Discordance – Geometrie sonore

Ospiti di Mirella Catena su Overthewall, i Discordance, da poco fuori con l’album “Vertex” (Buil2kill Records / Nadir Promotion).

La band si forma già nel 2007 iniziando a suonare death metal con influenze grindcore per poi orientarsi verso un sound decisamente più ricercato e tecnico. Com’è avvenuto questo “passaggio” e chi ne è stato l’artefice?
Effettivamente, come hai notato, c’è stata un’importante evoluzione del nostro sound. Da sonorità ispirate alla vecchia scuola del death metal (Suffocation e Napalm Death, di cui ai tempi proponevamo la cover di “Malicious Intent”) ci siamo spostati verso altre più moderne, ispirata a gruppi come Obscura, Origin e i francesi Gorod. Sebbene il principale compositore dei testi sia Alessio/Gibo, si è trattato di un passaggio naturale che ci ha visti tutti concordi. Pensiamo che nel 2022, in un panorama a dir poco più inflazionato, sia necessario provare a ritagliarsi una propria “nicchia”, con un proprio sound distintivo. Crediamo (e speriamo) che uno dei nostri principali pregi sia quello di non esser immediatamente accostabili a nessun altro gruppo, anche se i riferimenti sono ben presenti, com’è naturale.

Com’è composta l’attuale line up?
L’attuale line up, ormai stabile da circa tre anni, vede Alessio Giberti alla chitarra, Andrea Gaeta al basso, Francesco Benvenuti alla batteria e Francesco “Oxe” Sita, ultimo entrato, alla voce.

“Vertex” è il vostro secondo album in studio uscito a fine 2021. Ci parlate di questo nuovo lavoro discografico?
La scrittura dei pezzi che compongono il nuovo album è iniziata verso la fine del 2016 e si è completata nel 2019, con “Imposition of a Cosmic Lithany”, dopodiché a gennaio 2020 siamo entrati in studio. Per le registrazioni abbiamo puntato su un suono potente ma al contempo naturale e non iper-compresso come va un po’ di moda oggi. Dopo aver ascoltato alcuni suoi lavori, la nostra scelta è caduta sugli Art Distillery Studios di Claudio Mulas a Modena (https://www.facebook.com/artdistillerystudios/), e secondo noi si è trattato della scelta vincente. Oltre ad essere un grande professionista, Claudio ci ha dato importanti consigli ed è stato estremamente paziente nella fase di mixaggio e di mastering, anche quando gli abbiamo chiesto decine di modifiche infinitesimali. Il Covid ha reso tutto il processo più lento e difficile, oltre a complicare la comunicazione tra di noi e con Claudio, ma ha avuto un effetto benefico perché, non avendo alcuna fretta di pubblicare il disco, abbiamo discusso e meditato ogni singola nota del disco! Il disco è uscito per Buil2Kill Records, mente per la promozione ci siamo affidati alla Nadir Promotions di Trevor dei Sadist, il quale sta facendo un ottimo lavoro.

“Vertex” ha messo d’accordo pubblico e addetti ai lavori, proponendo eccellenti esecuzioni come nell’album precedente ma conservando echi dell’EP di debutto. Può essere considerata una sorta di “maturazione” del sound della band?
Come dicevamo, indubbiamente sì. Rispetto al disco precedente “In the Shadow of Leaves”, uscito nel 2017, abbiamo abbandonato alcune soluzioni eccessivamente “tecniche” ma che trovavamo fini a se stesse, così come altre eccessivamente violente e “muscolari” (anche in senso fisico, specialmente per quanto riguarda la batteria!), proseguendo nel nostro impegno di una maggiore personalizzazione del suono. Siamo già al lavoro su tre nuovi brani: sono piuttosto diversi tra loro e crediamo che possano costituire la naturale evoluzione di “Vertex”.

Ho parlato prima dell’eccellente esecuzione di riff e assoli ma anche basso e batteria riescono ad emergere spesso in maniera preponderante. Chi è o chi sono i principali artefici della composizione?
Ti ringraziamo per i complimenti, che “giriamo” virtualmente a Claudio degli Art Distillery Studios. Ovviamente abbiamo provato fino allo sfinimento prima di iniziare le registrazioni, ma senza il suo contributo non sarebbe stato possibile ottenere un prodotto così professionale. Per quanto riguarda la composizione, il principale responsabile è Alessio, “Gibo”, che solitamente arriva in sala prova con alcuni riff e un’ossatura del pezzo. Quando ci ritroviamo per le prove, Andrea e Francesco non solo “studiano” i riff di Gibo, affinando le rispettive parti di basso e batteria, ma danno il proprio contributo alla composizione con suggerimenti e proposte, ad esempio con riguardo al numero delle ripetizioni, alle pause, alla velocità di esecuzione, alle parti di collegamento tra le varie sezioni e così via. I Discordance non sono, insomma, uno di quei gruppi in cui alcuni membri si limitano a imparare un pezzo già pronto. I testi e tutto ciò che attiene alla voce, invece, sono di competenza di Oxe.

Nell’album sono inseriti due brani in lingua italiana. Come mai questa scelta e quali sono le tematiche che affrontate?
Oxe, il cantante, si occupa di sviluppare le metriche e i concetti dei pezzi, è entrato nel gruppo durante la stesura dell’ultimo lavoro. Nello specifico “Vertex” si concentra sulla matematizzazione e sulla geometrizzazione della natura e sulle implicazioni morali che ne possono derivare, ovvero sulle conseguenze pratiche dell’attribuzione del numero al cosmo. Nell’album si spazia da temi quali la ricerca dell’immortalità tramite lo sfruttamento della natura fino a metafore sull’Uno neoplatonico, come anche tratta del tentativo dell’uomo di superare quei confini determinati dalle geometrie che attribuiamo alla realtà, quelle figure e vertici impossibili da superare entro i quali si esercita il raziocinio dell’uomo. La lingua italiana è usata nel ritornello di “Schema” e in tutto il brano “La mia memoria”. Per quanto riguarda “Schema” si è scelto di scrivere il ritornello in italiano per questioni concettuali, che sono poi sfociate in un intervento stilistico. Schema infatti significa, dal greco antico, configurazione, forma. Quel “percepisci-la geometria-dello schema” sta proprio ad intendere come la realtà semplificata tramite la geometria si configuri come un modello più facilmente analizzabile e sfruttabile. Per quanto riguarda invece “La tua memoria”, sono stati fatti vari tentativi: questo brano è connesso direttamente a “Schema” come si può dedurre dalle parole “…rinuncia allo schema”, che intendono essere sia una forte critica alle opinioni meramente soggettive che vogliono intendersi come verità assolute e la cui unica argomentazione è unicamente quella della libertà di espressione, ma anche come una sottile esortazione a non intendere la matematizzazione della natura come unica forma conoscitiva.
La copertina, realizzata dal fratello di Oxe, Paolo, rappresenta l’universo attraverso la raffigurazione del dodecaedro platonico e si inserisce a pieno titolo nel concept dell’album.

Dove i nostri ascoltatori possono seguirvi sul web?
Nel ringraziarti per l’intervista, invitiamo tutti gli ascoltatori a seguirci sulla pagina facebook (https://www.facebook.com/discordanceband), dove pubblicheremo le news e – sperando si possa ritornare quanto prima alla piena normalità – le prime date di promozione del disco. Per ora, è confermata quella del 25 a Ferrara, nella nostra città. Abbiamo inoltre in produzione il nostro primo videoclip, mentre sono già in stampa delle magliette fichissime, basate su un artwork alternativo realizzato a mano. L’album Vertex è disponibile su tutte le piattaforme di streaming, come Spotify e Apple Music, mentre sul nostro canale YouTube (https://www.youtube.com/channel/UCZKicc2a5y3MoIqwzqE5xFw) è possibile ascoltare gratuitamente tutta la nostra discografia. Per chi volesse fornirci un supporto più “concreto”, vi invitiamo a visitare la nostra pagina bandcamp http://discordance1.bandcamp.com/ o a rivolgersi direttamente a noi attraverso la pagina facebook.
Grazie ancora per il supporto!

Ascolta qui l’audio completo dell’intervista andata in onda il giorno 14 febbraio 2022.

Tommy Talamanca – Flussi sonori

Dopo ben nove album pubblicati con i Sadist – in attesa che il decimo, “Firescorched”, esca a maggio – Tommy Talamanca si lancia in una nuova avventura, questa volta solista. “Atopia” (Nadir Music), pur mantenendo quei tratti unici che caratterizzano da sempre il sound dei Sadist, presenta ai fan del musicista genovese nuove, e forse anche inaspettate, sonorità.

Ciao Tommy, cosa provi quando leggi il tuo nome sulla copertina di un disco e non quello dei Sadist?
Non mi reputo tanto più egocentrico della media delle persone, alla luce anche del lavoro che faccio, ma certo l’ego gioca un ruolo determinante nelle scelte di vita, e forse è spesso un motore molto importante. D’altro canto, anche far parte di un’entità condivisa con altri, come può essere un gruppo rock, come una qualsiasi altra persona giuridica, può risultare altrettanto stimolante per il proprio ego. Nel mio caso, 30 anni di vita pieni di alti e bassi, grandi soddisfazioni e grandi delusioni, non sono pochi.

Credi che non avere il logo pesante della tua band sul disco ti lasci maggiore libertà oppure ti responsabilizzi maggiormente?
Non avere altri referenti se non se stessi può essere anche molto spiazzante, voglio dire, l’unico giudice vero che abbiamo è il tempo, credere che il giudizio degli altri sia altrettanto autorevole quanto il giudizio della storia, rientra nel difetto antropologico di ritenerci così importanti. Condividere le scelte con altri, soprattutto quando poi si potrebbero rivelare sbagliato, è un segno di debolezza più che di forza.

Cosa c’è in “Atopia” che non hai mai proposto nelle tue uscite precedenti?
Il mio amore per l’hard rock anni 80, più che altro in alcuni episodi cantati da Gloria. Spero comunque che il disco risulti all’ascolto per come l’ho concepito: una raccolta di composizioni interessanti e, sperabilmente, gradevoli.

Quando e come sono nati questi brani?
Le composizioni dei brani sono andate parallelamente alla scrittura del nuovo Sadist, o, più prosaicamente, in “Atopia” sono confluite tutte le idee meno marcatamente metal. Anche se Sadist è una band che spesso si lancia in territori avanguardistici, è giusto porsi dei paletti: la componente metal deve essere sempre preponderante.

Quando hai scritto i brani in cui compare, avevi già in mente di affidarti alla voce di Gloria Rossi?
Forse è più giusto dire che alcuni brani sono nati di conseguenza alla collaborazione con Gloria, che lavora già da qualche anno in Nadir Music in qualità di vocal coach ed insegnante di canto. Scrivo spesso musica per altri, per lo più solisti pop, ma è stato molto stimolante poter comporre brani smaccatamente poppeggianti per piacere e non solo per esigenze lavorative.

“Darlking Glades” è stato scelto come singolo di presentazione dell’album, credi che sia il brano più rappresentativo del disco?
Il brano più rappresentativo dell’album è sicuramente il secondo singolo “The Flow”, la cui uscita è coincisa con la pubblicazione stessa dell’album: un mix di pop e rock con incursioni nella world Music.

Forse per la presenza di una voce femminile e per alcuni suoni, questo disco mi ha fatto pensare a “Crisis” di Mike Oldfield. Paragone troppo azzardato il mio?
Non so se il paragone sia azzardato, è di certo lusinghiero. Prima di essere un chitarrista, ancorché un chitarrista rock, sono un musicista: il rock per me è un vestito, ne più ne meno come qualsiasi altro tipo di scelta stilistica. Ci sono brani così belli che possono vestire qualsiasi abito: prendi per esempio “Yesterday”. Ecco, scrivere un bel brano è per me l’aspirazione più grande; questo è il motivo principale della cover, riarrangiate, di “Fog”, un pezzo dal potenziale enorme.

Mi hai anticiparto, stavo giusto per chiederti: come mai hai pensato di riproporre “Fog” e “Holy” dei Sadist in una nuova versione?
Mi ricollego a quanto appena detto a proposito dell’importanza del giusto arrangiamento di un brano. Ritenevo che “Fog” meritasse una seconda occasione, alla fine la sua unica colpa era stata quella di essere finita su un brutto disco. “Holy” invece è secondo me un brano che non richiede grandi riarrangiamenti, e l’aggiunta della voce non stravolge un brano che di per sé funzionava già nella sua versione originale. Pensavo comunque potesse essere presente anche in questo album.

Proporrai le canzoni di “Atopia” dal vivo o resterà un progetto da studio?
Navighiamo a vista, più del solito: difficile fare progetti in tal senso. Ora torno a concentrarmi su Sadist, che esce tra pochi mesi. Alla fine io sono un artigiano della musica, lascio che le cose procedano in base alla necessità del momento, e se nel mentre riesco a scrivere della musica interessante, alla fine il mio viaggio non sarà stato infruttuoso.

Rawfoil – Evoluzione in atto

Attivi dal 2009, i Rawfoil tornano sulle scene con un singolo intitolato “Prowler” (Buil2Kill Records / Nadir Promotion), trattasi della cover del celeberrimi brano degli Iron Maiden. Abbiamo colto l’occasione, per farci spiegare dal frontman, Francesco Ruvolo, quali siano i progetti della band nell’immediato futuro…

Francesco, davvero grazie per la tua disponibilità a questa intervista, ti do il benvenuto al Raglio del Mulo. Prima di parlare del vostro ultimo singolo, che ne diresti di far conoscere la band ai nostri lettori?
Ciao a tutti i lettori di Raglio Del Mulo e intanto grazie per lo spazio che ci dedicate! Leggo spesso le interviste che fate alle band e le trovo sempre interessanti! Comincio subito, i Rawfoil sono una thrash metal band nata nel 2009, dalla zona nord di Milano. Abbiamo cominciato suonando delle cover di vari artisti, per cercare di trovare il genere che più ci piaceva, e il thrash ha unito subito tutti. Dopo una lunga serie di concerti e di cambi di line up, siamo riusciti nel 2018 a pubblicare il nostro primo album “Evolution In Action” per Punishment 18 Records e all’inizio del 2020 un Ep chiamato “Tales From The Four Towers” uscito per Builtokill/Nadir Records. Entrambi i dischi sono piaciuti molto e sono parecchio seguiti dai nostri fans, cosa che ci rende veramente fieri di noi.

Quali sono i vostri ascolti abituali?
Sarà una risposta molto comune, ma ascoltiamo veramente di tutto! Ed è un nostro punto di forza, anche nella scelta e nella composizione della nostra musica. Per esempio Marco e Tommaso, rispettivamente batteria e chitarra, ascoltano un sacco di generi extreme, tra cui death, deathcore, grind e simili, e infatti queste influenze si sentono parecchio quando viene messa mano da loro nei nostri brani! Ruben e Lorenzo invece, ovvero chitarrista e bassista, variano tantissimo anche su altri generi, come il blues, la fusion e il jazz. Io personalmente apprezzo tantissimo quasi ogni genere, in questo specifico periodo passo volentieri dallo ska-punk al djent, al prog metal più moderno.

Come definiresti il vostro sound? E come è cambiato nel corso degli anni?
Ecco! Questa domanda è insidiosa veramente, perché non so mai come definire il nostro sound nella maniera più ottimale! Diciamo che negli anni ci siamo evoluti – perché invecchiati ci suona male – e abbiamo cercato di migliorare il nostro genere di riferimento, ovvero l’old school thrash metal, in un thrash più moderno, caratterizzato dall’unione di diversi stili. Per fare un esempio, un ascoltatore nei nostri lavori, può trovare spunti death metal, power metal, prog, ma anche riferimenti un po’ più nascosti ad altri generi come il nu metal o il metalcore. Siamo sempre in evoluzione, come indica il nostro primo album, e non è detto che nel prossimo album ci siano anche canzoni ben diverse dal nostro solito genere!

Quali sono le band che vi hanno influenzato maggiormente?
Sono praticamente infinite, direi che non ci sono delle band di riferimento particolari anche perché nella nostra storia abbiamo veramente preso spunto da praticamente ogni genere.
Ti faccio dei riferimenti precisi cosi da darti un idea. In una delle canzoni del prossimo album per esempio, ho preso spunto da alcune canzoni di Al Wilson, cantautore soul degli anni 60-70, mentre per altre ci siamo rifatti molto ai Revocation! Insomma il nostro background è molto vario e ci piace proprio che nei nostri pezzi non ci sia quasi mai un riferimento chiaro, ma un misto di suoni che lasciano all’ascoltatore la libertà di trovare delle affinità personali.

Chi è o chi sono i fautori del songwriting della band? Chi si occupa delle composizioni?
La cosa che ci piace di più nell’ultima line up che abbiamo, è che tutti mettono del loro, non solo nel proprio strumento ma anche negli altri! Questa cosa ci ha uniti parecchio e il risultato che sta venendo fuori spesso è molto più efficace rispetto al passato, dove invece alcuni componenti non mettevano mano o quasi nelle decisioni degli altri. Quando riascoltiamo quello che stiamo facendo ci rispecchiamo molto di più, e sono sicuro che questo metodo lo utilizzeremo anche per i prossimi lavori!

E dei testi che mi dici? Quali sono gli argomenti trattati?
Gli argomenti che trattiamo nei testi, li stabiliamo in base al disco o Ep che facciamo. Per esempio il primo album è un misto di emozioni, storie di vita vissuta e fatti reali successi nel mondo, mentre l’Ep è molto più goliardico, e racconta un immaginario che abbiamo scelto in cui quattro “eroi” vivono delle storie assurde che, oltre a far sorridere, raccontano comunque delle scene interessanti. Poi c’è “Thick Slices” invece che è un chiaro e voluto tributo allo chef Tony della famosa pubblicità dei coltelli Miracle Blade, che ha fatto e fa parte dell’infanzia di tutti quelli che si collegavano alla televisione di mattina!

Il vostro primo (e ad ora unico) full “Evolution In Action” è datato 2018, dopo “Prowler” e il precedente EP “Tales from theFour Towers” uscito nel 2020, state lavorando ad un nuovo album completo? Puoi darci qualche anticipazione sui vostri “movimenti”?
Sì, stiamo lavorando al prossimo album, che speriamo veda le luci proprio questo anno! Abbiamo già praticamente scritto tutti i pezzi e ora ci chiuderemo nella nostra sala prove per affinare il tutto, cosi da partire alla grande nella scelta dello studio di registrazione! Come anticipazione posso dirti che sarà un disco molto più maturo rispetto ai precedenti, e ci siamo messi in gioco parecchio!

Adesso tocchiamo un argomento caldo… quasi tabù, visti i recenti avvenimenti: avete parlato della possibilità di programmare concerti?
Nell’anno appena passato siamo riusciti a suonare qualche volta, divertendoci veramente tanto e dando l’occasione al nostro nuovo membro Tommaso, di fare i suoi primi live, avendo appena 18 anni doveva essere svezzato! Mentre per il primo periodo del 2022, abbiamo pensato di non prendere impegni live proprio per concentrarci a dovere sul lavoro dell’album nuovo! Quasi fatto apposta, anche perché personalmente non vedo la situazione ancora cosi rosea per dei concerti come si deve! Ma speriamo ovviamente che una volta pronti, i nostri live possano essere ancora meglio di prima!

Ho ascoltato il vostro ultimo singolo “Prowler”, che chiaramente tratta una cover degli Iron Maiden, l’ho trovata davvero notevole, eseguita con assoluta maestria. Da cosa nasce l’idea di fare uscire questo singolo?
Ti ringrazio e sono contento che ti sia piaciuta! L’idea nasce dal fatto che volevamo cimentarci in una cover, rendendola nostra, unendo ciò che sappiamo fare a ciò che di grande ha fatto una band come gli Iron Maiden! Siamo stati veramente entusiasti del risultato e lavorare su una cosa del genere ci è piaciuto tantissimo! Abbiamo scelto proprio “Prowler” perché, essendo il primo pezzo del primo album degli Iron, ci siamo immaginati che cosa pensava la gente quando ancora la band era conosciuta a pochi, e mettendo la puntina sul vinile, partiva proprio questa canzone! Ovviamente adoriamo questa band, e speriamo che questo nostro tributo sia gradito a tutti i nostri fans ed a tutti gli amanti degli Iron Maiden!

Time out, Francesco! Ti ringrazio molto per questa piacevole chiacchierata. A te la parola, concludi quest’intervista come vuoi!
Ringrazio tantissimo tutti voi e i lettori! Vi lascio dicendo a tutti che nonostante questi ultimi due anni siano stati un buco nero, con la musica si riesce a risalire da ogni caduta! Non precludetevi la possibilità di ascoltare nuova musica, di conoscere nuove persone e di realizzare sogni e speranze che si sono assopite in questo periodo! E mi raccomando… thrash on!

Athlantis – The seventh wonder

L’avventura degli Athlantis di Steve Vawamas pare giunta al termine con il settimo sigillo, quel “Last But Not Least” da poco pubblicato dalla Diamond Prod. (Nadir Promotion). In attesa di scoprire se Atlantide sorgerà nuovamente dalle acque tra qualche anno, abbiamo discusso del disco d’addio con il leader della band.

Ciao Steve, possiamo definire gli Athlantis una sorta di all star band dell’heavy\power metal tricolore?
Ciao Giuseppe, prima di tutto grazie per avermi concesso questa intervista. Inizio con il dire che le all star band del panorama tricolore sono altre, noi siamo dei musicisti che nei vari progetti abbiamo dato anima e note per questo tipo di musica e abbiamo cercato sempre di dare il meglio in primis per noi stessi e poi per gli altri. Athlantis nasce come un mio side project e ho avuto la fortuna di condividere le mie idee con degli ottimi musicisti della scena italiana, ma più che altro degli amici che si sono offerti per la realizzazione dei miei sette album. E poi forse se dovessimo essere delle all star non sta me a dirlo ma al pubblico che ci ascolta e ci segue

Ormai siete attivi come Athlantis da quasi due decenni, come si superano gli ego personali per operare come una vera e propria band, nonostante individualmente abbiate tutti una storia prestigiosa?
Due decenni? Caxxo passa il tempo! A parte gli scherzi, gli Athlantis come dicevo prima nascono come un mio side project, non esistono ego personali. Le cose sono ben chiare dall’inizio, io tiro giù le stesure dei pezzi, poi c’è una telefonata in cui dico ai ragazzi che c’è da registrare un disco e, dopo la risposta degli altri subito affermativa, si inizia a registrare. Sono del parere che la band deve essere composta da un leader e gli altri collaboratori, a volte le idee dei collaboratori sono meglio delle idee del leader, e sta al leader essere umile ed accettare dei consigli. Poi se i consigli vengono da gente di un certo calibro ecco che il lavoro viene più semplice e senza menate di balle.

Ti andrebbe presentare l’attuale line-up?
Grazie per la domanda, lo faccio con grande piacere. Per questa mia ultima creatura mi sono avvalso del mio fidato chitarrista Pier Gonella, con lui tutte le cose diventano più semplici. Io e lui collaboriamo anche nei Mastercastle da anni e ha suonato in quasi tutti i dischi degli Athlantis. Alla voce il mitico Davide Dell’Orto, già cantante dei Verde Lauro e dei Drakkar. Lo trovo un grandissimo cantante professionale sempre sul pezzo e, ormai dopo tre dischi, siamo diventati amici: questo va oltre la musica e ci piace! Alla batteria ho avuto il piacere di avere uno dei migliori batteristi della scena metal italiana, cioè Mattia Stancioiu. Un sogno che si è realizzato: dal primo momento che lo ascoltai in una data nei Labyrinth nel lontano 98 ho sempre sognato di registrare con lui e il mio sogno si è realizzato. Grande musicista e professionista, una goduria suonare il basso sulle sue parti di batteria. A completare la line-up, c’è Stefano Molinari alle tastiere, un amico e un grande musicista che è entrato nelle fila degli Athlantis ben tre dischi fa. Voglio citare anche Stefano Galleano, il capo dei Ruxt che come nel precedente disco mi ha scritto un pezzo della madonna: la nostra collaborazione va avanti da anni nel suo progetto e ancora ne vedremo e sentiremo delle belle.

A fronte delle modifiche nella formazioni intercorse in questi anni, qual è l’elemento che non è mai mancato nei sette album finora pubblicati?
Io…… ahahahahahaha!!! A parte un disco, che è “Metalmorphosis”, dove le chitarre sono state registrate da Tommy Talamanca, tutti gli altri sono stati registrati da Pier Gonella. Sì, sono cambiati i batteristi, i cantanti, ma Pier è sempre stato l’elemento fondamentale.

Qual è la vera novità stilistica introdotta con “Last But Not Least”?
M guarda grandi novità non ce ne sono. Come dico sempre in ogni intervista, io sono un amante del power metal e cerco di tenermi su quella linea, ma poi mi rendo conto che le mie idee sono libere da etichette. Nella stesura dei pezzi è presente una sorta di tirare giù emozioni del momento, dipende molto da come mi sento emotivamente in quel periodo: in questo disco mi è venuta voglia di tirare giù argomenti anche sociali, purtroppo questo disco l’ho tirato giù nel periodo di pandemia, e cioè nel primo lockdown, quindi ti lascio immaginare il mio stato d’animo. Ma sono molto soddisfatto del lavoro svolto.

Immagino che il titolo, “Last But Not Least”, abbia anche un contenuto ironico, ma dovendolo porre all’interno di una ipotetica classifica di importanza dei vostri dischi, in quale posizione si piazzerebbe?
Ora ti spiego in poche parole perché quel titolo: ho deciso che, come settimo disco questo, dovrebbe essere l’ultimo per gli Athlantis. Come le meraviglie del mondo sono 7, anche le meraviglie degli Athlantis devono essere 7 (presunzione mia ahahahaha)! Ho deciso di fermarmi e continuare con i progetti che ho in piedi – Ruxt, Mastercastle, Bellathrix – e altre cose. Quindi essendo l’ultimo Athlantis, ho pensato bene di intitolarlo così, l’ultimo ma non di importanza. Forse questo è il disco più importante, ho raggiunto una maturità come musicista e adesso anche come produttore, anche perché questo disco è stato registrato mixato e masterizzato presso il mio studio Steve Vawamas Studio.

L’inizio del disco mi ha ricordato la manopola che gira, cercando una stazione radio decente, dell’EP degli Helloween (1985): si tratta di un tributo oppure è una cosa nata spontaneamente senza alcun riferimento coi tedeschi?
Ahahahhahah, io sono un vecchio e quella radio che girava e poi partiva il gingle di “Happy Halloween mi ha segnato! L’ho vissuta e me la porto dentro come un cameo della storia del power. Mitici Helloween! Invece, per quanto mi riguarda, essendo l’ultimo disco Athlantis, volevo ripercorrere in pochi minuti i sei dischi precedenti. Come ben noti nella copertina, nei quadri sono rappresentate le sei copertine degli album passati. Quando si chiude un capitolo, si guarda sempre quello che si è fatto dietro, e io l’ho voluto rappresentare, oltre che nella copertina, anche in audio. E quale elemento se non la manopola della radio che girando trova uno stralcio di un pezzo di ogni disco? Comunque, gli Helloween inconsciamente mi hanno influenzato…

Dal punto di vista lirico, mi sembri molto concentrati sul presente, come hai accennato prima: credi che l’artista possa estraniarsi dall’ambiente in cui vive o abbia la responsabilità di dire cosa non va nella società?
Quando scrivo i testi, in prima battuta butto giù le mie sensazioni del momento. In primis quello che regna sovrano in tutti i miei dischi è il bene e il male, questo contrasto che mi perseguita sin dal primo disco. In questo l’ho voluto esprimere in fatti che accadono attualmente, ho voluto descrivere l’amore sia fisico che spirituale e ho voluto esprime il male: uno stupro, la violenza sulle donne e anche l’abbandono del tuo amico più fidato, il cane. Argomenti che quando li sento mi fanno rabbrividire. Ci tengo a specificare che la voce del cane è di Willy BAUamas e cioè il mio ciuffi truffi bau (il mio cagnolone) e colgo l’occasione di dire che se abbandoni un cane meriti una vita di stenti e grandi sofferenze. Scusa, ma questo dovevo dirlo! Sono per la libertà di espressione, uno può dire quello che vuole nei suoi pezzi. Se gli argomenti sono a livello culturale o livello sociale basta che dia un buon messaggio e aiuti certa gente a capire cosa bisogna fare e cosa non bisogna fare! I testi sono stati scritti anche dalla mia compagna, Marcy, e da Barbara Galleano. Liriche che sposo in pieno, sia come contenuti che come bellezza!

A proposito di cose che non vanno: alla luce delle attuali limitazioni, riuscirete a presentare il disco dal vivo?
Athlantis è un progetto che non è mai uscito dal vivo e penso mai lo farà. Comunque, questo per la scena live è un momento difficile e io auguro con tutto il cuore alle band che vogliono suonare di tornare ai live più di prima con gente sotto il palco che ti da carica e ti fa dire: caxxo ho fatto mille sacrifici e ne è valsa la pena… Caro Giuseppe, ora ti saluto e volevo ringraziarti ancora per la possibilità che mi hai dato di fare questa intervista. Voglio ringraziare Diamonds Prod che ha sempre creduto in me in questi ultimi anni, ringraziare i mie compagni di viaggio sopracitati e ringraziare te lettore che sei stai leggendo questo vuol dire che hai superato la pappardella di roba che ho detto senza addormentarti! A tutti dico: Stay Metal… anche questo è rock and roll!!!!

Julia and The Roofers – La volontà del male

Trasformare un momento di crisi in opportunità, il più delle volte è uno slogan motivazionale che lascia il tempo che trova. Invece, i Julia and The Roofers hanno messo in pratica il consiglio, pubblicando il proprio esordio “The Will of Evil” (Diamonds Prod.  \ Nadir Promotion), un concentrato di sonorità anni 90, proprio durante la pandemia. Ma chi sono i Julia and The Roofers? Oltre a Julia (voce e basso), nel terzetto troviamo anche Peso dei Necrodeath (batteria) e Ranza (chitarra e sitar). Ed è proprio ai primi due che abbiamo posto le nostre domande.

Ciao Julia, dato che il monicker del progetto mette in evidenza il tuo nome, direi di partire da te: ti andrebbe di presentarti ai nostri lettori, raccontandoci le tue precedenti esperienze in ambito musicale?
Julia: Ciao a tutti e grazie mille per averci offerto questo spazio. Ho iniziato a studiare canto verso i 13 anni. Il mio primo gruppo è stata una band tutta femminile dove provavamo a fare del punk rock senza tante pretese. Dopo qualche anno ho avuto la possibilità di entrare come voce solista in un tributo ai Led Zeppelin e sicuramente questo è stato il momento più formativo, sia a livello vocale che come performer. Finita questa esperienza ho provato un po’ di tutto spaziando tra gruppi prog, heavy metal ma anche reggae e funky, fino all’arrivo dei Julia and The Roofers.

Peso, tu non hai bisogno di presentazioni, sei un monumento del metal estremo italiano, non credi che là fuori potrebbe esserci qualcuno pronto a storcere il muso per il tuo coinvolgimento in un progetto dalle sonorità più leggere?
Grazie per il monumento, ma non credo proprio… sono semplicemente uno che suona da tanti anni, tutto qui. Storcere il naso? Bho, io faccio il batterista di lavoro e di solito suono cose che mi piacciono e di julia ho una grandissima stima perché la considero una fuoriclasse, per cui per me è un privilegio essere il batterista di questo progetto…

Peso, durante l’attività dei Necrodeath hai preso parte a dei progetti “one shot” come Mondocane o Raza de Odio, dobbiamo considerare anche i Julia and the Roofers un gruppo “a termine” o c’è da parte tua la volontà di portare avanti questa avventura?
Peso: Desidero veramente che questa nuova avventura possa andare avanti per tanto tempo e ma non tanto per me, ma per Julia. Spero che arrivi il successo che merita

Il terzo membro della band è Ranza, vi andrebbe di presentarlo?
Julia: Ranza è uno degli insegnanti di chitarra della Musicart… ha studi che provengono dal blues al jazz al rock e una vastissima cultura musicale. Quando siamo in acustico suona il sitar presente anche nell’intro di “Summer”. Durante la fase di composizione si è avvicinato piacevolmente anche alle sonorità grunge mantenendo sempre un tocco molto originale e offrendo un grande contributo alla rifinitura dei pezzi.

Julia, in passato hai fatto parte di una tribute band dei Led Zeppelin e gli stessi Julia and the Roofers nascono come cover band: ti chiederei un parere sulla diatriba cover band\band inedite, ma davvero le prime rubano il pane alle seconde?
Julia: Non saprei, sicuramente non posso sputare nel piatto dove ho mangiato per anni! Diciamo che a buona parte del pubblico attuale piace andare sul sicuro. L’idea dell’andare a sentire un gruppo nuovo spesso incute timore ma se vogliamo creare un ricambio musicale, è necessario lasciare a casa l’orecchio pigro e dare una chance anche alle nuove voci.

La pandemia ha portato al blocco dei concerti, voi siete stati bravi a tramutare in un’opportunità questa disgrazia, andando a comporre i brani compresi nell’album. A chi è venuta l’idea e come si è svolto il processo compositivo?
Julia: E’ stato un processo abbastanza naturale. Era da un po’ che contemplavamo l’idea di scrivere un qualcosa di nostro, ma la routine ci impediva di attivare a pieno il flusso creativo. Questo periodo di calma mi ha permesso così di racimolare le idee e di dedicarmi totalmente alla stesura dei pezzi. La particolarità del disco è che i primi arrangiamenti sono stati fatti quasi completamente a distanza. Probabilmente abbiamo perso un po’ della magia che si crea in sala prove ma tutto ciò ci ha permesso di arrivare in studio convinti del nostro materiale.

Non nascondete che l’influenza maggiore per voi sono state le band grunge e il movimento riot girrrl: cosa avete voluto catturare di quel periodo e cosa invece avete inserito di vostro?
Julia: Ho trovato molta affinità tra il mood dei 90 e il mio modo di approcciarmi alla musica, e in un certo senso, anche alla vita. Ho cercato così di unire le mie idee e i miei gusti a quel sound cupo e diretto, che si sposa perfettamente con l’argomento del disco, cercando però di crearne una variante più personale. L’esperienza e le influenze di Peso e Ranza hanno rifinito l’intero lavoro facendo da collante tra le varie idee.

Peso, da metallaro a metallaro, nei 90 veramente il grunge ha quasi ammazzato il metal? Io ritengo che in fin dei conti sia stato un Cavallo di Troia, molti sono partiti dai Nirvana per scoprire poi band più “cattive”.
Peso: Sono d’accordo con te! Poi ognuno ha le sue preferenze. Per me gli Slayer rimarranno sempre il mio gruppo preferito in assoluto. Ma band come Soundgarden e Alice in Chains mi sono sempre piaciute. Io in realtà ai miei tempi son partito dai Kiss, dagli Ac/Dc, dagli Iron Maiden, ma quando arrivarono i Venom fu veramente un’esplosione. Oggi comunque da ultra cinquantenne ascolto di tutto e ho imparato ad apprezzare la musica a 360 gradi…. Beh fatta qualche eccezione ehehehe

Il disco avrà una versione fisicai?
Al momento la versione fisica del disco è disponibile solo su CD.

L’ultima domanda è sulla copertina, un chiaro riferimento all’“Ophelia” di John Everett Millais: come si collega al mood dei brani e, in generale, a quello della band?
Julia: Ho scelto di raffigurare il suicidio di Ophelia in una chiave un po’ gotica e moderna in quanto la sua storia si sposa perfettamente con l’argomento di tutto il disco. Questa immagine assume così una doppia valenza: da un lato Ophelia, che impazzita dal dolore per le pressioni e le sofferenze inflittele da chi credeva essere il suo unico amore, si toglie la vita. Dall’altro la voglia di “uccidere” quella parte di sé che si è lasciata distruggere e manipolare per poter così ricominciare a testa alta una vita più consapevole.

Dowhanash – Dalle ceneri del drago

Rigel ha scritto dalla prima metà degli anni novanta in poi alcune delle pagine importanti del metal estremo tricolore, legando il proprio nome a quello di band del calibro di Antropofagus, Spite Extreme Wing e Detestor. Ed è proprio dalle ceneri di quest’ultimi che prende vita il nuovo progetto Dowhanash (che vede nelle propria fila un altro ex Detestor, Daniele), anche se “From the Ashes” (Black Tears of Death \ Nadir Promotion) è tutt’altro che una copia di quanto pubblicato in passato dagli autori di “In the Circle of Time”.

Ciao Rigel, dal 20 novembre è fuori il vostro EP d’esordio, “From the Ashes”, a nome Dowhanash: le ceneri a cui si fa riferimento nel titolo sono quelle dei Detestor, gruppo in cui militavate tu e Daniele?
Sì, ma non solo: il titolo del CD parla della situazione musicale di noi tutti, infatti abbiamo una certa età (Kane a parte) e questo disco, anzi il gruppo stesso, è per noi una vera e propria rinascita, un nuovo inizio… e la fenice ci è sembrato il simbolo più adatto. 

Avete mai avuto la tentazione di ripartire come Detestor anziché incominciare da zero con un nuovo progetto?
Direi di no, anche perché i Dowhanash sono nati per un mio impulso di fare una concept band “concettualmente” differente dai Detestor. Ogni cosa nasce, cresce e muore, e quando rinasce non è più la stessa.

Cosa vi portate dietro dell’esperienza Detestor e cosa invece c’è di nuovo rispetto a quanto proposto in precedenza con la vecchia band?
Facendo attenzione ai pezzi si può sentire che alcuni riff e alcune melodie ricordano il modus operandi dei Detestor, per certi versi si potrebbe dire che siamo l’evoluzione dei Detestor… ma “Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale.” Il nostro intento è fare qualcosa di originale, non abbiamo intenzione di imitare niente e nessuno.

“From the Ashes” contiene quattro canzoni più un’intro, queste quattro tracce come e quando sono nate?
La maggior parte dei riff di “From the Ashes” hanno più di vent’anni: abbiamo cominciato a sistemarli Dani ed io, nel retro del mio ex negozio. Naturalmente nel tempo li abbiamo modificati e adattati in base ai gusti di tutti i componenti della band.

Perché avete deciso di pubblicare subito il materiale in forma EP e non aspettare e uscire con un disco completo?
Il motivo principale è che non vedevamo l’ora di uscire allo scoperto. Dani ed io abbiamo impiegato una vita per trovare i membri per completare la line up, così quando finalmente Pablo (il cantante) e Kane (il chitarrista ritmico) si sono aggiunti a Eddy (il bassista che era con noi già da un anno circa), non abbiamo perso tempo e, dopo soli tre mesi, siamo andati a registrare il CD al Bagoon Studio.

La genesi della band passa attraverso una fase a nome Alpha Draconis, in cui avete dato vita al draco metal. Come mai avete cambiato nome e linea stilistica?
Lo stile lo abbiamo mantenuto, abbiamo solo cambiato il nome perché Alpha Draconis era un moniker già usato da altri gruppi metal, mentre Dowhanash è un nome talmente originale che, sul web, si trova solo in riferimento al nostro gruppo.

Appunto, Dowhanash è un nome particolare e misterioso, cosa significa realmente?
Dowhanash è in lingua Draconiana. È un concetto che viene fuori mettendo insieme queste quattro parole: Dow Ha Naa Sha (che fondendosi tra di loro perdono due “a”). Questa lingua è molto antica ed è rimasta segreta fino ai giorni nostri, infatti sono pochissimi quelli che ne sono a conoscenza. Ovviamente la maggior parte della gente penserà che sia una nostra invenzione, ma questo per noi non è un problema. Per il momento lasciamo ancora un po’ di mistero su questo nome e non ne sveliamo il significato, ma ai più curiosi consiglio di cercare gli “Ofiti” su Wikipedia, lì potranno trovare degli indizi interessanti.

Avete mai proposto queste tracce dal vivo prima dello stop imposto dalla pandemia?
L’unico concerto che abbiamo fatto, ad oggi, è stato quello del 15 Ottobre 2020, già in periodo di restrizioni. Ne approfitto per ricordare che su Youtube ci sono quattro video girati la sera del concerto, che solo chi ha comprato il CD può vedere, infatti solo uno dei quattrolo abbiamo lasciato pubblico.

Avete già del materiale nuovo o vecchio, ma escluso dall’EP, su cui state lavorando per dare continuità al progetto?
Proprio in questi giorni stiamo sistemando due pezzi “nuovi”. Dico “nuovi” tra virgolette perché anche questi, come molti altri che faremo in futuro, hanno più di 20 anni. Ho ancora tanta musica nel cassetto che aspetta di vedere la luce… basta una spolverata e sono pronti…

È tutto, grazie.
Grazie a voi per averci dato l’opportunità di fare questa intervista. Vorrei ringraziare anche Daniele Pascali e Trevor (dei Sadist) per la promozione che ci stanno facendo.

Ruxt – Labyrinth of pain

Neanche la pandemia ha fermato i Ruxt: il gruppo genovese da quando è stato fondato ha rilasciato dischi al ritmo di quasi uno all’anno. Il 2020 è stato contrassegnato dall’uscita di “Labyrinth of Pain” (Diamonds Prod. \ Nadir Promotion), che propone la consueta qualità sonora e una ghiotta novità: il nuovo cantante K-Cool.

Benvenuto Stefano (Galleano, chitarra), immagino che tra le poche cose positive di questo 2020, per voi ci sia la consapevolezza di aver pubblicato un ottimo disco, “Labyrinth of Pain”. Come mai un titolo così oscuro?
Nei nostri dischi abbiamo sempre cercato di trattare temi di un certo tipo. A volte decisamente introspettivi, altre volte di denuncia. L’album ha preso il titolo dal nostro singolo, un brano che tratta il tema del bullismo. Argomento forse scontato ma che non fa mai male menzionare quando è possibile. Abbiamo denunciato questa problematica attraverso un videoclip piuttosto esplicito. Abbiamo evidenziato che può sempre esistere una via di uscita dall’ inferno in cui può precipitare un ragazzo se il problema viene condiviso con genitori, professori ed insegnanti. Il simbolo del labirinto a rafforzare metaforicamente il significato di quanto un ragazzo possa perdersi nei meandri del dolore, dell’angoscia e della solitudine, da cui però può venire fuori attraverso il coraggio della denuncia.

La band è di relativa recente formazione, dato che è nata nel 2016. In questo lasso di tempo avete pubblicato quattro album, precisamente nel 2016, 2017, 2019 e 2020. Un ritmo non facile da sostenere, come alimentate la vostra vena creativa?
Mi rendo conto non sia facile mantenere un ritmo di questo tipo. Tuttavia, la vena creativa non è mai mancata e ritengo che nel tempo abbiamo mantenuto una certa qualità e abbiamo migliorato decisamente il nostro songwriting. Mentre nei primi due dischi sono stato l’unico firmatario dei brani, negli ultimi due ho condiviso alcuni pezzi con l’altro chitarrista Andrea Raffaele proprio per dare un po’ di respiro agli album ed alleggerirli in alcuni tratti. Penso che alla lunga la scrittura di una singola persona possa sentirsi e da qui la necessità di allargare il songwriting ad altri. Gli arrangiamenti sono sempre fatti insieme con Steve Vawamas ed in questo caso anche con il nuovo cantante K-Cool. Oserei direi che abbiamo materiale per altri quattro/5cinque dischi senza alcun problema e non a discapito della qualità.

La scelta di pubblicare un disco quasi ogni anno va in controtendenza rispetto ai dettami dell’odierno mercato discografico, che tende a privilegiare il singolo brano all’album. Questa scelta di continuare alla vecchia maniera è più di natura istintiva o è un rischio ponderato?
Capisco. Siamo in controtendenza rispetto a molte cose. Tutti i membri della band sono cresciuti nei periodi in cui esistevano vinili e poi CD e chiaramente allontanarsi dal concetto di album diventa difficile. Crediamo, finché esiste creatività, che sia sempre piacevole per un ascoltatore immergersi nell’ascolto di un CD intero con brani che hanno varie sfumature proprio per percepire il senso della band, il senso dei brani e di quello che vogliamo veramente dire. Oggi in effetti va di moda il singolo con video e stop. Una pennellata buttata lì su una tela bianca. Io prediligo ancora un dipinto con tanti colori che rappresenti per intero il significato dei Ruxt e di quello che vogliono comunicare. Certamente sono ben conscio che in pochi ascolteranno attentamente l’intero album e che gli ascolti saranno forse distratti, ma preferisco pubblicare materiale e metterlo a disposizione piuttosto che preservarlo non si sa per quali tempi e audience.

“Labyrinth of Pain” segna l’ingresso del nuovo cantante K-Cool, ti va di presentarlo ai nostri lettori?
Certamente, con molto piacere. Si tratta di un cantante con un background decisamente heavy metal che nel tempo ha abbandonato l’approccio ‘metallaro’ alla musica per dedicarsi ad altri generi, forse più pop. Ho sentito una sua performance in duetto con chitarre acustiche ed ho capito che la sua voce avrebbe potuto essere messa al servizio dei Ruxt, in un certo modo cambiando completamente il sound del gruppo. Abituati alla voce di Matteo Bernardi non potevamo certo scegliere un cantante con stile simile che avrebbe solo potuto imitare Matt. Ho cosi pensato di rivoluzionare il tutto e di proporre a K-Cool di entrare a far parte di Ruxt. All’inizio devo dire che lo stesso K-Cool era dubbioso sulla riuscita dell’esperimento, ma abbiamo comunque provato e quello che sentite è il risultato!

I brani sono nati quando Matt Bernardi era ancora con voi o successivamente all’ingresso di K-Cool? Nel caso fossero stati scritti prima, sono stati modificati per adeguarli allo stile del nuovo cantante?
I brani non solo erano stati scritti per Matteo Bernardi ma erano già stati cantati da lui. Purtroppo, dopo aver completato le registrazioni, Matt ha deciso di lasciare la band. A quel punto avevo due opzioni: far uscire l’album con un cantante che già aveva abbandonato oppure trovare un voce nuova che potesse ricantare il disco e soprattutto re-interpretarlo a modo suo. Abbiamo prima provato un paio di pezzi con K-Cool e, quando ho capito che forse poteva funzionare, abbiamo ricantato tutto l’album. Non abbiamo avuto il tempo di modificare i brani per la voce di K-Cool. Abbiamo deciso di cambiare solo le parti vocali ed il risultato è stato soddisfacente. Certamente ci sarà qualcuno che farà raffronti, ma questi fanno parte del gioco.

Nella tracklist, in terza posizione, troviamo “November Rain”, brano che riporta alla mente la hit dei Guns. Come mai avete scelto di chiamare così il pezzo, nonostante l’illustre predecessore?
Non esiste alcuna relazione tra i due brani e non volevo dedicare nulla ai Guns. Diciamo che si tratta di una coincidenza. Il brano è nato come se si trattasse di una poesia in cui vengono evidenziate percezioni visive e olfattive (l’odore della pioggia, la nebbia, i colori dell’autunno) che si ripresentano nello stesso periodo dell’anno, novembre, facendo rivivere le sensazioni di una relazione finita.

Il disco si chiude con uno strumentale, “Butterflies”: che significato ha questo pezzo posto nel finale?
Come abbiamo riportato sul retro della copertina del CD: “siamo fragili ed effimeri proprio come le farfalle. Passiamo attraverso fasi difficili per crescere e diventare adulti, cambiamo forma, ma siamo sempre noi, che voliamo in giro mostrando i nostri colori. Non possiamo permetterci di sprecare tempo, viviamo la vita al massimo perché in un batter d’occhio la nostra alba si trasformerà in crepuscolo’’. Semplicemente ho metaforicamente messo in musica il concetto di nascita, crescita ed invecchiamento fino alla morte. E quanto sia breve ed effimero questo passaggio. Questo è il senso di “Butterflies”. Avrebbe potuto essere posto in una qualsiasi posizione del CD. Semplicemente per il fatto che è piuttosto lungo, ho preferito metterlo alla fine. Una sorta dedica mia a chi ha avuto la voglia di ascoltarsi tutto il CD.

Quale è stato il brano che vi ha creato più difficoltà durante la scrittura e quale invece quello su cui all’inizio non puntavate e che, a giochi fatti, invece è uscito meglio di ogni più rosea previsione?
Puntavo molto su “Labyrinth of Pain’’ ed in effetti, nonostante alcune perplessità iniziali, si è rivelato essere un buon brano ed è stato scelto come primo singolo anche per l’importanza del tema trattato. “Simply Strangers’’ era un altro pezzo a me molto caro, ma non sono certo che sia uscito proprio come lo avevo immaginato. Tuttavia, resta una buona canzone. Lo strumentale è stata una scommessa. Avevo ben in mente che cosa volevo dire e trasmettere ed ho provato. Strada facendo, confortato anche dal parere di Steve e di K-Cool, ho capito che poteva essere un bel pezzo strumentale e che anche se un po’ lungo poteva effettivamente trasmettere delle emozioni.

Alla ripresa dell’attività live, riproporrete fedelmente i nuovi pezzi sul palco oppure opterete per nuovi arrangiamenti?
Assolutamente, cercheremo di riproporre i pezzi come sono stati registrati così come abbiamo sempre fatto. Non abusiamo mai nelle registrazioni di suoni che poi non possiamo riproporre dal vivo. Siamo abbastanza vintage e reali da evitare basi o quant’altro. Più che altro speriamo vivamente di poter tornare a suonare dal vivo al più presto.

E’ tutto, grazie
Grazie a voi per l’opportunità. Colgo l’occasione per ringraziare i compagni di band per il lavoro che abbiamo fatto in così poco tempo. Ringrazio oltremodo tre ospiti che hanno suonato nel disco: Stefano Molinari alle tastiere, Francesco Russo alla chitarra e Marco Biggi alla batteria in due pezzi. Vorrei ricordare inoltre che il disco è stato questa volta registrato, mixato e masterizzato allo studio di Steve Vawamas: Steve Vawamas Studio.

Malignance – God of war

Il 2020 è un anno da dimenticare, anche se, probabilmente, non lo dimenticheremo mai. Allora aggrappiamoci alle cose positive, come il nuovo disco dei Malignance, “Dreamquest: the Awakening” (Black Tears of Death / Nadir Promotion). Il gruppo si era rifatto vivo già tre anni fa con “Architects of Oblivion”, quindi non ci troviamo innanzi a un ritorno insperato, però questo non significa che non manchino le novità, come per esempio la line up con un solo membro – Arioch – che pare sancire l’inizio di un’inedita fase della vita dei liguri.

Benvenuto, Arioch, tre anni non sono pochi, ma diventano un’inezia se paragonati ai quattordici che hanno separato “Regina Umbrae Mortis” da “Architects of Oblivion”. Questi tempi più ridotti tra l’uscita del 2017 e questa datata 2020 li dobbiamo intendere come voglia di recuperare il tempo perso?
Ciao, semplicemente ho ritrovato la voglia di comporre materiale di questo tipo. Per anni non ho “sentito” di doverlo fare e di conseguenza sapevo di non poter proporre qualcosa di musicalmente valido. Non ho mai pianificato nulla per quanto riguarda le uscite discografiche dei Malignance, tutto segue un naturale ritmo “ispirazione/composizione” fin dai tempi della nascita della band nel 2001, per cui non ti so dire se il prossimo album uscirà fra un anno o fra altri quattordici, tutto dipende esclusivamente dal mio grado di ispirazione.

Hai dei ripianti legati al lungo lasso temporale che separa la vostra prima uscita dalla seconda?
Rimpianti direi di no. Subito dopo l’uscita di “Regina”, Krieg decise di lasciare la band e non senza difficoltà trovammo un sostituto, Vindkald, con cui ci dedicammo all’attività live per promuovere il disco e partecipammo ad uno split album con altre tre band, oltre a registrare un promo con materiale nuovo. Non riuscendo però a concretizzare il tutto in un nuovo album, decisi di sospendere Malignance a tempo indeterminato; semplicemente, non ho avuto lo stimolo giusto per riportare in attività il progetto fino a fine 2016. Considero i Malignance una mia estensione musicale, non ho mai sentito alcun tipo di “obbligo” verso me stesso o altri a pubblicare nuovi lavori di questa band, per cui sono certo di aver fatto la cosa più giusta.

Quando siete tornati con “Architects of Oblivion” avete trovato una scena musicale e, soprattutto, un mercato discografico completamente stravolto rispetto ai vostri esordi. Credi di aver commesso degli errori dovuti alla scarsa conoscenza del nuovo scenario e, se sì, cosa hai evitato di sbagliare nuovamente in occasione dell’uscita di “Dreamquest: the Awakening”?
Sicuramente, come dici, è tutto diversissimo rispetto al 2003. Avevo perso quasi tutti i contatti con le persone dell’ambiente, a parte pochissimi, e mi sono trovato a dover ricostruire tutto pezzo per pezzo. Alla luce dei fatti sono comunque abbastanza contento di come sono andate le cose, vedo “Architects” come un potenziale nuovo inizio e chiunque abbia voglia di ascoltarlo può riscoprirlo ora, anche se purtroppo all’uscita non ha avuto la promozione che secondo me sarebbe servita. Sicuramente per “Dreamquest” ho cercato di avere dei canali migliori per far conoscere l’album al pubblico e raggiungere più persone di quanto sia riuscito a fare con “Architects”.

Hai già partecipato al tributo dei Necrodeath come one man band, ma sicuramente l’assenza di Krieg, per la prima volta su un vostro album intero, fa specie. A cosa è dovuto lo spilt con il tuo storico partener e come mai hai deciso di continuare da solo anche in occasione del terzo disco?
Sentivo il bisogno di gestire tutto il processo di scrittura e arrangiamento dei brani, testi compresi, senza dovermi interfacciare con altri, tutto qui. Negli anni mi sono dedicato molto allo studio della musica e mi sono migliorato anche a livello vocale: qualche tempo fa non mi sarei mai sognato di cantare su un disco, ma dopo aver fatto varie prove, oltre a un live dove ho suonato la chitarra e cantato per sostituire un Krieg con problemi di salute dopo l’uscita di “Architects”, mi sono reso conto che i tempi erano maturi. Detto questo, Krieg resta un vocalist unico e una persona che stimo, gli auguro tutto il meglio per i suoi progetti musicali.

Come cambia il tuo modo di comporre e registrare ora che sei solo?
Sicuramente il processo è estremamente più veloce; “Dreamquest: the Awakening” è stato composto e registrato nel giro di dieci giorni. Mi piace avere la più totale libertà di azione sui brani, ad esempio se durante la stesura delle linee vocali mi rendo conto che una parte della canzone è troppo lunga e ripetitiva posso tagliarla a mio piacimento, o aumentarne la durata se riscontro il problema opposto. Sono stato molto felice poi di potermi occupare dei testi, che ritengo una parte fondamentale di un album.

Qual è la componente che è rimasta immutata nel vostro sound dai tempi di “Regina Umbrae Mortis” e quale invece quella che contraddistingue in modo univoco questo “Dreamquest: the Awakening”?
Credo che il mood di fondo dei Malignance non sia cambiato poi tantissimo, sicuramente sono maturato a livello compositivo, ho limato molti spigoli ed eliminato qualche ingenuità compositiva, ma il sentiero resta sempre quello che iniziai a tracciare con “Ascension to Obscurity”, il primo EP. Di certo quello che contraddistingue “Dreamquest” sono le parti vocali, la vera novità di questo album.

Credi che il primo singolo estratto dal disco, “God of War”, contenga al proprio interno queste caratteristiche?
Penso di sì, anche se all’interno del disco non mancano episodi più cadenzati e altri con intrecci melodici e armonici più complessi. “God of War” è un pezzo di impatto e abbastanza immediato, penso sia stata una buona scelta per un singolo di lancio.

Un connubio invece che si è rinnovato in occasione di questa pubblicazione è quello che unisce, come in passato, i Malignance con la Black Tears of Death. Quali sono i valori che ti legano all’etichetta genovese?
Conosco Daniele della BTOD da tantissimi anni ed è stato uno dei primi a credere nei Malignance, quando eravamo agli esordi. Sono felice di poter collaborare di nuovo con lui, dopo il tributo ai Necrodeath, perché è un’ottima persona e un vero appassionato di musica e spero che questo sodalizio possa continuare in futuro portando soddisfazioni a entrambi!

Porterai l’album dal vivo e, se sì, hai già individuato gli artisti che ti accompagneranno?
L’intenzione ci sarebbe, ovviamente in questo periodo tutto è molto incerto e nebuloso, ma mi piacerebbe farlo. In passato ho avuto il piacere di collaborare con Eligor e Fog (ex membri dei Sacradis) e un giovanissimo e talentuoso bassista genovese (Jack Repetti) per portare nuovamente live i Malignance, questa volta ho ricontattato Achernar, storico membro dei Malignance, per vestire i panni di bassista in sede live. Devo ancora individuare un chitarrista e un batterista, ma il tempo per farlo non mancherà.