I Violent Scenes sono una band pugliese attiva da cinque anni, da poco hanno pubblicato l’EP “Rebirth”, il seguito del loro debutto discografico “Know By Heart” del 2017. Per conoscere meglio la band e il loro punto di vista abbiamo intervistato il cantante e bassista Giorgio Cuscito.
Nel comunicato stampa esordite con la frase “band costruita su una profonda amicizia”, ci racconti in breve la genesi della vostra band e di come si può fondere l’amicizia con il suonare musica, è sempre facile? La band nasce ufficialmente nel 2017 quando Gianfranco Maselli (chitarra) incontra Gianvito Novielli (chitarra) una sera fuori da un pub. Fino ad allora eravamo in tre, con un disco già pronto ma fermi da un po’. Gianfranco era appena tornato dall’Erasmus a Bucarest e io, con Antonio Iacovazzi (batteria ed elettronica), avevamo bisogno di un nuovo scatto, nuova linfa! Come quando le note musicali girano e c’è bisogno di un nuovo semitono per ricominciare, atterrando su una nuova ottava! Essere una band significa essere una piccola famiglia! Noi condividiamo tutto: il lavoro, gli studi, i sentimenti, i pensieri, la politica, le amicizie. Fare musica insieme è vedere la vita insieme, dialogando non solo con gli strumenti. Quando creiamo un brano e poi un disco, lì c’è il nostro pensiero, il nostro punto di vista, non è solo musica.
Sempre dal comunicato stampa la frase: “Violent Scenes è il Nuovo Teatro Greco”. Cosa vorreste dire esattamente con questa affermazione e quali sono i contenuti che vorreste comunicare con la vostra musica? Violent Scenes è il nostro punto di vista e, direi, la nostra filosofia! Nei suoni e nei testi c’è una ricerca costante che attinge all’umanità degli Antichi Greci. È catartico per noi l’atto del suonare, soprattutto dal vivo. Le nostre performance ci permettono di raggiungere lo stato di trance e di connetterci con l’anima. Interpretare la vita con gli occhi di un artista è una grande responsabilità e crediamo che i greci avessero raggiunto un alto senso artistico. Loro non mostravano le scene più violente durante le tragedie perché urtavano e soprattutto non erano utili al ‘sentire’ e quindi alla catarsi dello spettatore. Oggi la scena dell’omicidio è quella che si attende di più durante uno spettacolo oppure in un film, per non parlare dei videogiochi dove addirittura uccidere è un gioco. Il Teatro è diventato un’arena e dovremmo chiederci perché.
Il titolo ‘Rebirth’ che significato ha per voi? I titoli dei brani sono anche abbastanza singolari, ce li spieghi? Il titolo dell’album, “Rebirth”, è un riferimento a “Neon Genesis Evangelion”, manga giapponese post-apocalittico uscito nel 1994, in seguito diventato serie tv con la regia di Hideaki Anno. L’opera, ambientata nella futuristica Neo Tokyo-3, è un vero e proprio cult che affronta, con un linguaggio psicoanalitico tipico dei personaggi della Tragedia di Euripide, la difesa dell’umanità, minacciata dagli Angeli, per mano di robot pilotati da esseri umani. Il regista non è mai riuscito a separarsi da Evangelion, continuando a rimaneggiarlo e riassemblarlo, così noi abbiamo fatto con “Know by Heart”, album d’esordio del 2017, grembo della nostra poetica. I brani di “Rebirth” non sono altro che tre brani tratti da questo album riarrangiati in chiave elettronica. Anche i titoli dei brani “Unit 01/02/03” sono un riferimento alle Unità Mecha: Eva 01/02/03.
Avete in programma date live imminenti? Stiamo programmando un tour a giugno che ci porterà in giro per l’Italia, dalla Sicilia al Piemonte. Date sparse sono attese anche nei prossimi mesi.
Dove è possibile reperire il vostro nuovo EP ed eventualmente anche il disco precedente di cui parlavi prima? Sia “Know By Heart”, il nostro debutto del 2017, che l’EP “Stimmung”, uscito sotto forma di poster nel 2019, sono al momento sold out ma li stiamo ristampando, insieme alla cassetta di “Rebirth”, per portarli ai concerti. Non è possibile reperirli online.
Avete girato diversi videoclip con Antonio Stea e vinto anche alcuni premi, giusto? Sì, il nostro regista Antonio Stea è un membro aggiunto della band! Senza le sue immagini la nostra visione sarebbe incompleta. “Grim July” ha vinto diversi premi in tutto il mondo tra cui, quello che ricordiamo con grande orgoglio, il primo premio della quarta edizione del Cineconcerto Music Film Festival a Montecarotto (AN), nel 2019; festival unico nel suo genere, in Italia e non solo. “Nope Face” ha vinto, tra gli altri, una menzione speciale come miglior film sperimentale al Tokyo International Short Film Festival 2020 e il primo premio come miglior videoclip musicale al Paris Film Art 2021.
INTERVISTA ORIGINARIAMENTE PUBBLICATA SU “IL QUOTIDIANO DI BARI” IL 29 MARZO 2022
Terzo lavoro in studio per i Flares on Film. “About Love, War and Electricity” è il titolo della prima uscita della neonata label Lift Records che da subito denuncia una profonda distanza dallo streaming in rete, ritenendolo privo di valore, restituendo la possibilità di ascolto solo grazie al supporto pubblicato sia in forma fisica che tramite acquisto digitale. Scopriamo di più su questo progetto con il leader della band FLB.
Puoi raccontare ai nostri lettori la genesi della band, quando vi siete formati e come siete arrivati al terzo lavoro da poco pubblicato? Il progetto Flares on Film prende forma nel 2015. Nasce sulle ceneri degli Eva, band che ha vinto vari concorsi e suonato in piccoli tour indipendenti in Italia, al MEI nel 2011, siamo arrivati al 7° posto nella classifica indie italiana. Le produzioni dei Flares On Film sono principalmente un prodotto di mie composizioni. Nel corso degli anni si sono susseguiti vari artisti e musicisti di varia estrazione. L’anima del progetto infatti prevede una continua ricerca di sonorità e di conseguenza di volta in volta, di album in album vengono convocati i giocatori più adatti. Il primo album “Happy Ending” (Godz Records 2015) ottiene buon riscontro nel pubblico underground e sul web, soprattutto all’estero per via dei testi in inglese. Nel 2019 esce il secondo album “Naive Songs” con la Private Room Records. Un album più concettuale e vario che spinge ancora un po’ di più l’asticella spostandosi ancora più lontano. Molte piccole radio francesi, tedesche e ucraine mandarono in play “The Saddest Song”, il singolo. Nel 2020 c’è stato “Our Souls At Night” sempre per la Private Room Records, e qui lo spirito della collaborazione si spinge oltre, creando un album composto da remix del precedente “Naive Songs”, di vari autori italiani e uno statunitense. Al momento la formazione oltre a me comprende il violinista pluristrumentista Michele De Luisi, in arte Pino Di Lenne e il batterista polistrumentista Marco Fischetti.
Sul comunicato stampa c’è un riferimento allo scrittore Herman Melville, come e a cosa è legato alla vostra musica? Il concept dell’album prende spunto dal romanzo di Melville, “Bartleby lo scrivano”, dove il protagonista senza dare alcun tipo di spiegazione, si lascia morire. Detta così sembra una cosa triste e spaventosa, ma il senso che vorrei trasmettere è il tema del lasciarsi andare, addirittura, come nel caso del libro, eventualmente anche ad un destino infausto, senza troppo pensarci, senza chiedersi un perché, senza dare spiegazioni. Una sorta di invito a lasciare le redini della propria vita, andare alla deriva affidandosi solo al flusso della propria esistenza, nel bene e nel male. Affidarsi tuttavia non in maniera decadente, ma come se ci fosse sempre una speranza. In altri termini, un inno, se vogliamo, alla perdita di controllo, all’assenza della ragione. E per dare un valore più ampio l’album è costruito soprattutto attorno alla voce. Infatti ci sono varie collaborazioni con altri cantanti sia uomini che donne, proprio a testimoniare la pluralità del concetto di ‘controllo’, che evidentemente ci riguarda tutti.
Avete un sound elettronico molto sofisticato e ben prodotto, come definireste la vostra musica? A cosa vi siete ispirati? È sempre davvero difficilissimo dare una definizione. Posso provarci partendo dai nostri punti di partenza. Prima di tutto immagina che l’attitudine lo-fi o comunque di far suonare qualsiasi cosa ci capiti tra le mani, l’abbiamo presa in prestito dal Beck di “Odelay”. Magari il primo disco suonava anche lo-fi per via delle registrazioni, ma oggi, continuiamo a mantenere quell’attitudine oserei dire quasi punk. Le voci sono tutte registrate nella cabina armadio di casa. Un altro elemento importante della nostra musica è senz’altro il soundscaping, il paesaggio sonoro, quindi chiari riferimenti a Brian Eno di “Music For Airports” o anche nelle produzioni con David Bowie. La parte finale del nostro brano “The Eyes” parte proprio dall’ispirazione di “Warszawa” di Bowie. Ci sono spunti alla Radiohead, Pink Floyd, Alessandro Cortini, le atmosfere dark dei Depeche Mode, Nine Inch Nails. Alla fine quello che conti, al di là dei bei suoni, è sempre e solo la melodia della voce. Sono di scuola beatlesiana per cui confido nella melodia come in una religione. Il resto è tutto un gioco per i musicisti che si divertono a produrre musica.
Il videoclip di promo all’album “The Longest Distance” oltre che a Bari è stato girato a Tokyo, da chi è stato girato ed è stato difficoltoso girarlo così lontano? Secondo te quanto le tecnologie oggi disponibili aiutano maggiormente per questo tipo di lavoro e quanto aiutano o meno nella diffusione e la fruizione della musica? Il video nasce dall’idea di rappresentare la domanda “il giorno più bello della mia vita è già passato o deve ancora arrivare?”, che è il tema centrale del brano. Ho pensato che l’immagine più diretta per far arrivare questo concetto fosse un incontro, due persone che si cercano da sempre e che dovrebbero incontrarsi. Abbiamo ingaggiato il regista Luciano Parravicini della Lux For Media di Bari. E con lui siamo riusciti a giocare con i due protagonisti e i loro due piani di realtà. Lui vaga per la città cercando lei, e lei è nella sua stanza aspettando lui, ma chi dei due è davvero reale? Abbiamo scelto la notte e la città perché sono due cose a cui sono molto legato, e abbiamo scelto di girare per le strade di Bari cercando di non dare sempre quell’immaginario di città del sud tra pescatori, focacce e mare. Le riprese di Tokyo invece sono state attinte dagli archivi di Luciano Parravicini. Tokyo più che mai ha un fascino notturno e moderno e ci sembrava adatta per raccordare alcuni punti del video. La cosa bellissima è che non sapendolo sembra semplicemente un’unica città.
Avete in programma date di concerti imminenti? Questa è fase purtroppo difficile per i concerti. Non è facile organizzare lunghi spostamenti perché ovviamente la questione Covid vincola moltissimo ed è davvero impossibile fare progetti a lunga scadenza. Ora, timidamente stiamo rodando la band dal vivo in concerti vicini, ma viviamo alla giornata, forse in primavera sarà più facile spostarsi. Abbiamo inoltre aggiunto per i live Costantino Temerario, già voce e chitarra dei Turangalila, così possiamo suonare con un impatto decisamente più interessante e oserei dire anche più rock.
Per ora l’album è disponibile solo su CD, il vinile? Come tante cose portate dal covid, anche la stampa su vinile è stata posticipata di molto per assenza di materie prime. Immagina che l’album è uscito il 12 novembre e se tutto va bene, abbiamo saputo che ci arriverà tra le mani prima di marzo. In questa versione abbiamo aggiunto altri due brani inediti proprio per renderla diversa e se mi concedi anche un po’ più preziosa. È molto bello questo ritorno al vinile. Credo che la musica abbia davvero una cura che merita quando ha un supporto fisico. Infatti abbiamo scelto di non essere su nessuna piattaforma di streaming. Ci sembrava troppo avvilente sparire in un mare così vasto e così poco riconoscente. Per i grandi nomi non è un problema, ma per noi come per tanti altri, vuol dire solo sparire nell’infinito. Preferiamo Bandcamp, è più underground e quasi mi ricorda Myspace. su Bandcamp comunque si può ascoltare gratuitamente il disco.
Sono due anni che la musica è ferma, tranne poche eccezioni, non sembra sia tutto realmente ripartito, anzi, come l’avete vissuta personalmente e come credete si evolverà la situazione? Come dicevo all’inizio di questa intervista, personalmente sono aperto verso il futuro e le cose che accadono. Purtroppo il covid è stata una cosa terribile per tutti, ma soprattutto per chi ne è rimasto personalmente ferito da lutti o altre perdite. Ma da questa terribile vicenda dell’esistenza sono arrivate anche un po’ di cose buone. Molti di noi hanno cambiato l’approccio alla vita, forse qualcuno si è reso conto le cose non durano per sempre. E poi si è sdoganato lo smart working. Giusto per fare un esempio, la prima parte del missaggio di questo album è stata fatta online. Cosa porterà? Come si evolverà la musica? Sono positivo, credo prima di tutto che questi anni di stop siano stati utili per chiuderci nei nostri studi e scrivere musica. L’unica cosa di cui risente la musica durante il covid sono stati i concerti soprattutto delle piccole band nei piccoli locali. Però a dirla tutta è stato solo il colpo di grazia. Oggi di musica ce n’è tantissima, ma soprattutto l’accessibilità è decisamente più spinta rispetto ai tempi di Napster. Quindi gli ascoltatori sono decisamente più saturi. Immagina anche cosa può fare Spotify, musica per milioni di anni come sottofondo anonimo della vita. Credo che dobbiamo ancora raggiungere un punto di saturazione massima prima di fermarci e ricominciare ad ascoltare ciò che è giusto per il nostro grado di elaborazione. Magari ascolteremo meno musica, ma sicuramente almeno ce la sceglieremo noi e non un tristissimo algoritmo.
Wanted Record consiglia l’ascolto di “About Love, War and Electricity” dei Flares on Film.
INTERVISTA ORIGINARIAMENTE PUBBLICATA SU “IL QUOTIDIANO DI BARI” IL 22 DICEMBRE 2021
Fra le nuove leve del sottobosco cantautoriale italiano già da qualche anno si fa strada Federico Bonanno, prima in gruppo col progetto Hash ed ora da solista con lo pseudonimo di Deric. Abbiamo parlato insieme dei suoi esordi e del nuovo singolo “Le stesse parole” (autoproduzione, 2021).
Scrivi canzoni fin dalla prima adolescenza, come è nata la passione per il cantautorato e quali sono stati i primi artisti di riferimento? È nata insieme alla passione per la chitarra e la musica rock, scrivere ha sempre fatto parte della mia vita e in qualche modo mi è sempre piaciuto. Penso che sia un modo anche per mettere in ordine i pensieri e fare un po’ di introspezione. Direi che le due cose si sono fuse in modo abbastanza naturale. Un momento importante di sicuro è quando ho avuto in regalo la mia prima chitarra e ho cominciato a prendere lezioni, poi a scrivere le mie canzoni. Dopo con la band le cose sono diventate anche più serie. In quel periodo andavo scoprendo i primi gruppi punk, i Ramones, i Pixies, i Nofx che mi ricordo di avere visto in uno storico/disastroso concerto all’ex Bier Garten qua a Palermo. Incredibile. Degli italiani ascoltavo spesso i Prozac+, Le Luci della Centrale Elettrica, Cremonini, oppure Battiato.
Parallelamente al percorso cantautoriale, portato avanti col gruppo Hash, hai cominciato a produrre musica elettronica con lo pseudonimo di Deric. Dove finisce Hash e dove comincia Deric? Perché non hai rilasciato il singolo “Le stesse parole” come Hash? Hash era il nome del gruppo che si è sciolto più di un paio di anni fa. È stata una bella esperienza durata tanti anni, insieme abbiamo pubblicato due EP, anche se la formazione era cambiata diverse volte. Dopo ho continuato a scrivere e mettere online sul mio Soundcloud qualche brano di musica elettronica. Essendo un grande appassionato di tecnologia e delle sue conseguenze sulla musica e avendo anche studiato l’argomento, non vedevo l’ ora di fare i miei primi esperimenti. Mi ricordo che quando ho scoperto alcuni gruppi come i Massive Attack, i Portishead, gli Alt-J è stato un momento di grande maturazione dal punto vista musicale per me. Tornando alla domanda, quello che mi rappresenta oggi è questo progetto, sarebbe stato incoerente per me proseguire con lo stesso nome visto anche che non sarebbe semplice riproporre quei brani dal vivo oggi.
Con la musica elettronica, in termini di lunghezza dei brani, c’è più libertà espressiva rispetto al cantautorato attuale, mi pare. La breve durata del nuovo singolo, due minuti e mezzo, è casuale o dovuta a necessità radiofoniche? Oppure nessuna delle due? Non c’è stata nessuna necessità radiofonica in realtà, il brano è nato così ed è volutamente diretto e conciso, punta di più sulla voce e sul groove che sullo strumentale. Mi piaceva l’idea di puntare sulla semplicità, credo sia il modo migliore per arrivare alle persone. Senza trascurare il sound ma creando un’atmosfera che si sposasse con le parole. Nel frattempo la durata del brano mi ha permesso anche di entrare in qualche playlist in più, quindi direi esperimento riuscito!
Il testo della canzone, scritto in piena pandemia, parla di alienazione senza però fare riferimento ai problemi sanitari dell’ultimo biennio. Da musica e parole emerge una gran voglia di voltare pagina, ma rispetto a quale ambito della società attuale? Sono tante le riflessioni che si potrebbero fare a proposito del brano. Una sicuramente è quella sulla monotonia e la ripetitività che a tutti capita di vivere, per vari motivi come il lavoro, la famiglia, problemi personali e altro. Un’altra riguarda la tecnologia, i social-network, la televisione, penso che siano tutti strumenti che bisogna conoscere e saper utilizzare per avere il controllo della situazione e non venire controllati noi stessi in qualche modo. Lo diceva anche Pasolini molti anni fa in una famosa intervista alla Rai, che si trova anche su YouTube. Oggi tutti conosciamo gli scandali sui big data di Facebook, non è molto diverso secondo me. Per questo bisogna conoscere le cose e avere spirito critico, altrimenti l’illusione e la possibilità di venire influenzati è dietro l’angolo. C’è una frase tristemente famosa che dice “a forza di ripeterla una cosa diventa vera”, secondo me a forza di ripeterla si diventa stupidi.
Come è nata la collaborazione con Luca Rinaudo e Marco Nascia allo Zeit Studio? Con loro ci siamo conosciuti qualche anno fa. Luca e Marco hanno organizzato un corso di produzione musicale nel loro vecchio studio di registrazione, a quel corso durato circa un anno ho partecipato anche io insieme ad altri. Dopo abbiamo anche scoperto di avere qualche amico in comune.
Cosa hanno aggiunto Luca e Marco in termini di produzione? Il loro contributo è stato importante per dare alla canzone il sound e il groove giusto. Con Luca e Marco, dopo avere fatto una pre-produzione registrando le varie parti di chitarra e voce, abbiamo pensato agli arrangiamenti insieme. Marco suona diversi strumenti fra cui chitarra e percussioni e riesce a farlo in modo unico e personale vista anche la sua esperienza. Luca si è occupato di più del missaggio e del mastering, direi che è stato davvero bello lavorare insieme.
Hai in programma dei concerti a breve? Altri progetti futuri? Non ho concerti in programma, anche se ci sto pensando. Al momento mi sto concentrando su altro dovendomi occupare un po’ di tutti gli aspetti del progetto che richiedono tempo e risorse, sto anche lavorando in studio ad altre canzoni, una delle quali uscirà a dicembre.
Ospite di Mirella Catena ad Overthewall il polistrumentista e cantante Luigi Maria Mennella, la mente dei progetti Furvus, En Velours Noir e F.ormal L.ogic D.ecay.
Ciao Luigi e benvenuto su Overthewall: cantante e polistrumentista, autore impegnato in ben tre progetti musicali. Com’è iniziata la tua carriera artistica? Guarda, musicalmente parlando, comincio con un aneddoto: mi sono avvicinato al pianoforte quando avevo circa sette anni. A quei tempi prendevo lezioni regolarmente, ma dopo due anni l’insegnante mi cacciò, perché si accorse che eseguivo gli spartiti a memoria. E’ incredibile il cervello dei bambini a quell’età, no? Peccato che poi dopo uno si rincoglionisca un po’. In pratica ascoltavo e guardavo l’insegnante, ripetevo dentro di me ed eseguivo. Le prime volte ovviamente non perfettamente. Lei mi correggeva. Io ripetevo nuovamente ed eseguivo un po’ meglio. E andavo avanti così. E questo veniva interpretato come un naturale progresso nella lettura. Poi un giorno mi ha cambiato senza avvisarmi qualche nota sullo spartito e mi ha scoperto (e mandato via…). Poco male: il piano in realtà l’avrei ripreso qualche anno dopo, ma intanto mi sono concentrato prima sulla chitarra e poi altri strumenti. Però, vedi, sono sempre rimasto affascinato dall’uso della voce. A quei tempi rimanevo estasiato nell’ascoltare i virtuosismi dei cantanti heavy metal. Mi sembravano qualcosa di incredibile rispetto magari ai cantanti tradizionali che poteva ascoltare mia madre a casa oppure i miei amici. Ma questo mito mi si è incrinato nel momento in cui ho ascoltato per la prima volta un lavoro solista di Stratos. Mi pare fosse “Cantare la voce”, che è un disco che allora non conoscevo: l’ho trovato su una bancarella dell’usato, non ricordo neanche dove e ne rimasi estasiato – ero molto giovane (avrò avuto…12/13 anni?). Vedo e rimango incuriosito (mi piaceva il cinema horror) da questo disco con la copertina quasi “gore” con raffigurata questa persona con la gola aperta e lo compro subito. L’ascolto e rimango folgorato! Mi chiesi: “come cavolo fa a fare queste cose con la sola voce?!” Sembrava veramente uno strumento! E questo episodio mi ha aperto nuovi orizzonti mentali ed è cambiato quello che poi sarebbe stato il mio approccio alla musica. Poi…non sono di quelli che dicono: “(…) io mai una lezione di canto e bla, bla, bla” (leggi = “sono un genio autodidatta”)” …come se ci fosse da vergognarsi, perché c’è un po’ questa tendenza, se vogliamo spocchia in chi canta in certi giri. Ti dirò di più. Io addirittura per svolgere un certo tipo di studi ho aspettato di raggiungere la maturità vocale necessaria per la propedeutica che precede l’ingresso al Conservatorio. E gli studi di Stratos li ho ripresi ovviamente dopo rispetto all’episodio del disco, per gradi, mano a mano che approfondivo il discorso vocale; e prima di entrare al Conservatorio mi sono rivolto comunque a un soprano che insegnava canto lirico in Italia (Lucia Stanescu). Poi mi sono iscritto regolarmente, anche se ho avuto anche lì un approccio un po’ ribelle, ma non dilunghiamoci… però, ecco, questa cosa di usare la voce in modo non convenzionale e anche suonare a orecchio per il discorso prettamente strumentale è sempre stato un mio ‘vizio’. Forse è anche per questo che amo tanto l’improvvisazione, entrare in un flusso sonoro e lasciarmi andare, in modo sempre diverso e per certi versi anche imprevedibile. Chiaramente: confini armonici premettendo. A livello di produzione, a parte i classici gruppi rock / heavy nati tra i banchi di scuola e una quindicina di anni di attività parallela di metal estremo (ho suonato anche thrash, death, grind, black, etc), il mio primo lavoro che non ‘ripudio’ è una demo fatta uscire nel 1990 per il progetto F.ormal L.ogic D.ecay. Era un lavoro molto minimale, ispirato dalle sperimentazioni di Pierre Schaeffer e John Cage. Ecco ancora quindi cose diverse dagli ascolti abituali o dei miei amici… Da lì poi ho abbandonato ogni remora espressiva: non suonavo per i soldi (come se poi fosse facile…), per la gloria, neanche per le ragazze o per il partito…no: lo facevo solo perché era l’unico modo in cui riuscivo a tirare fuori, dare una sorta di forma percettiva a quello che avevo dentro. Il mio debutto discografico, la prima uscita di larga diffusione intendo, lasciando perdere le demo tape e prodotti di questo tipo, la debbo a Giovanni Indorato (ai tempi con la label Beyond…Prod.). Una persona incredibile, per me quasi un fratello, anche se oggi abitiamo un po’ distanti l’uno dall’altro. Ai tempi lavoravo per lui come grafico per le sue uscite e lui aveva già apprezzato ad esempio il primo demo di En Velours Noir, mi aveva dato una mano per distribuirlo, etc. Sapeva che ero entrato in studio per registrare per Furvus, direttamente un disco, senza demo o altro. Mi chiese di ascoltarlo. Finito l’album mi dice qualcosa come: “con quale formato o packaging lo facciamo uscire?”. Diretto ed essenziale, come è fatto lui. Sempre lui poi ha fatto debuttare il mio progetto En Velours Noir prima citato, mentre la prima pubblicazione professionale per F.ormal L.ogic D.ecay avviene uno o due anni dopo con la tedesca Dark Vinyl, per l’album “Løvstakken”. E qui mi fermerei, perché più che una risposta è una biografia. Ecco i link diretti per ascolto:
Ho parlato dei tuoi progetti musicali, tutti da solista e diversi tra loro. Sono tre lati di te ugualmente ripartiti o tra questi uno ti è particolarmente caro? No, non del tutto e poi mi spiego meglio. Sono tre sfaccettature della stessa persona che per motivazioni stilistiche, di riferimenti culturali ben precisi, mi permettono di incanalare quello che sto componendo e dargli una connotazione estetica finale. Con Furvus esprimo il mio amore per la musica antica, le drammaticità epica, la sofferenza dell’uomo nei Secoli bui, l’introspezione umana all’alba della società moderna… e mi sono imposto anche dei confini filologici (per sonorità, strumentazione, iconografia, etc.) ben precisi. Con En Velours Noir si cambia registro: esprimo una visione più romantica, una teatralità più gotica, a tratti grottesca e che non si spinge solitamente oltre i riferimenti alla Belle Époque. Ultimamente il progetto si è evoluto verso riferimenti jazz noir e chansonnier, ma rientra comunque in un’estetica dark. F.ormal L.ogic D.ecay è il resto e in tal senso è il progetto che mi dà maggiore libertà. Tutto ciò che è ricerca sonora, espressione non convenzionale… poi chiaramente, anche per un naturale gioco di esclusioni, a livello di sonorità si prosegue l’iter storico a cui accennavo prima – diciamo che parte dalla musica concreta – per spingersi fino alle frange più estreme della power-electronics…ma nel mezzo trova posto tutto quello che ha venature sperimentali: ambient, industrial, Kraut, IDM, jazztronica, elettroacustica e via dicendo. Con questi tre progetti riesco a dare un volto ben preciso alla mia musica. Come riferimenti storico-culturali a ben vedere rimangono esclusi un paio di secoli, ma qui subentra un discorso di gusti personali che riguardano l’estetica di questi periodi (600/700). Diciamo sinteticamente che non mi piacciono tanto le parrucche incipriate…(poi, la musica di Bach, Handel …poi Mozart…il primo Beethoven per citare i nomi più noti non si tocca, ovvio).
F.ormal L.ogic D.ecay è forse il tuo progetto che lascia più spazio alla sperimentazione, alla pura creatività. Le tue intuizioni, come rielaborare il rumore dei fornelli del gas o le urla della vicina di casa, sono qualcosa di geniale. Quanto dura la gestazione di un album?So che presto pubblicherai qualcosa di nuovo… Sì, come accennavo prima è un progetto per me di totale libertà espressiva con una più o meno esplicita venatura sperimentale. Le tracce a cui ti riferisci per dire sono legate alla mia ricerca ‘concreta’ passata ed è materiale molto estemporaneo e di veloce gestazione. Anche datato, se vogliamo. Poi, a seconda dello stile adottato, chiaramente le tempistiche di produzione si allungano; a prescindere che si tratti di un lavoro <apparentemente astratto> come può sembrare il noise, la power-electronics o ambient; oppure che abbia una forma più strutturata e intellegibile come certa musica elettronica o perfino folk apocalittico, perché quello che mi ruba maggior tempo è il concept; che quasi sempre per me è anche legato a un discorso visual per le mie illustrazioni, artwork, etc. La registrazione di per sé avviene quasi sempre in modo istintivo, con tantissima improvvisazione. E a tal proposito – per rispondere all’altra parte della tua domanda – ho da qualche mese ultimato per questo progetto (F.ormal L.ogic D.ecay) il primo di una serie di album (al momento intitolata “Oxidierte Elektronik” / “Elettronica Ossidata”) dedicata alle sonorità elettroniche / sperimentali nate tra i primi anni 70 e metà 80. Un’epoca musicale che non ho potuto vivere del tutto, ovviamente anche per motivi anagrafici, ma rappresenta una parte fondamentale del mio background culturale come musicista. All’interno di questa disco tutto è stato realizzato con una dedizione quasi filologica, partendo dalla scelta dei timbri (ad esempio ho usato strumentazione vintage o accurate emulazioni di macchine storiche che per rarità e prezzi di mercato sono per me, come per tanti, quasi inaccessibili) fino ad arrivare a un workflow prettamente analogico e molto spesso come accennato prima improvvisato… La pubblicazione al momento era stata bloccata a causa dell’epidemia, ma se il problema rientra dovrebbe esser mandato in stampa verso quest’estate. Vedremo: è un periodo molto difficile per le case discografiche, come potrai immaginare.
Furvus è un progetto legato alla musica antica e neopagana, una ricerca accurata e fedele che sintetizza quasi un millennio di musica, dall’Impero Romano al tardo Rinascimento. Com’è nato questo progetto? Non nasce con un grosso intento programmatico che non sia il mio amore per determinate sonorità che pescavano tanto dalla tradizione della musica antica, soprattutto medioevale quanto dal settore delle colonne sonore dalle forti tinte epiche; sul piano ideologico c’è questo forte legame che ho sempre sentito con le mie origini pagane e anche una l’irrefrenabile moto interiore verso tutto quello che è stato l’oscurantismo religioso nella nostra cultura… in una chiave sicuramente più edonistica di quella che la storia ci ha consegnato tra lotte di potere e di culto. Il primo disco “Deflorescens Iam Robur” parlava proprio di questo e in soli 39 minuti e 20 tracce ho tracciato un percorso da quello che immaginavo fossero le composizioni marziali della Roma Imperiale fino ad arrivare al tardo Rinascimento. Ho cominciato a lavorarci ex abrupto attorno al 1998, molto tardi rispetto a quando ho iniziato a suonare…anche perché tecnicamente parlando questo accadde quando entrai in possesso di sintetizzatori che permettevano una decente emulazione di determinati strumenti classici (parlo di suoni non cheap tipo Bontempi) o comunque sonorità sì più moderne, ma che ne richiamassero il sapore o si amalgamassero con essi. Parlo di un periodo in cui registravo ancora la parte strumentale su bobina e la voce in studi professionali. Questa cosa è poi stata mal interpretata dalla stampa, che riportò che avevo usato solo strumenti veri antichi…se’…Magari! …Leggendo in rete poi ho scoperto (con molto piacere) che nonostante i suoni non perfetti il disco da alcuni è considerato un classico del genere …o non-genere…come definirlo? Sono gli anni in cui qualcosa di questo tipo veniva utilizzato esclusivamente per intro e outro di gruppi metal, ma non per un album intero. Mortiis forse, ma erano quattro note in croce. Magari gli Arcana? Sicuramente i grandiosi Ulver per le parti acustiche di chitarra…certamente alcune colonne sonore…ma niente di sistematico. L’album andò benissimo (tanto che è arrivato alla terza ristampa), anche grazie all’ottimo lavoro promozionale di Giovanni. Poi chiaramente, se mi permetti di chiudere con altri aneddoti – essendo un po’ una novità – il pubblico si divise tra quelli che lo capirono e apprezzarono (magari perché avevano anche produzioni Cold Meat tra i loro ascolti) e i metalhead più intransigenti che avevano comprato l’album pensando che fosse un album di power-metal e perché aveva un bellissimo packaging (il produttore si “svenò” in tal senso…): un digibook in pelle inciso in oro…e c’ero io in abiti neo-medievali con spade, mazze ferrate e serpenti… dettagli attraenti per un certo tipo di target, ecco… Ricordo ancora con simpatia una recensione di una persona che mi stroncò dicendo che il disco faceva schifo, perché “(…) non c’era neanche la batteria o un assolo di chitarra elettrica e dovevo tagliarmi i capelli in quanto indegno…io e la mia fottuta musica ambient!”. E sottolineo “ambient” per darti l’idea di quanto l’avesse ascoltato…o fosse esperto del genere… Altri poi si lamentarono del fatto che un “gruppo” che si affaccia sul mercato internazionale “(…) dovrebbe cantare in inglese e non in italiano”. E su questo stendo un pietoso velo…
Oltre la sperimentazione musicale, una cosa che mi ha particolarmente incuriosito è la sperimentazione vocale, unica nel suo genere. In cosa consiste? Allora…a parte ringraziarti, troppo gentile…cominciamo col dire che concretamente, se vogliamo parlare di voce come strumento non ho inventato nulla, ma a livello di approccio compositivo ho piuttosto cercato di introdurre per gradi nella mia produzione alcune soluzioni espressive. Talvolta anche in modo discreto, con un mixaggio quanto più armonioso possibile e che non facesse prevalere la voce sugli strumenti, ma piuttosto le consentisse di sciogliersi in unico flusso sonoro. Ecco allora che con questo tipo di mixaggio solo un orecchio attento può distinguere una naturale diplofonia vocale da un uso di un harmonizer, ma ci tengo a dirlo: l’unico effetto che uso per la voce è il riverbero. E neanche sempre. Qualsiasi cambiamento di timbro, colore, registro mi sforzo di ottenerlo in modo naturale, che si tratti di un disco come “His Master’s Void” (F.ormal L.ogic D.ecay) dove ogni traccia sembra cantata da una persona diversa che la parte corale poltimbrica di “Aes Grave” (Furvus). La ricerca vocale che svolgo da anni si basa essenzialmente su tecniche di modulazione della voce che effettivamente nella nostra tradizione occidentale sono sempre state appannaggio di nicchia, svolto in parte da grandi ricercatori quali appunto il prima compianto Stratos, in parte all’interno di giri culturali con attitudini divulgative che a mio avviso soffrono un po’ troppo una certe preponderanza ‘orientaleggiante’ (che è poi, Mirella è il motivo per cui la gente si è avvicinata poco, reputandola roba da fricchettoni o Hare Krishna e altri fraintendimenti). Ma è un enorme errore di massa. Il potenziale della nostra voce – che per me è e resta lo strumento più incredibile a nostra disposizione (e anche il più bastardo perché ti tradisce a seconda dei giorni) – è dannatamente sottostimato. Apro una parentesi: Uno potrebbe dire…figuriamoci: è già tanto se ci siano cantanti intonati in giro. Nella lirica, nel jazz, così come nel metal è il minimo sindacale…ma vallo a dire a chi fa musica leggera, cantautoriale…e potrei citare anche nomi grossi osannati della dark-wave…per non parlare dell’abuso di auto-tune, ma questo accade perché alla fine dei conti spesso la voce viene concepita (e in tal senso siamo assuefatti) come qualcosa di ben definito, limitato e che ci piaccia o no inconsciamente derivativo delle voci sanremesi che sentivamo intonare ai nostri genitori e allora diventa tutto solo una questione di approccio più o meno rispettoso, trasgressivo verso lo strumento. In pratica la differenza tra il chitarrista meticoloso che impugna bene una chitarra e quello che la tiene alle ginocchia e a stento sa tenere in mano un plettro o avere un corretto appoggio della mano. Chiusa questa parentesi… Poi personalmente ho cercato di andare anche oltre quanto imparato dalla suddetta tradizione vocale, spingendo la laringe verso territori anche pericolosi per la voce (ancora me li ricordo i cazziatoni al Conservatorio, perdita di voce, etc.), alla ricerca di suoni estremi o inediti. Ma se ci pensi alla fine le corde vocali, le pliche se le vogliamo chiamare in modo più tecnico sono tessuti tendinei che lavorano in modo simile alle corde di uno strumento, per vibrazione al passaggio dell’aria. Il nostro corpo provvede all’amplificazione, ma non c’è effettistica aggiunta…Tuttavia quello che si riesce ad ottenere per esempio solo con il diverso posizionamento della lingua nel palato o lavorando sulla laringe, mediante una specifica respirazione o fonazione…va ben oltre quello che ci ha raccontato buona parte della produzione discografica mondiale.
Recentemente hai inaugurato un sito, molto esauriente, che raccoglie tutti i tuoi progetti, L’Entropiste. Ce ne parli? Non essendo un assiduo frequentatore di social network, di fronte alla piega (ma diciamo anche “piaga”) che hanno preso negli ultimi anni ho sentito la necessità di isolarmi telematicamente. Ho sempre avuto siti o blog, li ho sviluppati per anni anche per lavoro, ma avevano il difetto di essere dispersivi a causa delle troppe diramazioni dei miei progetti artistici. ‘Approfittando’ del lockdown, ho portato a termine quello che era un mio vecchio progetto di portale che racchiudesse tutto quello che faccio, quindi quello che sono. E’ stato un lungo lavoro di raccolta materiale, ma anche di sintesi (ho tolto davvero tanto, sia perché per me non più rappresentativo, sia per una necessità catartica mia). Nasce così l’ entropiste.com: un modo per comunicare in modo più selettivo a una parte del suddetto network e condividere – e questo per me è importante – con gente veramente interessata (non quelli che ti aggiungono su Facebook per far numero o farsi gli affari tuoi, per intendersi) la mia musica sicuramente, ma anche parte di quello che mi porta a concepirla. Guarda…visti i riscontri positivi che sta avendo mi sono sentito motivato e sto già lavorando a parti chiuse al pubblico che riguardano ad es. la mia attività passata in gruppi ormai sciolti, o quella di produttore esecutivo per molti progetti musicali; e altro ancora che fa parte della mia vita musicale da moltissimo tempo.
Che importanza ha per te l’esibizione live? Ti manca non poterti esibire dal vivo in questo periodo? Sinceramente? No. E lo dico con il massimo rispetto e solidarietà per tutti quelli hanno deciso di vivere di musica live o semplicemente di utilizzare questa formula comunicativa. Il punto è che sono cresciuto ascoltando gruppi che dal vivo triplicavano la durata dei pezzi lasciandosi andare in sperimentazioni non programmate o che su disco partivano da un’idea per poi svilupparla in maniera totalmente diversa… quasi lisergica. Ed è con questo spirito che ho passato gli ultimi anni a fare live spesso di pura improvvisazione sonora, ma davanti a un pubblico che era abituato a sentire musica di genere (se non mi conosceva) o in caso contrario con un contenuto sonoro pedissequamente fedele a quello presente su determinati miei dischi o di artisti a me paragonati in sede promozionale. Aggiungo: dischi sempre diversi ma anche rielaborazioni o performance live sempre diverse nel caso di F.ormal L.ogic D.ecay (che poi è quasi l’unico progetto che ho portato dal vivo ultimamente) e questo destabilizzava tanto l’ascoltatore quanto la mia libertà espressiva. In ultima analisi, considera che sono un solista, non mi occupo di musica propriamente minimale… odio le basi preregistrate e dal vivo creo quindi le mie stratificazioni sonore con una loop station, suonando uno strumento dopo l’altro…e puoi facilmente immaginare quante volte mi sia spaccato la schiena a portarmi dietro un vero e proprio arsenale… Con il primo lockdown ho rotto ogni indugio, rivoluzionato il mio studio, ricablato tutto e per un po’ di tempo voglio dedicarmi esclusivamente alla produzione.
Cosa c’è nel futuro musicale di Luigi Maria Mennella? Da qualche anno ho spostato la mia produzione verso il cinema (essenzialmente colonne sonore e sound design). Si tratta di un mondo che adoro fin da quando ero bambino, ma a mio avviso non avevo ancora la maturità musicale per poter anche solo sperare di provarci. Mi è stata data fiducia da alcuni registi e – cosa che mi ha fatto enormemente piacere (non pensare che sia un ambiente meno chiuso di quello che conosciamo per la musica che ascoltiamo di solito) sono stato motivato da compositori dell’ambiente e ho cominciato a lavorare ai miei primi corti e mediometraggi. Il Covid-19 chiaramente ha rallentato un po’ le cose (anche l’anno scorso dovevano uscire tre lavori molto eterogenei, per me importanti che ormai vedranno la luce forse questa estate? Autunno? Chi lo sa?), ma questo cammino ormai l’ho intrapreso e, pur non abbandonando i miei progetti musicali storici o i lavori di ricerca vocale, sicuramente buona parte delle mie energie future andranno in questa direzione, perché è quella che trovo più stimolante.
Adesso andiamo ad ascoltar qualcosa tratto da Furvus, dall’ ultimo album “Aes Grave”. Vuoi parlarcene tu? Allora… “Aes Grave” è un disco che esce nel 2017 e viene pubblicato dall’etichetta tedesca Dark Vinyl. Il concept dell’album è una sorta di viaggio nel passato, nel tentativo di rivivere tutto quello che il tempo non ha cancellato e la memoria dell’uomo e la storia hanno fortificato. Mi riferisco al ricordo delle persone amate, della fede persa e del sangue versato. Si tratta di quadri emotivi ridipinti con colori moderni, dove tutto però è realizzato con un uso equilibrato del computer (ad es. ogni strumento acustico percussivo è realmente suonato, ogni voce è realmente cantata – cori inclusi – da me / non ho assolutamente utilizzato VST vocali; che poi ci tengo a dirlo è una caratteristica peculiare del progetto Furvus). Questo poi è stato miscelato con strumenti acustici chiaramente sintetizzati, perché non ho un’orchestra vera a disposizione, su un substrato di elaborazioni concrete, ambientali. ll titolo “Aes Grave” richiama l’uso di questa moneta antica (letteralmente “bronzo pesante”) che veniva posta sugli occhi dei defunti per pagare il traghettamento verso l’Ade da parte di Caronte; e la metafora finale è quindi quella di una catabasi sonora nell’inferno della propria intelligenza emotiva con un obolo forse troppo caro da pagare: il rivivere e dover reinterpretare i suddetti ricordi e le emozioni, spesso il dolore, che potevano aver suscitato. …e quando dico “dolore” non ci giro intorno. In “Melopoeia Pestilentiae, Caudata Domina Nostra”, in questa traccia dove interpreto un frate che vaga nella desolazione della città devastata dalla peste con una lanterna in mano e recita una preghiera in latino, prima di accasciarmi malato al suolo e venire divorato dai topi …mi sono realmente gettato a terra con un oggetto di vetro (in modo da riprodurre sia il suono della caduta che del vetro rotto) e mi sono anche fatto male …quindi – come si dice nel cinema? – “buona la prima”.
Grazie di avermi concesso quest’intervista. Grazie a te per l’attenzione, a quelli che non si sono addormentati visto che son stato prolisso. E un grazie anche a quelli che magari vorranno visitare il mio sito per conoscere meglio la mia musica.
Ascolta qui l’audio completo dell’intervista andata in onda il giorno 01 febbraio 2021:
Tra le cose più belle offerteci da questi primi scampoli del 2021, c’è sicuramente “Club Atletico” (disponibile per il download QUIoppure per lo streamingQUI) di Petrolio pubblicato dalla Depths Records. Un tappeto musicale creato per narrare le drammatiche vicende, ancora oggi poco chiare, della dittatura argentina.
Ciao Enrico, il tuo nuovo EP “Club Atletico” trae ispirazione dai tragici fatti della dittatura argentina che ha sporcato di sangue il Paese sudamericano tra la metà degli 70 e gli 80. Quando è nato il tuo interesse per queste tematiche e cosa ti ha spinto a raccontarle attraverso la tua musica? È un interesse che mi accompagna da tempo e che riguarda una ricerca a 360 gradi sulla storia contemporanea, per tutto ciò che, a partire dalla seconda guerra mondiale, ci ha segnato, anno dopo anno. È chiaro che quanto sta accadendo, a partire dagli anni ’30 dello scorso secolo fino ad alcuni eventi orribili dei giorni nostri, rivela la macabra capacità dell’essere umano a spingersi in abissi di crudeltà impensabili. La dittatura argentina, così come altre dittature del Sudamerica di quel periodo, si è caratterizzata per essere fortemente brutale, feroce nei confronti di chi si opponeva alle loro idee. Una dittatura oscurantista ma nello stesso tempo accettata dal civilizzato mondo occidentale.
Quali sono le emozioni che hai voluto trasmettere con i tuoi brani e tramite quali accorgimenti tecnici le hai palesate? Questa è la ragione principale per cui ho scelto di parlare di quel periodo storico e di quanto avvenuto. Ho citato il cinema di Bechis perché mi è stato di aiuto per focalizzare le sensazioni che volevo ricreare a livello musicale, partendo dal vuoto, dal silenzio e dalla solitudine evocate nei film di Bechis e nelle poesie dei detenuti che ho rinvenuto in rete. Non ho utilizzato particolari accorgimenti tecnici se non l’utilizzo di campionatori per ricreare i suoni di archi, modalità espressiva del tutto nuova nel panorama di Petrolio; ma la tecnica compositiva non è mutata rispetto al passato, è semplice ricerca volta a trasporre in rumore e musica ciò che leggo dentro di me.
Una delle fonti di ispirazione dell’EP, come hai già avuto modo di dire, è il cinema di Bechis, le altre quali sono? Non è stato facile rinvenire notizie e fonti relativamente a questo argomento; con il maestro Bechis ci siamo scritti e accordati per vederci ma è scoppiata la pandemia e ad oggi non siamo riusciti ad incontrarci. Oltre alla cinematografia del regista italiano, ho cercato di procurarmi film e documentazione in rete. Alcuni documentari e testimonianze sono accessibili soprattutto nei siti di coloro che ancora cercano figli, nipoti desaparecidos. Ma è un tema ancora molto sentito e divisivo, quindi occorre scremare molto le notizie che si trovano soprattutto in rete.
Non ti nascondo che l’argomento negli anni scorsi è stato anche una mia fissa, vorrei sapere se hai letto “Le irregolari. Buenos Aires Horror Tour” di Massimo Carlotto ed eventualmente che ne pensi… Mi fa piacere leggere che sia un argomento di tuo interesse. Lavorare su questo tema mi ha consentito di creare una sorta di filo del ricordo che, sebbene per una audience di nicchia, spero possa generare un interesse a documentarsi. Ho letto parecchi libri di Carlotto ma questo purtroppo mi manca e quindi me lo procurerò visto il tema trattato. Chiaramente conosco la storia di Carlotto e il suo legame con il Sudamerica, terra affascinante per chi ama la politica e la storia.
I brani sono nati senza parti liriche ma sono stati concepiti per poterle ospitare in futuro: cosa ti ha spinto a non utilizzarle da subito e come mai già sai che in futuro avrai la necessità di farlo? Petrolio nasce come un progetto solista ma mi ha sempre portato a spingermi verso la collaborazione in diverse modalità. Già l’album precedente era costituito da condivisioni sonore con diversi artisti. Con “Club Atletico”, vista anche la delicatezza del tema trattato, mi sarebbe piaciuto avere un “qualcosa” che lo rendesse unico. Con Depths abbiamo così pensato di contattare una serie di artisti vocalist per capire la disponibilità a partecipare a questo progetto. Così è nata l’idea di una ulteriore appendice alla versione strumentale, modellata sulle voci e sui testi di artisti di cui non posso spoilerare ancora nulla ma che presto verranno annunciati.
Nel 2021 è previsto un tuo nuovo show interattivo, sarà incentrato sui brani di “Club Atletico”? Assolutamente sì, già nelle poche esibizioni di questo triste periodo alcuni brani di “Club Atletico” sono stati oggetto della performance. In particolare a settembre a Fano nella rassegna “Casamatta Discontinuità” due brani sono stati utilizzati per una installazione audiovisiva da me ideata.
L’iter compositivo che segui quando crei un qualcosa di tuo, come “Club Atletico”, varia di molto rispetto a quello che utilizzi per un prodotto che ti viene commissionato, tipo una colonna sonora? Non molto, dipende da quanto, nel processo creativo di una colonna sonora o di una performance teatrale, la produzione interviene con le proprie richieste. Spesso anche per la composizione di un mio disco utilizzo immagini o visuals come punto di avvio del processo creativo. Per una colonna sonora è chiaramente indispensabile entrare nel mood creativo di chi ha ideato il progetto, ciò però non impedisce a Petrolio di spaziare e muoversi nel proprio universo musicale.
Quanto la pandemia, con i relativi blocchi, ha compromesso la tua attività artistica e lavorativa? È stato realmente un periodo assurdo e difficile, che ha comportato a marzo del 2020 l’annullamento di parecchie date in Europa, però mi ha avvicinato ancora di più ad altri colleghi con i quali abbiamo condiviso questa assenza d’arte. Non amando particolarmente l’esibizione online, sebbene indispensabile, ho colto quelle poche aperture che mi hanno consentito alcune esibizioni a pubblico ridotto. In questi giorni esordisco con una performance teatrale che mi porterà prima a un debutto tramite piattaforma digitale, ma si sta paventando la possibilità di debuttare anche in presenza nei prossimi mesi. Una piccola luce alla fine del tunnel.
Ormai è chiaro che non ne usciremo migliori da questa situazione, il tuo disco racconta una delle pagine più oscure della storia recente: non c’è speranza di redenzione per l’umanità? Quando all’inizio della pandemia sentivo che saremmo migliorati, mi chiedevo che cosa spingesse queste persone ad essere così ottimiste. L’essere umano è capace di grandi cose, ma anche di efferatezze e crudeltà inaudite. Odiare un tuo simile fino al punto di privarlo del suo bambino, dandolo in adozione illegale a un gerarca del proprio governo, torturarlo fino a toglierli la propria dignità e identità, creare campi dove sterminare esseri umani solo per il fatto che pregano per un dio diverso o perché di razza o credo politico differente, sono fatti storici che riguardano ormai da decenni gli esseri umani (ricordiamo che negli anni ’90 avevamo campi di concentramento a pochi km dai nostri confini). Solo la curiosità nell’altro, nell’apprendere culture diverse, nel rispettare le libertà degli altri esseri umani, e quindi una visione meno egoistica e autoreferenziale può creare un mondo più accessibile. Ma siamo realmente molto lontani da questa aspettativa.