbiamo bisogno. Qualora questa cosa dovesse venir meno non avrei dubbi nello smettere.
Stefano: non vado in palestra.

Math rock, noise, stoner ma c’è qualcuno a cui vi ispirate o una band che è vicina attitudinalmente ai Duocane?
Non c’è una band in particolare che ci ispira, o magari sono così tante che sarebbe un casino elencarle tutte. Le nostre influenze vanno dagli anni 70 alla contemporaneità, con particolare predilezione per i ’90, dalla banda di paese di Acquaviva delle Fonti agli Yob.

Il vostro sound è alquanto rumoroso ma c’è sempre un notevole spazio per la melodia, in che maniera scrivete? Vi occupate entrambi dei testi?
Sì, i brani partono sempre da una particolare idea di uno dei due, un riff o un ritmo, e poi ci si lavora sopra, insieme sia per i testi che per le musiche, buttando idee e dicendo stronzate fino a che la “cosa” non raggiunge una forma che soddisfi entrambi. Più o meno come stiamo rispondendo a turno a queste domande, mentre ora Stefano fuma una sigaretta.

Parlatemi un po’ del singolo “Neqroots” dedicato al mitico calciatore del Bari, come vi è venuta questa idea?
Giovanni era andato in bagno e Stefano stava suonando da solo al locale col nostro amico Giulio. Eravamo in lockdown e provavamo di nascosto in saletta per soddisfare bisogni etilici e sociali. Di ritorno dal bagno, Giovanni sentì i primi due versi canticchiati da Stefano e il resto lo scrivemmo tutti e tre in quella stessa sera. Ci parve da subito una idea corretta e giusta dedicare un pezzo a un monumento della nostra infanzia. Neqrouz è stato un idolo nella nostra zona in quegli anni, e circolavano varie leggende su di lui. Successivamente abbiamo scoperto che alcune sono probabilmente vere, dato che davvero Neqrouz, a quanto pare, era solito frequentare madri di gente che conosciamo da vicino. Tra l’altro, con viva e vibrante soddisfazione, ci teniamo a dire che il vero Neqrouz ha ascoltato il pezzo e adesso ci segue su Instagram e ci mette i cuoricini. Neanche suonare al Lollapalooza potrebbe mai donarci cotanta infinita giuoia.


Vi lascio un po’ di spazio per dire quello che volete, fate un autopromozione il più sfacciata possibile al vostro disco.
Siamo ben consci del fatto che nessuno ascolti più i dischi, soprattutto quando si tratta di un formato CD, ma vi assicuriamo che tali feticci sono sia belli da guardare che da toccare, diremmo addirittura annusare, concedendovi così di vivere una meravigliosa esperienza sinestetica. Essendo tra l’altro questo “Teppisti in azione nella notte” un disco concepito in maniera unitaria e omogenea, come opera unica, ci piacerebbe venisse ascoltato nella sua interezza e totalità, anche se sappiamo che questa cosa non è esattamente tipica dei nostri tempi votati alla distrazione perenne. Scusate per questa parentesi alla Mastrota con le pentole. Forza Roma sempre.

Lvtvm – Irrational numbers

Ragione o sentimento? I Lvtvm parrebbero propendere per un approccio alla musica più ragionato. Ma se persino i numeri possono essere irrazionali, figuramici le sette note. E la musica contenuta nel nuovo album, “Irrational Numbers”, è un fluire di emozioni che va dal musicista all’ascoltatore!

Benvenuti su Il Raglio del Mulo, dal 19 settembre è disponibile il vostro secondo
album “Irrational Numbers”, avete dichiarato che è stato suonato in modo differente dal
suo predecessore ma che comunque si muove nel solco della continuità. Quali sono le
differenze e le similitudini con “Adam”?

Carlo: Salve a voi e grazie per averci dato l’opportunità di parlare di noi. Le differenze stanno nell’aspetto compositivo, in realtà sono un’evoluzione dell’ultima parte del primo disco, dove già veniva intrapresa una forma compositiva più complessa, nelle ritmiche e nell’armonia. Anche Adam ha pezzi composti in due anni ed in questo arco di tempo la musica evolve così come fa ogni musicista, a maggior ragione un lavoro di 8 anni. Credo che “Irrational Numbers” sia il consolidamento di un’idea di musica cominciata nel primo disco.

Il disco esce dopo ben otto anni di attesa e grazie a un manipolo di etichette (Cave Canem DIY, Controcanti Produzioni, Drown Within Records, Vollmer Industries e Zero Produzioni). Come è nata la collaborazione con queste realtà?
Alessandro: Le partnership sono nate casualmente, conoscendo mano a mano i nostri collaboratori durante i vari live. Con Marco Gargiulo di Metaversus PR abbiamo un rapporto decennale e confrontandoci, ci consigliò di far sentire il disco a Cristian di Drown Within Records e Alberto di Vollmer Industries. Il primo ci consigliò a sua volta di scrivere anche a Davide di Zero Produzioni. Hanno tutti creduto nel nostro progetto alla fine. L’amicizia con Domenico di Controcanti Produzioni è abbastanza recente. Sono membro di un gruppo FaceBook di settore nel quale fin da subito ho legato con lui grazie alle nostre affinità sulle band underground, la collaborazione è nata naturalmente. Infine parliamo di Cave Canem, che è la nostra realtà! Associazione culturale dal 2008, abbiamo una sala prove/home studio allestita con le nostre mani grazie ad un fondo concessoci dal comune di Arcidosso. I gruppi che vogliono possono
venire a provare lì, dando un piccolo contributo, hanno tutto il materiale a disposizione. Ci autofinanziamo per permetterci di autoprodurci e di promuovere band dell’underground che reputiamo facciano musica interessante. Organizziamo un festival annuale dal nome Come le Mine, dove ospitiamo gruppi di ogni genere purché ci piacciano, è la nostra festa e col tempo, con una gestione attenta, siamo riusciti a crescere ed a creare un nome, tanto che nell’ultima edizione sono arrivate famiglie intere con camper e tende per partecipare alla serata. Siamo stati
molto soddisfatti.

A proposito di collaborazioni, ho letto un post sulla vostra pagina FaceBook in cui ringraziate Lorenzo Gonnelli e Damiano Magliozzi, quale è stato il loro apporto?
Carlo, Alessandro: Il quinto elemento del gruppo è il titolare di Gorilla Punch Much, Damiano Magliozzi, nostro fonico di fiducia (ormai canta ogni melodia meglio di noi), nonché colui che ha mixato il disco. Ci aiuta anche in fase di promozione, insomma c’è dentro fino al collo (poverino!). Siamo convinti che gli debbano dare una laurea ad honorem in psicologia per riuscire a farci stare calmi durante i tour. E’ una voce con un enorme peso, anche perché centellina ogni parola che dice, quando esprime un’opinione va assolutamente ascoltato con attenzione, ci fidiamo ciecamente di lui. Stessa cosa vale per Mike, ex tastierista del gruppo, colui che ha gettato le basi per la band e senza il quale mai saremmo partiti. Ogni suo consiglio è importante è come fosse una seconda coscienza. Per quanto riguarda Lorenzo, beh dovremmo scrivere un libro per elencare i suoi pregi, ma soprattutto ascolta la nostra musica e coglie subito le nostre intenzioni, una cosa incredibile. Ha un approccio così “sinestetico” che trasforma la musica in immagini, riesce a portarci dentro al suo mondo spiegandoci da dove nascono e perché nascono le sue idee. Conserviamo ancora il progetto del video di “Twalking” di “Adam”, un libretto rilegato e plastificato con una cura ed una professionalità altissime, quando lo vedemmo pensammo “alt d’ora in poi facciamo tutto con lui”, oltre al fatto che è di Arcidosso, un amiatino come noi e considerando il concept di “Adam”, dove abbiamo rimarcato più volte l’importanza delle nostre radici, beh con lui siamo siamo davvero in una botte di ferro.

Il vostro primo disco si intitola “Adam”, il primo uomo, il numero uno; questo secondo lavoro si chiama “Irrational Numbers”. C’è un collegamento tre i due titoli o si tratta solo di una mia sega mentale?
Isacco: ll collegamento tra i titoli ovviamente c’è e ricalca anche quella che è stata la nostra evoluzione musicale. “Adam” è l’uomo venuto dal fango che nasce cresce fino a confrontarsi col mondo e con la natura. Ma è lui stesso un essere naturale che viene dalla terra. Invece con con i numeri irrazionali abbiamo voluto rappresentare il mondo e la natura concepiti come altri da sé, cosicché l’uomo di fango debba confrontarsi con ciò che ha dentro per organizzare secondo le sue modalità quello che lo circonda. Quindi qui c’è un discorso di oggettivazione del mondo/natura avendo la certezza che non tutto può essere compreso e misurato.

Rimanendo in tema di musica, quanto c’è di matematico della vostra musica e quanto di istintivo? Si direbbe che la prima abbia la meglio sul secondo quando componete…
Carlo: L’elaborazione di questo materiale non prevede la creazione del pezzo alle prove perché richiederebbe uno sforzo davvero grande. Non è sufficiente elaborare un riff e farlo girare per fare un pezzo della nostra musica, poiché è richiesta la coesistenza di due strumenti che lavorano sulle stesse frequenze e la stratificazione delle stesse con le tastiere richiede una fase importante di scrittura in modo tale che non ci siano dei “buchi”. L’approccio è relativamente matematico se ti riferisci all’impossibilità di battere il piede per portarti i quarti, ci sono cambi di tempo e tempi composti, ma questa è una scelta compositiva per supportare le nostre idee o emozioni. Quindi direi che non c’è né matematica né istinto bensì composizione.

In “Holzwege” chiamate in causa Martin Heidegger, la cui opera si basa soprattutto sulla parola scritta. Voi invece avete fatto la scelta opposta, ovvero quello di non utilizzare la parole. Come avete lavorato per poter esprimere, utilizzando solo dei suoni, i concetti del filosofo tedesco?
Isacco: Nell’opera di Heidegger i sentieri interrotti rappresentano il linguaggio e il guardaboschi invece il poeta che sa districarsi tra questi sentieri. Il poeta usa la parola liberamente utilizzandola anche in maniera errata, la famosa licenza poetica, gli dona un senso diverso che può essere duplice, contraddittorio, rivoluzionario, ambiguo, evocativo… egli si arrischia nel linguaggio. Il nostro linguaggio è la musica e noi cerchiamo di non porci delle limitazioni in campo musicale, come il guardaboschi ci addentriamo in questi sentieri cercandone sempre di nuovi e facendoli nostri. Questa traccia è stata la prima composta dopo Adam, quando con noi era sempre presente Mike. Rappresenta un cambio di prospettiva, una svolta. Proprio come per Heidegger Holzwege rappresenta la svolta del linguaggio. Questa ricerca c’è in tutto il disco e cominciava già ad essere presente nella parte finale di “Adam”.

In generale, durante la composizione del disco avete mai avuto la tentazione di inserire delle parti cantate?
Alessandro: Il cantante polarizzerebbe troppo la musica secondo noi, a quel punto andrebbero scritti pezzi “su misura”. Alla fine abbiamo deciso che preferiamo il canto dei nostri strumenti.

La copertina, invece, cosa rappresenta?
Lorenzo: La copertina rappresenta un cambio di pelle rispetto all’album precedente. Si passa da una temporalità e assenza di spazio, presente in Adam, a una ricerca di un tempo e luogo per il riconoscimento di se stessi. L’architettura brutalista, tramite i suoi complessi schemi, va a creare lo sfondo su cui la sfera appoggia. Sfera che va a rappresentare la ricerca di perfezione a cui ogni individuo ambisce, ma allo stesso tempo riflette e distorce il percepito di noi stessi. Il bosco diventa città, gli alberi diventano palazzi che tendono verso il cielo come per elevarsi verso il metafisico e distaccarsi dal terreno, i sentieri diventano strade complesse dove districarsi. Città in continua espansione come lo spazio stesso, sempre più articolate nella propria ricerca dell’infinito. Il font utilizzato rimarca il concetto andando a utilizzare un tratto spesso e strutturato. Un passaggio dall’organico al sintentico.

In chiusura la domanda di rito, avete date in programma?
Matteo: Ovvio ci sono, ma non abbiamo fretta, nel senso che ci siamo resi conto di necessitare del luogo e del contesto adatti. In primo luogo vorremmo sempre Damiano con noi, senza di lui la nostra musica perde, perché si fonda su un equilibrio costante dei livelli dei singoli strumenti, se si perdono le sfumature si perde anche il nostro lavoro. Stiamo organizzando una release ufficiale in teatro ad Arcidosso, dove sono coinvolte molte persone tra cui 3 teatranti, che apriranno il concerto con un dialogo scritto da loro ispirato allo spazio ed al tempo e i visuals dei nostri fratellini Q2 Visuals con i quali abbiamo sempre collaborato. Vogliamo offrire uno spettacolo a 360 gradi.

Del Norte – Lo/Fi for life

Da poco fuori con il primo full length autoprodotto, i Del Norte sono tra le proposte più interessanti nell’ambito della scena indipendente tricolore. Alternative noise rock di matrice 90’s che trae ispirazione dai riffoni di Nirvana e Dinosaur Jr e dalle melodie di Wavves, con un forte accento sulla componente fuzz e lo-fi. “I Was Badger Than This” è il titolo del loro esordio sulla lunga distanza presentato dalla Doppio Clic Promotions.

Benvenuti su Il Raglio Del Mulo ragazzi, ho molto apprezzato il vostro primo album “I Was Badger Than This” che ho trovato molto in controtendenza rispetto alla maggior parte della roba che si sente in giro, mi raccontate come nasce il sound dei Del Norte?
Ci fa molto piacere! In verità la band parte come power trio con un’attitudine noise / lo-fi abbastanza classica, quindi un sound derivativo che si ispirava comunque a band più recenti, come gli Wavves. Gabba, prima di ogni prova,  ha sempre proposto un sacco di idee di pezzi registrandoli direttamente in casa, con questi suoni lo-fi potenti e sporchi, ma con quel tocco di digitale che li rendeva più eterei. Andando avanti a provarli e suonarli ci siamo accorti che quel sound casalingo ci piaceva un sacco e funzionava veramente con le nostre orecchie, quindi abbiamo deciso di produrre un disco che potesse dare le stesse nostre sensazioni, e ci volevano proprio quei suoni.

Dalle note stampa leggo che avete scelto di registrare tutto da soli –  a parte la batteria – scegliendo volutamente un suono lo/fi ma soprattutto digitale, cosa è cambiato rispetto al vostro Ep del 2017?
Per il primo EP l’intenzione era proprio quella di tirare fuori un suono che ricordasse lo stile grezzo dei Dinosaur Jr e Sebadoh ed è stato un approccio quasi totalmente analogico, dai microfoni vecchi di 50-60 anni al passaggio finale su bobina; per quanto riuscito però mancava qualcosa di più originale, e ispirandoci appunto alle “registrazioni casalinghe” abbiamo fatto le prese di chitarra e basso direttamente da pedaliera a scheda audio, andando a miscelare effetti per renderli più vicini possibile alla nostra idea; le batterie avevano necessità di avere delle prese pulite e fatte bene, ritoccando i suoni eventualmente dopo, da qui la scelta di registrarla in studio, scelta opposta delle voci che sono state letteralmente registrate con il microfono integrato del mcbook (ci piaceva troppo). Per non fare un disastro nelle fasi più delicate ci siamo affidati alle mani e orecchie di Michele Conti al mix e mastering che, capendo da principio la nostra idea, è riuscito a  perfezionare il tutto con la sua esperienza, come la scelta del chitarrone mono al posto della classica doppia presa in stereo, che ha dato una grinta unica al posto del solito suono prodotto “a puntino”.

Le vostre influenze pescano soprattutto da un certo noise/rock figlio dei Dinosaur Jr e dei Nirvana più deviati, ma avete anche altre influenze che non si percepiscono dall’ascolto del disco?
Per non fare appunto i “soliti nomi” possiamo citare sicuramente i primi Flaming Lips (pre-Soft Bullettin), Motorpsycho, Pixies, Verdena, Weezer, Grandaddy, American Football, Camper Van Beethoven, Fugazi, Beastie Boys, John Frusciante, e il nostro preferito: Jimi Hendrix.

Ci sono delle band con cui sentite di avere uno spirito affine?
Per attitudine e stile sicuramente ci siamo molto vicini ai Pavement come gruppo storico, mentre per citare un gruppo più contemporaneo potremmo dire gli Wavves; come gruppo italiano invece i nostri concittadini Soria, che salutiamo!

Il vostro album è disponibile in digitale su Bandcamp e lo avete stampato in musicassetta, una formato che ultimamente sta riprendendo piede, mi volete parlare del perché di questa scelta?
Abbiamo notato che quasi tutti avevano ascoltato l’EP da supporti digitali, scaricato in mp3, da Spotify o da Youtube, anche chi lo possedeva già fisicamente, e, al posto di stampare le solite centinaia di copie masterglass in CD, abbiamo preferito dare un supporto più particolare e caratteristico per il nuovo album. Visti i costi e tempi assurdi per i vinili ci siamo buttati solamente sulle cassette, per rimanere anche più coerenti al periodo storico a cui ci ispiriamo; e poi a dirla tutta l’idea di mettere una produzione così digitale su nastro ci faceva ridere.

Come si vive a Pesaro? A parte il periodo difficile per la musica dal vivo, riuscite ad esibirvi dal vivo con frequenza? 
La cosa assurda della nostra zona è che, per una scena così prolifica, la proposta live nei locali è veramente limitata, specialmente in inverno; per fortuna in estate ci sono diverse iniziative che offrono anche tanta qualità. Purtroppo  sono scomparse diverse bellissime realtà, anche ben strutturate, ben prima del 2020, dovendo fare i conti con tutte quelle che sono le difficoltà del caso (sempre maggiori).  Noi “pesiamo” parecchio le date, anche troppo, ed’è sicuramente ora che torniamo a fare casino sui palchi più spesso.

Raccontatemi uno degli aneddoti più curiosi che vi è capitato suonando in giro come band.
Questa è sicuramente la più divertente, anche se non è qualcosa di cui andare troppo fieri: eravamo primi in scaletta nel palco secondario di un festival e abbiamo iniziato come da programma a suonare in pieno pomeriggio; intanto nel main stage c’erano ancora Blixa Bargeld e Teho Teardo che non avevano finito i suoni della loro sezione archi, erano molto arrabbiati, e volevano le nostre teste.

Per il futuro avete intenzione di mantenere la vostra etica del Do it Yourself o magari farvi affiancare da qualche etichetta?
Mettiamola così: siamo felicemente single ma se qualcuno si mostra interessato possiamo uscire e vedere come va!


Belvas – La belva è fuori!

Il nostro cammino nel panorama musicale italiano a caccia di realtà interessanti ci ha fatto incrociare una creatura a tre teste dal nome, Belvas, che di per sé è una sorta di “manifesto programmatico”. Grazie alla Metaversus di Marco Gargiulo abbiamo potuto contattare il gruppo per parlare dell’album d’esordio “Roccen”.

Ciao ragazzi, come e quando nasce la band?
La band nasce nel 2018 dalle menti di Claudio Palo alla batteria (membro fondatore dei Manetti! ed ex membro dei Milaus) e Mirco Lamperti al basso, che hanno posto le fondamenta con gli embrioni di basso e batteria di cinque brani (“Belvas”, “Bianco”, “Pink Boy”, “Spaziale”, “AnDn”), finalizzati nel 2019 con testi, linee vocali e di chitarra con l’ingresso di Paolo Rosato alla chitarra elettrica e Manuel Dall’Oca alla voce e successivamente basso e chitarra acustica.

Il moniker Belvas è arrivato da subito oppure col tempo? Ve lo chiedo perché dall’ascolto della vostra musica pare che il nome sia quasi un manifesto programmatico…
Belvas deriva da Belva, appellativo attribuito al batterista per il suo carattere irruente e per il suo modo di suonare, diventato poi nostro punto di forza.

Un elemento che salta subito all’occhio a chi ha il vostro CD di esordio, “Roccen”, in mano è il disordine che regna sovrano. Tra scarabocchi e scritte varie, quasi si resta storditi. Quanto è importante per voi disordine in fase compositiva?
Il disordine in copertina e nelle grafiche del disco è solo apparente, bisogna farci l’occhio per poterlo apprezzare appieno e cogliere l’importanza che diamo ad ogni dettaglio. Non c’è disordine nel nostro modo di creare, sia nella composizione dei brani che nella preparazione delle grafiche.

I brani paiono mettere in evidenza una doppia anima, una più rude e una più delicata. Come riuscite a bilanciare questi elementi nella vostra musica senza che uno prenda il sopravvento sull’altro?
Il bilanciamento tra indole rude e delicata non è studiato ma è il nostro modo di essere. Questa è una delle caratteristiche che ci rispecchia maggiormente e la si può sentire in modo evidente in “Piacere E’ Dolore”, secondo noi il brano che racchiude perfettamente queste due anime contrastanti.

“Roccen”, contiene 15 brani per più di un’ora di musica, quasi una rarità oggi un disco così lungo. I pezzi sono stati composti appositamente per l’esordio o avevate alcuni di loro chiusi nel cassetto da tempo, magari per un altro progetto?
L’album “Roccen” è una raccolta di 15 brani scritti per l’esordio. La lunghezza è voluta, è il nostro modo di ribellarci a una società dove tutto scorre a mille orari ma si ha bisogno di più aria, dove il tempo è solo denaro.

In un periodo in cui l’ascolto, e di conseguenza l’attenzione, del pubblico va sempre più verso il singolo, tirar fuori un disco così lungo può essere un rischio?
Sicuramente è un rischio e ne siamo consapevoli, ma noi siamo amanti della cultura musicale vecchio stampo.

In generale quanto vi riconoscete nella scena musicale odierna? Dall’ascolto di “Roccen” parete più proiettati sul passato, sui 90 e anche più indietro…
Rispetto alla scena musicale odierna facciamo parte della minoranza, con un background musicale che arriva dagli anni 90 e anche più indietro, ma restiamo comunque proiettati verso il futuro!

Un’altra impressione che ho ricavato dall’ascolto e che forse lo vostro musica sta un po’ stretta tra i solchi di un disco, pare quasi fatto esclusivamente per essere suonata dal vivo: siete riusciti a testare i brani su un palco tra un lockdown e l’altro? Qual è stata la versione del pubblico?
Bella domanda! L’album è stato registrato volutamente in presa diretta, per avere un suono il più possibile fedele a quello che è un nostro live. Purtroppo stiamo iniziando solo ora a programmare qualche data dal vivo causa Covid ma la reazione del pubblico nelle poche esibizioni che abbiamo fatto finora è stata positiva.

Ora che la belva è fuori, qual è il suo prossimo passo? È tutto, grazie.
Siamo al lavoro sul secondo disco, ma stiamo puntando a portare finalmente in giro “Roccen” che, come una belva in catene da troppo tempo, ha bisogno di uscire.

Gentle Sofa Diver – Fuori dall’acquario

“Off The Fish Tank” è l’album d’esordio di Gentle Sofa Diver, progetto alternative post-rock del polistrumentista pesarese Nicolò Baiocchi uscito il 21 maggio per la milanese Non Ti Seguo Records / Doppio Clic Promotions. Un nuovo progetto che evoca certe atmosfere anni ’90, ma con una decisa impronta melodica e personale, memore tanto dei Sonic Youth quanto dei Bark Psychosis, con le chitarre sempre in primo piano.

Ciao Nicolò, sei arrivato al tuo esordio come “Gentle Sofa Diver” da pochissimi giorni, in effetti dietro il moniker da band ci sei solo tu, è stato difficile fare praticamente tutto da solo?
“Difficile” probabilmente non è il termine più adatto, direi piuttosto che è stato lungo: suonare da solo ti impedisce di entrare in sala prove ed improvvisare con gli altri musicisti e “vedere cosa esce fuori”; sono stato costretto a costruire i brani partendo da uno strumento alla volta, generalmente la chitarra, e ad aiutarmi con mille registrazioni e loop. Questo ha reso il processo compositivo abbastanza lungo. D’altro canto il vantaggio è quello di non avere un confronto diretto con gli altri membri e di poter dare libero sfogo alla propria fantasia e alle proprie intuizioni senza dover sottostare alle idee di nessun altro, pagando lo scotto di dover affrontare in prima persona gli eventuali blocchi creativi che si presentano durante la scrittura dei brani.

Con i FAT, la tua prima esperienza da musicista, esploravate le stesse sonorità?
Sicuramente anche con i FAT si attingeva dall’immenso calderone degli anni 90, anche se ci sono un po’ di differenze: prima di tutto con i FAT si era privilegiato il canto in italiano, mentre a livello strumentale c’erano meno influenze puramente ambient e post rock che sono invece presenti in modo massiccio in !Off The Fish Tank!, il mio album d’esordio.

Come hai in mente di presentare i brani dal vivo?
Per il momento la dimensione live è ancora in fase di studio, nel breve periodo è probabile che presenterò i brani in una chiave più intima, arrangiandoli unicamente con chitarra e voce e facendo affidamento su effetti e looper. In futuro mi piacerebbe circondarmi di qualche musicista e portare in giro il mio disco così come lo sentite cercando di snaturarne il suono il meno possibile.

Il disco è frutto come tu stesso dici nella biografia dei tuoi lunghi ascolti soprattutto della scena post-rock e alternative degli anni 80/90 anche se non sei ancora nemmeno trentenne, cosa ti ha attratto di questi suoni in un certo senso “fuori moda”?
Questa domanda per me è complicatissima, io ho ascoltato e continuo ad ascoltare molti generi musicali anche diversi tra loro; probabilmente la risposta più semplice sta nel fatto che di tutto quello che ho ascoltato nella vita c’è un piccolo gruppetto di dischi che riescono tutt’ora a emozionarmi e sorprendermi ad ogni ascolto e la maggior parte essi fa riferimento a quella scena post-rock/ambient di cui parli. In un certo senso, nella fase di ascolto, sono sempre stato più attratto dalla melodia, dalle atmosfere e dalle dinamiche: questo mi ha portato alla creazione di un disco che rimanda necessariamente a quel tipo di sonorità, anche se spero di essere riuscito a metterci del mio e a non risultare una sorta di “tribute band” degli anni 90.

Di solito in questo genere ci si abbandona al flusso sonoro e la voce è un po’ un quarto strumento, com’è il tuo approccio con i testi?
Qui hai abbastanza colto nel segno, la gran parte della mia fase creativa si concentra sulla composizione della musica e delle melodie della linea vocale; successivamente, in base a quello che mi trasmette la musica che è uscita fuori mi concentro sui testi, che attingono un po’ dalle atmosfere del brano e che prima di tutto devono “suonare bene” nella mia testa.

Una laurea in medicina e un “notevole” inizio di una carriera discografica, non deve essere facile coniugare questi due aspetti, che progetti hai per il futuro di Gentle Sofa Diver?
No, decisamente ahah. L’impegno di lavorare come medico ovviamente limita il tempo che ho da investire nella musica, anche se questo non mi impedisce di chiudermi in sala ogni volta che ne ho bisogno. Probabilmente Gentle Sofa Diver rimarrà prevalentemente un progetto studio. La speranza, tuttavia, è quella di suonare dal vivo ogni volta che ne avrò la possibilità, magari coinvolgendo altri musicisti, sicuramente per poter portare sui palchi la mia musica nel migliore dei modi, ma anche per aumentare la complessità e l’eterogeneità degli arrangiamenti in studio.

C’è qualche band della scena italiana che hai avuto modo di apprezzare ultimamente?
L’ultimo disco italiano che ho avuto modo di ascoltare è “IRA” di Iosonouncane, l’ho trovato bellissimo, anche se piuttosto impegnativo. Per il resto le cose che più mi hanno colpito in Italia appartengono alla scena elettronica, su tutti Caterina Barbieri (“Patterns of Consciousness” è forse il disco italiano che ho ascoltato di più negli ultimi anni) e Machweo (“Primitive Music”). Sono un grande fan dei miei compaesani Be Forest, Soviet Soviet e Maria Antonietta. Inoltre sto aspettando le nuove uscite dei Gomma e dei Gastone.
Poi ci sono una serie di band anglosassoni che attingono a un sound che adoro, soprattutto Fontaines DC, Squid, Dry Cleaning e King Krule (che ormai non è più così “nuovo”).

Il tuo album “Off the Fish Tank” è uscito in Musicassetta e Cd Digipack, i due formati principali degli anni 80 e 90 che sono gli stessi dei tuoi punti di riferimento musicali, è stata una scelta precisa o un semplice caso?
Per quanto riguarda la musicassetta devo ringraziare la Non Ti Seguo Records che ha creduto nel mio disco e l’ha usato come rampa di lancio per la sua nuova collana di musicassette, la Tigersuit Tapes. Per quanto riguarda il Digpack, invece, si tratta di una volontà mia: sono sempre stato legato al formato fisico degli album e di conseguenza volevo che anche il mio album potesse essere inserito in un lettore, ho scelto il Digipack perché trovo che sia il perfetto compromesso tra costi, facilità di ascolto (in fin dei conti il lettore CD, seppur in declino credo sia ancora ben presente nella maggior parte delle nostre case) e resa estetica (a tal proposito devo ringraziare Giovanna Fabi e Tommaso Baiocchi per l’artwork che adoro)

Ti sei trasferito a Bologna ma le registrazioni dell’album sono state fatte comunque a Pesaro, la tua città Natale, stai pensando di tornarci?
Attualmente lavoro a Pesaro e la vita del medico, fatta di concorsi e test, non mi permette ancora di stabilirmi in un posto fisso. L’idea è quella di sistemarmi in una città abbastanza grande in cui poter continuare a coltivare anche le mie passioni artistiche e musicali. Con Pesaro ovviamente ho un rapporto speciale, sia perché è la città in cui sono cresciuto, ma anche perché è forte di una scena artistica e musicale di tutto rispetto, il che è davvero peculiare per una città così piccola.

A quando le prime date live?
La speranza è quella di portare un po’ in giro la mia musica questa estate!

La Trappola di Dalian – Pillole rock

Ospiti di Mirella Catena ad Overthewall La Trappola di Dalian, autori del nuovo singolo “Pillole”.

Andiamo a conoscere una band torinese di recente formazione, con noi la voce de La trappola di Dalian, Sofia Cazzato: La trappola di Dalian si forma nel 2019 come Dalian’s Trap con testi e nome in inglese, per poi riproporvi come La trappola di Dalian con testi in italiano. Perché questo cambio di rotta?
Siamo passati alla scrittura in lingua italiana, spinti dal nostro produttore, eliminando questo “filtro” della lingua inglese, per comunicare al nostro pubblico, o a chiunque si avvicini alla nostra musica con interesse, in modo più diretto e consapevole. Il genere rock nasce in inglese, è vero, ma ciò non significa che debba essere uno standard. In tanti adottano la lingua inglese rispettando il classico cliché, sminuendo quella che è la vera indole del rock e affini, ovvero libertà, sfacciataggine ecc… Il cambio di lingua ha rappresentato una scelta artistica consapevole e rappresentativa.

Citiamo la line up attuale?
La band è formata da Alessio Piedinovi (Drake) alla batteria, Angelo Rizza (Spacchio) al basso, Lorenzo Borghetto (Lollo) alla chitarra e Sofia Cazzato (Sophia) alla voce.

Qual è il genere che proponete?
Chiamiamolo “Rock alternativo”: non è facile definire il nostro genere ma possiamo dire che sia un mix esplosivo di ciò che più ci piace. Partecipiamo tutti attivamente alla scrittura delle musiche e sicuramente ci accomuna una forte vena punk che é piuttosto evidente all’ascolto.

Il 22 febbraio di quest’anno esce il vostro secondo singolo con videoclip “Pillole”. Ci parlate di questa nuova uscita discografica?
“Pillole” nasce durante la prima quarantena e vuole descrivere i momenti che abbiamo vissuto, sia sul piano emotivo, sia su quello psicologico. I nostri testi sono intimi e personali, ci piace raccontare ciò che viviamo e come la pensiamo su determinati argomenti. Questo brano, ad un primo ascolto, può sembrare spensierato perché il sound è festoso, sostenuto. In realtà descrive un momento di frustrazione, monotonia ed angoscia che tutti abbiamo vissuto durante il primo lockdown. Ci piace giocare con il contrasto tra musica e testo: è il nostro modo di trasmettere le nostre emozioni, i nostri pensieri.

State lavorando a nuovi brani? Ci sarà un full length nei prossimi mesi?
Stiamo componendo tantissimo per produrre una serie di nuovi brani che andranno inseriti nel nostro primo album ma non escludiamo l’uscita di nuovi singoli prima della pubblicazione del nostro full-length. Valuteremo in corso d’opera, vista la situazione in cui imperversiamo a causa della pandemia.

Dove i nostri ascoltatori possono seguirvi?
Possono seguirci su Facebook al link https://www.facebook.com/latrappoladidalian/, mentre su Instagram ci troverete come @latrappoladidalian.
Potete ascoltare la nostra musica su Spotify, deezer, Tim music ed altre piattaforme digitali ma, se volete dare un’occhiata ai nostri videoclip ufficiali, vi invitiamo ad iscrivervi al nostro canale YouTube al link https://m.youtube.com/channel/UCjt2T1sKKsoNUvS3XC7KLMg, attivando la campanella per restare aggiornati sulle prossime nuove uscite.

Ascolta qui l’audio completo dell’intervista andata in onda il giorno 26 aprile 2021:

Massimo Pupillo – La nera prigione d’acciaio

Massimo Pupillo, messi da parte per un attimo gli Zu, ha tirato fuori un lavoro autografo dal fascino alchemico e dal profondo significato filosofico. Abbiamo contattato l’autore di “The Black Iron Prison” (Subsounds Records) per saperne di più.

Ciao Massimo, “The Black Iron Prison” è il tuo esordio da solista, quando hai avvertito per la prima volta l’esigenza di fare qualcosa che non portasse la firma degli Zu?
Ciao. In realtà la prima uscita non Zu che ho fatto credo sia del 2000, con i Dogon, quindi subito a cavallo del primo album Zu. Da allora ho pubblicato qualcosa come 18 album con Zu e più di 50 in varie formazioni parallele. E’ stato sempre un senso di curiosità reciproca verso le altre persone con cui ho lavorato a stimolarmi. Poi piano piano nella mia ricerca ha iniziato a venir fuori un suono che poteva esistere anche da solo, si è rafforzato ed affinato negli ultimi anni e continua ad evolvere.

Particolare il titolo, pare quasi che saltate le catene ti legavano agli Zu, tu ti sia ritrovato in una prigione d’acciaio nero! Immagino che la mia sia una ricostruzione fantasiosa, mi può spiegare tu il vero significato del nome del disco?
Il titolo deriva da una visione espressa da Philip K Dick nella sua trilogia Valis. La Black Iron Prison è un sistema di controllo globale onnipervasivo. Non ne vedi le tracce nel mondo che ci circonda? Valis è un acronimo per vasto sistema vivente di intelligenza artificiale. Calcola che Dick scriveva di queste cose a fine anni 70, Valis fu pubblicato nel’81. E diceva chiaramente che per lui la fantascienza era solo un modo efficace di trasmettere quello che vedeva. Spero che questo invogli qualcuno a leggerlo!

A conti fatti, credi che questa esperienza da solista ti abbia fatto crescere come musicista o il tuo cammino formativo era già concluso e questo n’è l’apice?
Assolutamente no, non credo che per me nulla e nessun luogo sia l’apice. E’ una percorso formativo come lo chiami tu, continuo e virtualmente infinito. Come diceva Coltrane ci sono sempre nuovi suoni da trovare e nuove storie da raccontare, basta pulire lo specchio. A conti fatti, non ci sono nemmeno conti fatti.

Ti senti un innovatore?
Non mi vedo in quel modo. Non credo all’innovazione per sé come un valore, quindi ti risponderei di no.

Come dicevi prima, chi ha sicuramente innovato il proprio settore di competenza, anticipandone anche alcune tematiche stilistiche e contenutistiche è Philp K. Dick, cosa ti ha spinto a musicare alcune delle sue novelle? E credi che ci sia un filo conduttore tra le vostre opere?
L’unico filo conduttore può essere quello che considero Dick un maestro e anche, perdonami il parolone, un profeta. Lo puoi leggere come intrattenimento e non c è nulla di male, oppure puoi lasciare che l’ universo dickiano ti insegni a ripensare il tutto, come potrebbe fare un grande filosofo antico.

In questi anni hai collaborato con alcuni grandi nomi del rock come Mike Patton (Faith No More), Buzz Osborne (The Melvins) Thurston Moore e Jim O’ Rourke (Sonic Youth), Stephen O’ Malley (Sunn O)))) , Joe Lally , Guy Picciotto (Fugazi), Damo Suzuki (Can), Eugene S. Robinson (Oxbow), Steve MacKay (The Stooges), cosa ti è rimasto di queste esperienze che poi hai sfruttato per questo disco?
In qualunque cosa fai, se è fatta col cuore al posto giusto, ti rimane qualcosa dentro. A volte impari, a volte impari cosa non fare, a volte assorbi, a volte dai. Ma questo non può essere relegato solo alla fama delle persone con cui collabori. Non ho mai pensato in questi termini. Ogni volta collaborare era davvero una spinta comune, spesso nata dall’ amicizia e proiettata verso un lavoro, un suono, una visione o una storia da raccontare. Ma sicuramente ho imparato altrettanto sul suono passando circa sei mesi da solo col fonico degli Zu (e mastermind dei Lento) Lorenzo Stecconi ad assemblare e ricomporre tutte le parti del nostro album “Jhator”. E in tantissimi altri incontri grandi e piccoli lungo la strada.

Però per “The Black Iron Prison” hai deciso di fare tutto da solo, non ricorrendo ad ospiti, scelta conscia o inconscia?
Il tema di questo lavoro viene espresso nell’ immagine di copertina, l’ alchimista, solo (anzi a ben guardare accompagnato da un corvo nero) che medita sulla Nigredo. Esprime dei processi interiori che avvengono in solitudine e che solo in solitudine potevano essere messi su nastro.

Se le cose dovessero sistemarsi, porterai il disco dal vivo ed, eventualmente, ti farai accompagnare dai dei musicisti?
Sì. ho già presentato un live di “Black Iron Prison” al Romaeuropa Festival di quest’ anno. Ovviamente è un solo, anche se accompagnato da vicino sempre da Lorenzo Stecconi al mixer, che ha un gran lavoro a seguire tutto quel che succede. 

Rocky Horror Fuckin’ Shit e Pino Scotto – L’unione fa la forza

Da qualche tempo su è giù per lo Stivale si aggira una combriccola ben assortita, composta dalla leggenda del metal tricolore Pino Scotto e dai ragazzi dei Rocky Horror Fuckin’ Shit. A giudicare dalla frenetica attività live dei nostri, il connubio s’è rivelato vincente. Pino Scotto e Giovanni “Justice” Placido, le due voci del progetto, ci hanno raccontato come è nata questa collaborazione.

“Tutto è nato col nostro singolo – da cui poi è stato tratto anche un video – ‘Lo Spazio Che Ti Spetta’, a cui Pino ha partecipato. È un vecchio amico di Francesco, il nostro bassista, lui gli fece ascoltare i provini del nostro ultimo lavoro, all’epoca in fase di preparazione. E, a distanza di qualche anno, il sodalizio continua” ci racconta Giovanni. “Alla base di questa unione c’è l’amicizia, mi sono innamorato artisticamente dei Rocky Horror, il loro sound può sembrare non faccia parte del mio mondo” continua Pino “ma per me ci sono solo due tipi di musica: la musica e la musica di merda! Io vado ad istinto, loro sono Rock, ed è per questo siamo diventati una grande famiglia!”. Da quel momento in poi quantificare i chilometri macinati insieme è diventata impresa ardua “il side project Pino Scotto & Rocky Horror è relativamente giovane, ma abbiamo calcato assieme già diversi palchi all’interno del nostro Sciogli Il Tempo Tour” continua Giovanni, specificando che il repertorio proposto è “un mix tra la nostra scaletta e quella di Pino – da solo e coi Vanadium – usando il singolo succitato come ponte fra questi due pianeti dell’universo Rock.” Il passo successivo pare, inevitabilmente, un disco insieme “chissà, magari in futuro. Al momento però abbiamo firmato assieme il brano di beneficenza ‘Via Di Qua’, il cui intero ricavato delle vendite sarà devoluto ai bambini del programma Rainbow Projects. Hanno partecipato con noi: Omar Pedrini (ex Timoria), Bunna e Madaski (Africa Unite), Terron Fabio (Sud Sound System), Trevor e Tommy Talamanca (Sadist), Andrea Rock (Virgin Radio E Rezophonic), Andy (Bluvertigo), Pier Gonella (Necrodeath), Skandi (Vallanzaska), Ivano Grieco (Krikka Reggae). Nel video sono presenti anche: Davide Moscardelli (u.s. Lecce), Nuzzo Di Biase (Quelli Che Il Calcio), Cisco (Le Iene), Vittoria Hyde (Virgin Radio), Michele “Wad” Caporosso (Radio Deejay), Daniele Selvitella (Radio 105 Network), Stefano Agliati (Rock Tv), Betty Style, Giorgia Gueglio (Mastercastle), Manuel Tataranno ed Enzo Russo (Krikka Reggae) e tanti altri!” A questo punto è il singer napoletano a prendere la parola, uno che ha sempre lavorato volentieri con altri artisti: “tutte le collaborazioni che ho fatto non sono state mai per interesse, ma per curiosità. Di qualcuna poi” ammette “mi sono anche pentito a livello umano, senza nulla togliere al pezzo in se. Gente che arrivava da me col pugno alzato e poi te li ritrovi nei reality! Al di la di tutto però, ognuno di loro mi ha insegnato qualcosa!”Neanche i RHFS in passato sono stati immuni a collaborazioni di vario genere, Giovanni ce le racconta così “in ‘Sciogli Il Tempo’, ad esempio, abbiamo invitato tantissimi amici e colleghi: Simone Martorana (Folkabbestia), Nico Mudù (Suoni Mudù), Vince Carpentieri (ex Almamegretta), MR. T-Bone (ex Africa Unite e Giuliano Palma & The Bluebeaters), Dj Argento, Dj Fede, ecc.” Però dalla data di pubblicazione di quel disco sono trascorsi già un paio d’anni, è giunto il momento di tirar fuori materiale nuovo, come ci conferma il cantante dei foggiani “siamo già al lavoro sul prossimo full-lenght, nel frattempo prosegue la promozione per l’uscita del singolo/video ‘Non C’è Tempo’ con Ru Catania (Africa Unite) e Luca (Los Fastidios).” Mentre Scotto non nasconde, parlando di futuro, la propria voglia di stupire ancora “spero che in ogni concerto, ogni volta che appaio sullo schermo, io possa essere una sorpresa per chi mi segue. A volte sorprendo anche me! Passano gli anni, ma la mia rabbia contro le ingiustizie non è mai doma!” Due generazioni di rocker differenti, diverso modo di vedere la situaziona della scena musicale di casa nostra, più insoddisfatto l’ex Vanadium “il problema è sempre lo stesso: vanno avanti esclusivamente i soliti raccomandati!”, meno drastico il più giovane dei due “io sono un’ottimista, lo spirito c’è, forse serve un po’ più di concretezza!” Messa da parte per un attimo la consueta rabbia, Pino lancia, in conclusione, un messaggio d’apprezzamento per la nostra testata “un saluto a tutti i vostri lettori ed un grande augurio a Metal Hammer, rivista che stimo molto, in quanto continua stoicamente ad andare avanti per la propria strada!” Proprio come lui!

Intervista rilasciata originariamente nel 2017 su Metal Hammer Italia in occasione del tour Rocky Horror Fuckin’ Shit e Pino Scotto.
http://www.metalhammer.it/interviste/2017/03/08/rocky-horror-fuckin-shit-e-pino-scotto-lunione-fa-la-forza/