Flares on Film – About love, war and electricity

Terzo lavoro in studio per i Flares on Film. “About Love, War and Electricity” è il titolo della prima uscita della neonata label Lift Records che da subito denuncia una profonda distanza dallo streaming in rete, ritenendolo privo di valore, restituendo la possibilità di ascolto solo grazie al supporto pubblicato sia in forma fisica che tramite acquisto digitale. Scopriamo di più su questo progetto con il leader della band FLB.

Puoi raccontare ai nostri lettori la genesi della band, quando vi siete formati e come siete arrivati al terzo lavoro da poco pubblicato?
Il progetto Flares on Film prende forma nel 2015. Nasce sulle ceneri degli Eva, band che ha vinto vari concorsi e suonato in piccoli tour indipendenti in Italia, al MEI nel 2011, siamo arrivati al 7° posto nella classifica indie italiana. Le produzioni dei Flares On Film sono principalmente un prodotto di mie composizioni. Nel corso degli anni si sono susseguiti vari artisti e musicisti di varia estrazione. L’anima del progetto infatti prevede una continua ricerca di sonorità e di conseguenza di volta in volta, di album in album vengono convocati i giocatori più adatti. Il primo album “Happy Ending” (Godz Records 2015) ottiene buon riscontro nel pubblico underground e sul web, soprattutto all’estero per via dei testi in inglese.
Nel 2019 esce il secondo album “Naive Songs” con la Private Room Records. Un album più concettuale e vario che spinge ancora un po’ di più l’asticella spostandosi ancora più lontano. Molte piccole radio francesi, tedesche e ucraine mandarono in play “The Saddest Song”, il singolo. Nel 2020 c’è stato “Our Souls At Night” sempre per la Private Room Records, e qui lo spirito della collaborazione si spinge oltre, creando un album composto da remix del precedente “Naive Songs”, di vari autori italiani e uno statunitense. Al momento la formazione oltre a me comprende il violinista pluristrumentista Michele De Luisi, in arte Pino Di Lenne e il batterista polistrumentista Marco Fischetti.

Sul comunicato stampa c’è un riferimento allo scrittore Herman Melville, come e a cosa è legato alla vostra musica?
Il concept dell’album prende spunto dal romanzo di Melville, “Bartleby lo scrivano”, dove il protagonista senza dare alcun tipo di spiegazione, si lascia morire. Detta così sembra una cosa triste e spaventosa, ma il senso che vorrei trasmettere è il tema del lasciarsi andare, addirittura, come nel caso del libro, eventualmente anche ad un destino infausto, senza troppo pensarci, senza chiedersi un perché, senza dare spiegazioni. Una sorta di invito a lasciare le redini della propria vita, andare alla deriva affidandosi solo al flusso della propria esistenza, nel bene e nel male. Affidarsi tuttavia non in maniera decadente, ma come se ci fosse sempre una speranza. In altri termini, un inno, se vogliamo, alla perdita di controllo, all’assenza della ragione. E per dare un valore più ampio l’album è costruito soprattutto attorno alla voce. Infatti ci sono varie collaborazioni con altri cantanti sia uomini che donne, proprio a testimoniare la pluralità del concetto di ‘controllo’, che evidentemente ci riguarda tutti.

Avete un sound elettronico molto sofisticato e ben prodotto, come definireste la vostra musica? A cosa vi siete ispirati?
È sempre davvero difficilissimo dare una definizione. Posso provarci partendo dai nostri punti di partenza. Prima di tutto immagina che l’attitudine lo-fi o comunque di far suonare qualsiasi cosa ci capiti tra le mani, l’abbiamo presa in prestito dal Beck di “Odelay”. Magari il primo disco suonava anche lo-fi per via delle registrazioni, ma oggi, continuiamo a mantenere quell’attitudine oserei dire quasi punk. Le voci sono tutte registrate nella cabina armadio di casa.
Un altro elemento importante della nostra musica è senz’altro il soundscaping, il paesaggio sonoro, quindi chiari riferimenti a Brian Eno di “Music For Airports” o anche nelle produzioni con David Bowie. La parte finale del nostro brano “The Eyes” parte proprio dall’ispirazione di “Warszawa” di Bowie. Ci sono spunti alla Radiohead, Pink Floyd, Alessandro Cortini, le atmosfere dark dei Depeche Mode, Nine Inch Nails. Alla fine quello che conti, al di là dei bei suoni, è sempre e solo la melodia della voce. Sono di scuola beatlesiana per cui confido nella melodia come in una religione. Il resto è tutto un gioco per i musicisti che si divertono a produrre musica.

Il videoclip di promo all’album “The Longest Distance” oltre che a Bari è stato girato a Tokyo, da chi è stato girato ed è stato difficoltoso girarlo così lontano? Secondo te quanto le tecnologie oggi disponibili aiutano maggiormente per questo tipo di lavoro e quanto aiutano o meno nella diffusione e la fruizione della musica?
Il video nasce dall’idea di rappresentare la domanda “il giorno più bello della mia vita è già passato o deve ancora arrivare?”, che è il tema centrale del brano. Ho pensato che l’immagine più diretta per far arrivare questo concetto fosse un incontro, due persone che si cercano da sempre e che dovrebbero incontrarsi. Abbiamo ingaggiato il regista Luciano Parravicini della Lux For Media di Bari. E con lui siamo riusciti a giocare con i due protagonisti e i loro due piani di realtà. Lui vaga per la città cercando lei, e lei è nella sua stanza aspettando lui, ma chi dei due è davvero reale? Abbiamo scelto la notte e la città perché sono due cose a cui sono molto legato, e abbiamo scelto di girare per le strade di Bari cercando di non dare sempre quell’immaginario di città del sud tra pescatori, focacce e mare. Le riprese di Tokyo invece sono state attinte dagli archivi di Luciano Parravicini. Tokyo più che mai ha un fascino notturno e moderno e ci sembrava adatta per raccordare alcuni punti del video. La cosa bellissima è che non sapendolo sembra semplicemente un’unica città.

Avete in programma date di concerti imminenti?
Questa è fase purtroppo difficile per i concerti. Non è facile organizzare lunghi spostamenti perché ovviamente la questione Covid vincola moltissimo ed è davvero impossibile fare progetti a lunga scadenza. Ora, timidamente stiamo rodando la band dal vivo in concerti vicini, ma viviamo alla giornata, forse in primavera sarà più facile spostarsi. Abbiamo inoltre aggiunto per i live Costantino Temerario, già voce e chitarra dei Turangalila, così possiamo suonare con un impatto decisamente più interessante e oserei dire anche più rock.

Per ora l’album è disponibile solo su CD, il vinile?
Come tante cose portate dal covid, anche la stampa su vinile è stata posticipata di molto per assenza di materie prime. Immagina che l’album è uscito il 12 novembre e se tutto va bene, abbiamo saputo che ci arriverà tra le mani prima di marzo. In questa versione abbiamo aggiunto altri due brani inediti proprio per renderla diversa e se mi concedi anche un po’ più preziosa. È molto bello questo ritorno al vinile. Credo che la musica abbia davvero una cura che merita quando ha un supporto fisico. Infatti abbiamo scelto di non essere su nessuna piattaforma di streaming. Ci sembrava troppo avvilente sparire in un mare così vasto e così poco riconoscente. Per i grandi nomi non è un problema, ma per noi come per tanti altri, vuol dire solo sparire nell’infinito. Preferiamo Bandcamp, è più underground e quasi mi ricorda Myspace.
su Bandcamp comunque si può ascoltare gratuitamente il disco.

Sono due anni che la musica è ferma, tranne poche eccezioni, non sembra sia tutto realmente ripartito, anzi, come l’avete vissuta personalmente e come credete si evolverà la situazione? Come dicevo all’inizio di questa intervista, personalmente sono aperto verso il futuro e le cose che accadono. Purtroppo il covid è stata una cosa terribile per tutti, ma soprattutto per chi ne è rimasto personalmente ferito da lutti o altre perdite. Ma da questa terribile vicenda dell’esistenza sono arrivate anche un po’ di cose buone. Molti di noi hanno cambiato l’approccio alla vita, forse qualcuno si è reso conto le cose non durano per sempre. E poi si è sdoganato lo smart working. Giusto per fare un esempio, la prima parte del missaggio di questo album è stata fatta online. Cosa porterà? Come si evolverà la musica? Sono positivo, credo prima di tutto che questi anni di stop siano stati utili per chiuderci nei nostri studi e scrivere musica. L’unica cosa di cui risente la musica durante il covid sono stati i concerti soprattutto delle piccole band nei piccoli locali. Però a dirla tutta è stato solo il colpo di grazia. Oggi di musica ce n’è tantissima, ma soprattutto l’accessibilità è decisamente più spinta rispetto ai tempi di Napster. Quindi gli ascoltatori sono decisamente più saturi. Immagina anche cosa può fare Spotify, musica per milioni di anni come sottofondo anonimo della vita. Credo che dobbiamo ancora raggiungere un punto di saturazione massima prima di fermarci e ricominciare ad ascoltare ciò che è giusto per il nostro grado di elaborazione. Magari ascolteremo meno musica, ma sicuramente almeno ce la sceglieremo noi e non un tristissimo algoritmo.

Wanted Record consiglia l’ascolto di “About Love, War and Electricity” dei Flares on Film.

INTERVISTA ORIGINARIAMENTE PUBBLICATA SU “IL QUOTIDIANO DI BARI” IL 22 DICEMBRE 2021

Joyello Triolo – Cover and over again

Joyello Triolo è un DJ, musicista, critico musicale, oltre al suo blog online Fardrock collabora con riviste musicali specializzate. Ha pubblicato un libro biografia sui Krisma, “CHyberNation” (2011), un libro su Faust’o, “Dentro questi specchi” (2014) e l’interessantissimo “Intrusi a Sanremo” (2017), tutti testi a cura della Crac Edizioni, che manda alle stampe anche il suo ultimo “Cover and over again – 100 canzoni, (più di) 200 versioni”, un libro in cui l’autore prende in esame 100 canzoni e di ognuna ne racconta la storia attraverso le versioni originali e le tante cover effettuate successivamente da vari interpreti. Il libro sfata molte nostre convinzioni, tanti sono i brani che nell’immaginario attribuiamo ad un artista e invece Triolo ci fa scoprire che l’autore e/o l’interprete originale è un altro. “Tainted love” portata al successo dai Soft Cell è una delle più comuni tra queste o la ancor più conosciuta “My Way” di Frank Sinatra, “I Will Always Love You” di Whitney Houston, nota colonna sonora per il film “Guardia del corpo” o “Hey Joe” di Jimi Hendrix, per dirne solo alcuni. In verità sono tutte cover. E nel libro di Triolo è tutto spiegato. Il libro, oltre questi 100 brani, contiene anche le schede di 10 album realizzati da singoli artisti o band, composte interamente da cover, ad esempio il recente “California Son” di Morrissey, gli altri ve li lasciamo scoprire nella lettura del libro. Sveliamo solo un altro nome, quello di Ivan Cattaneo, a cui è affidata la prefazione del libro stesso. Abbiamo contattato l’autore Triolo per entrare meglio in questo fantastico mondo delle cover, che tanto ci e lo appassiona.

Come è nata l’idea di un libro sulle cover?
Diciamo che per ogni appassionato di musica e canzonette, le cover sono sempre state croce e delizia e così è per me. Ad esse mi approccio sempre inizialmente con un misto di curiosità e diffidenza, che immagino siano le emozioni che accomunano un po’ tutti noi. La canzone la conosciamo già, magari è una delle nostre preferite e quindi ci abbandoniamo ad essa valutando la qualità dell’arrangiamento e le intenzioni dell’interprete, facilitati dal compito di ascoltare qualcosa di già familiare. Di fatto, io trovo che sia una scuola molto interessante che è maturata con gli anni e a me incuriosisce ed appassiona sempre. L’idea del libro nasce proprio da questa passione e dalle sorprese che ho spesso ricevuto dall’ascolto di queste versioni.

Ci sono cover diventate più famose dei brani originali. Quali secondo te sono quelle “insospettabili” per cui la gente attribuisce il credito a chi ne ha fatto una cover molto popolare senza sapere di chi è l’originale?
Moltissime! La prima che mi viene in mente è “Betty Davis Eyes”, universalmente nota come un successo di Kim Carnes quando in realtà l’aveva incisa Jackie DeShannon (che l’ha anche scritta) nel 1974; “Video Killed The Radio Star”dei Buggles, era stata già registrata un anno prima da Bruce Wooley; “Hush” dei Deep Purple (originariamente di Billy Joe Royal), “Cocaine” di Eric Clapton, che era di JJ Cale e “It’s Oh so Quiet” di Bjork, rifacimento pedissequo di un brano di Betty Hutton del 1951 a sua volta già cover di un vecchio brano tedesco. Poi ci sono casi “bizzarri” come “Dazed And Confused” dei Led Zeppelin e “Ray of Light” di Madonna che sono cover anomale, per motivi differenti che… scoprirete nel libro”.

C’è una che ha sorpreso anche te facendo ricerche per questo libro?
Più di una a dire la verità, ma diciamo che mentre mi stavo approcciando per scrivere la scheda di “Something Stupid”, pensando che quella di Robbie Williams con Nicole Kidman fosse la cover del successo di Frank e Nancy Sinatra, ho in realtà scoperto che già questi ultimi avevano fatto la cover di un successo di Carson & Gaile. Non lo sapevo.

Quale dovrebbe essere il segreto di una “cover perfetta”?
Oh beh, mi chiedi tanto: non ho l’autorevolezza per stabilire i canoni di una cover perfetta. Posso dirti quelli che valuto io, che sono: rispetto per l’originale e emotività. Una canzone ha due elementi precisi che sono spartito e testo. Nessuno di questi due, per il mio gusto, possono subire esagerati stravolgimenti. Il rispetto per l’autore è sacrosanto e se c’è un fa bemolle in un determinato punto, ne va tenuto conto. Lo stesso vale per l’intenzione: “capire” quello che si sta cantando è fondamentale, solo così sarà percepibile la personalità dell’esecutore espressa da arrangiamento e interpretazione. Un esempio banale: non posso pensare a Joey Ramone che fa “What a Wonderful World” esattamente come l’aveva incisa Louis Armstrong, non avrebbe alcun senso. Da lui mi aspetto la batteria in quattro e le chitarre distorte, e va benissimo. Il brano rimane lo stesso, non c’è una sola nota (o parola) cambiata. Il cantante dei Ramones l’ha fatta sua e… a me piace.

Che ne pensi invece del fenomeno tribute/cover band così “dilagante” e diffuso?
Penso che non c’entri nulla con quello di cui ho scritto nel libro. Si tratta di un fenomeno legato unicamente alla musica dal vivo che in certi periodi ha potuto sopravvivere solo grazie a gruppi che non avevano velleità autoriali e si divertivano a suonare. Il pubblico di questi eventi è generalmente quello dell’ascoltatore occasionale, che non ha un reale interesse per la musica ma preferisce (e a volte pretende) che gli venga offerta solo quella che già conosce e che non richieda l’attenzione necessaria. Non ha nulla a che vedere con l’arte, è un passatempo, come il karaoke o il juke-box. E non mi interessa.

Stai lavorando a qualche nuovo progetto?
Ho aperto diversi ‘file’ per alcune idee che mi sono venute ma sono tutti talmente embrionali che non ha senso parlare come di nuovi progetti. Sicuramente, se scriverò qualcosa di nuovo sarà comunque sempre legato a questo mondo meraviglioso delle canzonette.

Wanted Record consiglia la lettura del libro di Joyello Triolo “Cover and over again – 100 canzoni, (più di) 200 versioni” ascoltando le varie versioni proposte dall’autore durante la lettura.

INTERVISTA ORIGINARIAMENTE PUBBLICATA SU “IL QUOTIDIANO DI BARI” IL 24 NOVEMBRE 2021

Andrea Chimenti – Tra il deserto la notte e il mare

Mai come in questi giorni difficili che stiamo vivendo necessitiamo di bellezza, cultura, musica per l’anima, parole che ci fanno riflettere, e puntuale quasi come per miracolo, ma non è affatto un caso, arriva il nuovo album di Andrea Chimenti. Nei negozi dal prossimo 5 novembre, “Il Deserto, la Notte, il Mare”. Un disco ispiratissimo, intimista, con un’ottima produzione musicale che segna un altro capolavoro nella ormai vasta discografia dell’artista che abbiamo raggiunto al telefono per capire a fondo il significato e il valore di questo gran lavoro.

Andrea, partiamo dal titolo, inizialmente doveva essere “KY”, successivamente cambiato in “Il deserto la Notte il Mare”, come mai questo cambio?
In effetti doveva essere “KY”, abbreviazione di “Kyrie”. Però qualcuno degli addetti ai lavori si è lamentato, anche Cristiano Roversi non era molto convinto della idea, forse perché sembrava un titolo molto criptico ed in effetti lo è, non alla “Chimenti”, un titolo poco comprensibile ed alla fine ho optato per “Il Deserto la Notte il Mare”, che tra l’altro è una frase tratta dal testo di “Bimbo”, un brano dell’album.

A proposito di “Bimbo”, è quasi una filastrocca o qualcosa di simile?
Ha una derivazione quasi da una ninna nanna, il testo parla di una mamma e un bambino che si trovano nel classico viaggio della speranza, che riflette anche i nostri tempi, che poi sono stati anche i nostri viaggi in tempi passati, i viaggi dei popoli che cercano una salvezza, una speranza, che cercano un futuro. Volevo qualcosa che fosse dolce al tempo stesso nella sua drammaticità.

Tornando al titolo dell’album quindi, perché hai estrapolato proprio questa frase da questa canzone?
Perché tutto in tutto l’album si parla del viaggio, anche in “Beatissimo” ad esempio. Ho cercato tre parole che potessero rappresentare il nostro tempo: il deserto, la notte e il mare sono tre parole e tre condizioni spirituali dell’anima che tutti prima o poi ci troviamo a dover attraversare o a fronteggiare. Il deserto è anche il deserto culturale che viviamo oggi, l’umanità vive di deserto, culturale e spirituale. La notte è una conseguenza di questo, la notte dello spirito, rappresenta il buio quando non si ha una luce per capire la nostra strada, quella da proseguire. Il mare invece rappresenta la distanza, ciò che dobbiamo affrontare, che spesso è burrascoso e ci separa dall’arrivo quindi dal luogo della speranza che è anche un luogo che ha a che fare con la psiche, con la profondità, spesso abbiamo timore a indagare dentro di noi, il mare rappresenta proprio questo. Al di là della simbologia di queste tre parole sono tre luoghi, tre spazi e condizioni che anche un’umanità reale si trova a dover affrontare oggi, popoli che trasmigrano, popoli che cercano in Europa la salvezza perché vengono dalla disperazione, devono realmente attraversare il deserto, la notte, buia anche da una condizione interiore ed il mare con un gommone. Alla fine il disco parla di questo, di un viaggio di popoli ma al tempo stesso di un viaggio anche nostro interiore, un viaggio dell’occidente.

Un disco quindi molto riflessivo, probabilmente quello di cui abbiamo bisogno in questo periodo. Parlavi di viaggi dei popoli, in qualche modo anche noi stiamo vivendo qualcosa di simile, no?
Esattamente, su condizioni e livelli differenti. Siamo tutti in viaggio, c’è un’umanità che in questo momento si sta trasformando che deve recuperare un serie di cose avendo anche smantellato tante certezze che in passato lo erano ed oggi vanno in qualche modo sostituite. L’umanità tutta è in un viaggio di sopravvivenza. Basti guardare come stiamo trattando il nostro pianeta che ci sta dando delle avvisaglie di non sopportare più la nostra presenza, per cui il nostro viaggio o torna a far parte della natura, invece di sentirci separati da questa, altrimenti rischiamo la fine dell’umanità, questo è un po’ il nostro deserto, la nostra notte, il nostro mare, di tutti quanti noi.

La scrittura dei pezzi è tutta tua?
La scrittura principale dell’album è mia, sì, fatta eccezione di due brani composti con Antonio Aiazzi e uno con Cristiano Roversi. Con quest’ultimo ci siamo occupati insieme dell’arrangiamento e della produzione dell’intero lavoro. Cristiano è stato un elemento cardine di questo disco.

Ci sono anche altri ospiti eccellenti nel disco.
Sì, ci sono alcune vecchie conoscenze come Ginevra di Marco, Francesco Magnelli, lo stesso Aiazzi, mentre David Jackson, è stata una rivelazione, perché io lo conoscevo sì, come fiatista dei Van Der Graaf Generator, ma tramite Cristiano c’è stato un contatto, il disco gli è piaciuto ed ha suonato in tre pezzi, anzi si è anche proposto di suonare dal vivo, speriamo quanto prima possibile. In più oltre al sax di Jackson c’è anche quello di Marco Remondini per il resto dell’album, e in “Beatissimo” il clarinetto di Roberta Visentini.

Un lavoro molto curato che ha visto però un ritardo nella pubblicazione, era pronto da un bel po’, vero?
Sì, il disco ha un po’ riposato, è stato scritto mentre lavoravo a “Nulla è andato perso” (album del 2017) con Gianni Maroccolo. Sono passati un po’ di anni da allora. Con Aiazzi è nata la collaborazione ai due brani che citavo prima da cui probabilmente è partito tutto e alla fine mi sono ritrovato questi brani che erano pronti per poter pubblicare un album intero ed ero persino contento perché io generalmente pubblico un disco ogni cinque anni, invece stavolta dopo “Yuri” (album del 2015) mi son ritrovato a poter uscire dopo un paio di anni. Ovviamente qualcosa doveva succedere a bloccare il tutto. Ho perso molto tempo dietro a un’etichetta discografica interessata al lavoro che mi ha fatto perdere tanto tempo, facendomi andare da Verona presso la loro sede diverse volte per diverse riunioni, facendomi fare anche figuracce con diversi musicisti, c’era un progetto in ballo con Teho Teardo per esempio, mi ero affidato a loro con tutta la fiducia possibile poi è saltato tutto, un disastro. Così successivamente mi son trovato senza etichetta. Così è fatto avanti Cristiano Roversi, un po’ per caso, perché ci eravamo sentiti per un’altra cosa in verità, ed è nata questa ottima collaborazione. Poi a bloccare ulteriormente il tutto c’è stata la pandemia come tutti sappiamo, però un altro caso fortuito ha voluto che venissi in contatto con David Bonato della Vrec Music Label, per una collaborazione con una band PopForZombie, per un brano dal titolo “Canzone inutile”. Una band che trovo molto brava, suonano del pop intelligente con dei bei testi, e da lì è nata la collaborazione con David e finalmente il disco esce con la loro etichetta.

Tanta attesa ma questo periodo per te è pieno di soddisfazioni, un album in uscita, la ristampa per la prima volta in vinile de “L’albero pazzo” (album del 1996) e non ultimo un premio alla carriera importantissimo ricevuto circa un mese fa al MEI 2021 (Meeting delle Etichette Indipendenti di Faenza).
Sì, per quanto riguarda “L’albero pazzo” è stato ristampato dalla Soffici Dischi, ed è vendibile solo sul mio sito ufficiale e successivamente lo porterò con me anche ai concerti. Per quanto riguarda il premio MEI, mi è arrivata la comunicazione da Faenza che volevano darmi questo premio e la cosa devo dire che mi ha inorgoglito molto. Soprattutto se analizziamo il fatto che io vengo da una scena musicale underground con tutte le difficoltà del caso. Per l’occasione c’è stato anche modo di presentare qualche brano al Teatro Masini a Faenza.

Premio meritatissimo che arriva a un mese dall’uscita di questo favoloso album, da cui saranno estratti in totale ben tre singoli: “Beatissimo”, “Milioni” e “In eterno” che si troveranno su tutte le piattaforme digitali, ma attenzione, chi vorrà ascoltare il disco per intero lo potrà fare solo acquistando il vinile o il formato CD, dando quindi un valore aggiunto al supporto fisico. Il formato LP conterrà anche il codice per poter scaricare i brani in digitale. Disco consigliato da Wanted Record, Bari. (La foto dell’artista è di Antonio De Sarno).

INTERVISTA ORIGINARIAMENTE PUBBLICATA SU “IL QUOTIDIANO DI BARI” IL 3 NOVEMBRE 2021

Massimo Longoni – Helloween: tutta la loro storia in un libro

Massimo Longoni è un giornalista, grande appassionato di musica e cultura pop in generale, collezionista di vinili, scrive di spettacolo su Tgcom24, collabora con varie riviste di settore e ha all’attivo la pubblicazione di diversi libri a tema musicale. Da pochi mesi infatti è uscita la sua ultima fatica letteraria, “Helloween, pumpkins fly free – tutta la storia”, un libro su una delle band heavy metal più importanti a livello mondiale, appunto gli Helloween. Il libro, uscito per la Tsunami Edizioni, va a colmare un importante vuoto che mancava nel mondo della carta stampata, ed è un bel regalo per tutti gli appassionati del genere e della band. Al di là di “Hellbook”, il libro ufficiale della band tedesca uscito alcuni anni fa, che era per lo più un libro fotografico, non una vera biografia, non esiste nulla di così completo riguardante gli Helloween. E c’è da dire che il vuoto lo si colma perfettamente, tanto che il libro meriterebbe numerose traduzioni, in quanto la band è famosa e seguita in tutto il mondo e Massimo Longoni, che abbiamo intervistato, ha compiuto un lavoro eccezionale nel raccontare la band e la sua storia, entrando in particolari sconosciuti anche dai fan più incalliti.

Massimo, il tuo libro è davvero pieno citazioni, testimonianze di cui molte internazionali, quanto tempo hai impiegato per scriverlo e come è nata soprattutto questa idea?
Questo libro è una vita di passione. Mi frullava da un po’ di tempo l’idea di questo lavoro, l’ostacolo però era stato sempre capire se ci fosse materiale su cui lavorare, trovare le giuste fonti. Ci ho messo un annetto circa e devo ringraziare Max Baroni della Tsunami che mi ha permesso di attingere dalla sua cospicua collezione di riviste heavy metal.

Come è nato il tuo “amore” per gli Helloween?
Li ho scoperti per puro caso nel 1989 con i due album “Keeper of the Seven Keys”, prima e seconda parte. Da lì non li ho più mollati, ho amato molto il successivo “Pink Bubbles Go Ape”, anche se molti lo considerano il loro punto più basso, addirittura peggio di “Chameleon”, in cui ci sono diversi brani interessanti e che con il tempo è stato rivalutato da molti fan. Quest’ultimo sicuramente è un disco che ha delle pecche, un album figlio di una frattura all’interno della band, non è un disco di una band infatti, ognuno lavorò per conto proprio, ma ciò non toglie che abbia all’interno dei brani eccezionali.

Forse uscito in questi giorni sarebbe considerato quasi un capolavoro per la sua varietà.
Assolutamente, anche perché oggi c’è molto meno intransigenza a livello di suddivisione di generi nel metal, c’è ancora l’anima “true metal”, vero, ma rispetto ai tempi è anche abbastanza superata.

Il tuo libro dà finalmente alla band quella maggiore credibilità, nonostante siano sempre ad alti livelli ma allo stesso tempo sempre messi un po’ in secondo piano?
Non sono mai stati presi sul serio fondamentalmente. Loro hanno pagato questo atteggiamento di non essere necessariamente “true” in un certo ambiente. Quindi da un lato avevano un atteggiamento molto diverso dalle solite band heavy metal, loro sono sempre stati molto ironici, leggeri, solari, positivi, senza attingere ai soliti stilemi metal un po’ “battaglieri” o quantomeno seri senza mai sfociare in tematiche più vicine a generi più estremi come il satanismo. E per questo sembravano all’occhio di molti dei “pagliacci”, per questo nel 2000 c’è stata una svolta più “dark” spinti anche dall’etichetta e dal management con l’album ‘The Dark Ride’. Poi loro hanno pagato le tante influenze che hanno avuto all’interno della band, il volere andare oltre il genere metal, non essere sempre chiusi in quel cerchio, se prendi ogni loro album per quanto siano subito riconoscibili ogni disco ha una sua peculiarità, un suo marchio che li rende sempre personali. Ci sono band molto più “fedeli a se stessi”, vedi gli Iron Maiden o i Manowar, e spesso ciò è stato visto da una parte del pubblico come un tradimento, che poi non era indirizzato a commercializzarsi e a vendere più dischi ma era fatto semplicemente per soddisfare le esigenze dei singoli elementi del gruppo, prendi ad esempio Michael Weikath (chitarrista, nda), viene da una formazione musicale più vicina a band come Beatles, Deep Purple, ha uno spiccato senso melodico rispetto all’anima più metal che era ed è tuttora di Kai Hansen (altro chitarrista, nda).

Infatti loro ogni volta che sono stati all’apice del successo, invece di proseguire su quella strada vincente hanno sempre sterzato in un’altra direzione, vedi dopo i due “Keepers” e dopo “Better Than Raw” (in Italia quest’ultimo arrivò al 14° posto in classifica) e pubblicarono un disco di cover che di metal aveva poco e niente.
Vero, sì, è proprio una loro caratteristica, come essere su un ottovolante. Oggi stanno raccogliendo finalmente ciò che hanno seminato nel corso di quasi 40 anni di carriera, spesso sperperandolo senza riuscire a goderselo perché ogni volta che arrivavano in cima la volta successiva c’era il disastro. Adesso finalmente tra il tour di reunion e il nuovo album finalmente stanno avendo il successo meritato. Vedessi i live del precedente tour, hanno avuto il massimo degli spettatori.

Dei progetti paralleli, a quale sei più legato?
Sicuramente i Gamma Ray. Devo ammettere che non li ho seguiti da subito. Non essendo prettamente un metallaro, al tempo non mi accorsi della band, sì, seguivo gli Helloween ma non considerai subito la band di Kai Hansen. Li ho scoperti successivamente per caso, al tempo non c’era internet, lo vidi in un negozio di Milano, Mariposa al tempo, chiesi al negoziante “Com’è?” e mi rispose “come i primi degli Helloween”, da lì in poi ho seguito la band, comprato tutti gli album, di cui preferisco su tutti “Insanity and Genius” del 1993.

Hai notato che a differenza di altre reunion di altre band, sembra tra le più “genuine”e che ci sia una vera armonia nella band e che ci sia un gran divertimento tra loro?
Voglio crederlo anch’io, non vorrei essere ingenuo, ma vorrei credere a questa buona fede, anche perché ci sono elementi e indizi che supportano questa tesi. Se analizziamo bene il tutto non era così scontato che a livello economico potesse andare bene, e che ci fosse tutto questo interesse, comunque era un “esperimento” che poteva andar male, non piacere al pubblico, invece è andata benissimo, meglio del previsto, tanto che a Milano era stata fissata una data all’Alcatraz invece è stato necessario spostarla al Forum di Assago. L’unico che non si lascia andare a toni troppo entusiasti sembra sia Weikath ma non so se è anche per via di un suo atteggiamento. Kiske invece nelle interviste è sempre molto allegro, giocoso, sembra davvero sereno.

Andi Deris ha salvato la band in qualche modo al suo ingresso nel 1994, confermi?
Assolutamente. Oggi non staremmo a parlare degli Helloween in questi termini, Tra l’altro Deris è uno che non è entrato in punta di piedi nella band, ha capito da subito perfettamente la situazione, inoltre è uno con una personalità spiccata, molto intelligente, ha compreso che era l’occasione della sua vita. Man mano che son passati gli anni ha preso in mano le redini del gruppo, basta vedere che il numero di canzoni che scrive. Vedi anche la reunion, sulla carta poteva andargli a sfavore, confrontarsi sul palco con Michael Kiske, da una vita il suo “principale rivale”, invece aveva capito che così la band sarebbe diventata più grande facendo persino un passo indietro. Lo dico da fan totale di Kiske, ma al concerto di Milano Deris è stato strepitoso e ha vinto 3 a 0. Kiske ha pagato il fatto di non essere salito sul palco per circa 20 anni, è un po’ statico, impacciato, Deris invece è un istrione totale, capace di fare spettacolo e negli ultimi anni canta meglio dei primi anni in cui è arrivato. Ha cambiato impostazione vocale e oggi canta molto meglio anche i brani dell’era Kiske, direi che è inattaccabile. Che abbia salvato la band non c’è alcun dubbio.

Una grande famiglia anche con i Pink Cream 69 per certi versi.
Sì, alla fine sì, Kosta Zafirou (batterista Pink Cream 69, nda) che fa da manager agli Helloween, Dennis Ward (bassista dei PC69, nda) che fa da co-producer, insomma buona parte di loro per certi versi sono entrati a far parte della famiglia Helloween.

Altro sul libro che vuoi raccontarci?
La parte più difficile da scrivere è stata quella relativa a Ingo Schwichtenberg e alla sua morte (Ingo Schwichtenberg è stato il primo batterista degli Helloween sino al 1993, deceduto nel 1995, nda). Non volevo scadere in termini “gossipari” non sarebbe stato giusto nei suoi confronti, volevo essere il più rispettoso possibile e a dimostrazione di quanto quel periodo è stato difficile anche parlandone con i protagonisti della band è stato difficile ricostruire la catena di eventi, è stato difficile ricostruire il periodo di quando Ingo è stato male veramente, quando hanno dovuto decidere di metterlo da parte, Kiske ricordava una cosa, Roland Grapow ne ricordava un’altra differente, le interviste dell’epoca riportavano notizie contrastanti, così sono andato a sentire un testimone super partes, Riad “Ritchie” Abdel-Nabi, batterista che fu chiamato a sostituire lo stesso Ingo al tempo, è stato molto contento di esser stato preso in considerazione, in quanto di lui non se ne è più parlato. Qualche aneddoto ce lo ha raccontato. Ad esempio, io ho ascoltato la registrazione del primo concerto a Tokyo in Giappone del tour di “Chameleon”, Kiske, a inizio concerto dice che Ingo non c’è e che si sta facendo curare in quanto non sta bene in salute, ma se vedi il tourbook dell’epoca, stampato quindi prima dei concerti, già non c’è più Ingo nella band ma c’era già Abdel-Nabi. Lo stesso Grapow ricordava che Ingo era stato male durante un concerto e Hiroshima durante quel tour ma in quel tour non c’è stato alcun concerto a Hiroshima, ricostruendo il tutto successivamente, Ingo è stato male durante un concerto in Germania precedentemente. Insomma, una situazione abbastanza caotica al tempo, e probabilmente ognuno di loro ha dimenticato quei giorni volutamente in quanto saranno stati certamente davvero duri.

Un libro completissimo sulla band, se volete saperne di più sugli Helloween, correte a comprare la vostra copia di “Helloween, pumpkins fly free” – tutta la storia’ di Massimo Longoni. Libro consigliato da Wanted Record, Bari.

INTERVISTA ORIGINARIAMENTE PUBBLICATA IN VERSIONE RIDOTTA SUL QUOTIDIANO “IL QUOTIDIANO DI BARI” IL 20 OTTOBRE 2021

Rockets – “Alienation”, l’album fantasma

Esce in questi giorni in tutti i negozi di dischi “Alienation” l’album ‘fantasma’ che i Rockets hanno tenuto nel cassetto per ben 40 anni. Grazie alla collaborazione con Zamusica, finalmente possiamo ascoltare questi brani rimasti inediti per così tanto tempo. Per sapere meglio cosa c’è dietro questo lavoro, abbiamo raggiunto il leader della band, Fabrice Pascal Quagliotti.

Fabrice, “Alienation” doveva uscire 40 anni fa, dopo il grande successo di “Galaxy” del 1980, giusto? Come mai è stato bloccato così tanti anni?
Sì, è stato registrato tra la fine del 1980 e l’ inizio del1981. Quando registrammo il seguito di “Galaxy” preparammo un altro album, “Alienation” appunto, che non convinse la casa discografica. Non sapevano neanche loro come giustificare il loro “no”, dicendo che non andava bene in quanto “troppo avanti”, insomma ce lo bocciarono sostanzialmente. E il disco è rimasto chiuso nel cassetto. E invece uscì un album dal titolo “Π 3,14” in cui ci sono solo due brani dei Rockets, gli altri no, infatti ci rifiutammo di suonarli, per noi l’album dei Rockets era quello che avevamo prodotto. Quindici anni fa ho acquistato i master del disco che non avevamo più pubblicato e ho deciso di farlo uscire adesso, nel 2021 perché nel 2019 abbiamo fatto uscire “Wonderland”, il nostro ultimo album di inediti e siccome tutto ha un inizio e una fine e al progetto Rockets mancava un tassello, ho aspetto un po’ così coincideva con i 40 anni dalla sua registrazione.

Quali sono le differenze sostanziali tra questo disco che non vi fecero pubblicare e quello che invece poi uscì realmente, appunto “Π 3,14”?
La differenza sta nel fatto che “Π 3,14” non lo sento come un disco dei Rockets, è un’accozzaglia di cose copiate, un plagio unico dall’inizio alla fine, tranne due brani che erano nostri e facevano parte di questo “Alienation”. Un disco fatto di corsa con l’ex produttore, discutemmo con lui infatti, facendogli notare che stavamo compiendo un passo sbagliato, difatti non ebbe grosso successo il disco. Per noi l’album era “Alienation”. L’unica cosa bella era la copertina, ma nessuno di noi si riconosce in quel disco. Registrato con tutti i membri originali della band, Christian, i due Alain, Gerard e me.

La registrazione che ascoltiamo oggi è rimasta così come era all’epoca o lo avete un po’ “ritoccato”?
Dopo aver acquistato i master ho riversato tutto su hard-disk, è stato fatto un grossissimo lavoro di restauro di mastering, in quanto c’era un grosso problema di umidità, ma le tracce sono quelle dell’epoca sostanzialmente.

Avete previsto un tour di supporto al disco?
Difficile dirlo, noi vorremmo. Dovevamo fare un tour in Russia ma non è possibile al momento andare a suonare lì. Probabilmente nel 2022 torneremo a suonare regolarmente. Speriamo…

Come vedi il trattamento che ha subito il settore dello spettacolo in questi due anni?
Lo trovo scandaloso. Vanno bene le regole, ma che siano uguali per tutti. Ci sono posti come la chiesa dove non serve il green pass e in un museo o in un teatro sì. Lo stadio sì, ma i concerti no. Così come per i mezzi di trasporto. L’unico settore che è stato penalizzato è quello della musica e delle discoteche. Sono anche d’accordo all’obbligo vaccinale ma lo Stato deve prendersi le proprie responsabilità e che ci sia lo stesso trattamento per tutti.

Contemporaneamente all’album “d’epoca” esce però un brano “nuovo” dei Rockets in formato fisico.
Sì, si tratta di “Free”, brano che non trovò posto su “Wonderland” ed è uscito lo scorso anno in digitale come singolo, il fisico ha subito un ritardo invece perché per un periodo durante il lockdown non si trovavano le lacche, i coloranti per stampare il vinile, un vero disastro, oggi per avere un vinile rischi di attendere quattro mesi.

La tua carriera solista invece, nuovi progetti?
Recentemente ho suonato sul lago di Como ad agosto, ed anche in Uzbekistan con l’orchestra, e inoltre sto registrando e componendo il mio secondo album solista, dopo il primo “Parallel Worlds” dello scorso anno.

Bene, invitiamo quindi tutti i fan dei Rockets e non solo a procurarsi “Alienation”, che sarà disponibile sia in versione vinile nero che colorato blu elettrico. Entrambe le versioni avranno una tiratura limitata numerata a soli 1000 pezzi. Invece la versione CD, sempre a tiratura di soli 1000 esemplari, oltre a un booklet di 24 pagine con testi conterrà un versione di durata più lunga rispetto al vinile del brano ‘”Collage”. Anche il singolo “Free” sarà disponibile in formato sia CD, 500 copie numerate, e vinile colorato limitato a soli 300 pezzi. Fan dei Rockets, non perdete tempo! Disco consigliato da Wanted Record, via Bottalico, 10 a Bari.

INTERVISTA ORIGINARIAMENTE PUBBLICATA SUL QUOTIDIANO “IL QUOTIDIANO DI BARI” IL 06 OTTOBRE 2021

Stef Burns – Lezioni di rock

Il Teatro Barium di Bari stasera (29.09.2021) alle ore 18 ospiterà un chitarrista rock d’eccezione di fama internazionale: Stef Burns. Conosciamo meglio il rocker statunitense attraverso la seguente intervista.

Ciao Stef, ricordiamo innanzitutto che tu hai suonato con tantissimi artisti prestigiosissimi, si ricordano spesso Alice Cooper, Vasco Rossi, Steve Vai, Huey Lewis & the News e molti altri, qual è il ricordo più bello che più ti lega a questi grandissimi nomi e la differenza del modo di lavorare con una band anziché un’altra?
Tutti gli artisti con cui ho suonato mi hanno regalato tante belle cose. Sono stato cosi bene con Alice con Huey, Peppino D’Agostino, ed altri ma soprattutto con Vasco… La più grande esperienza musicale che abbia mai vissuto. Tutti i dischi che ho registrato con lui, poi i concerti a San Siro, Modena Park, Imola, Catanzaro e tanti altri.

In particolare il concerto di Modena Park sarà stato qualcosa di incredibile a livello emozionale, che ricordi hai di quella sera?
Very very strong! È stato come un sogno suonare davanti a 230.000 persone! Concentrandomi sulle mani in maniera tale di non sbagliare.

C’è qualcuno con cui invece “sogneresti” di suonare?
Paul McCartney… per poter suonare i pezzi dei Beatles con lui.

Sei un chitarrista tra i più acclamati al mondo e molto seguito, cosa consiglieresti a un ragazzino che vuole iniziare a suonare lo strumento?
Di seguire la sua passione, un suo stile, suonare tanto, suonare davanti alla gente, e con musicisti diversi. Di studiare altri strumenti per l’ispirazione come voce, sax e piano.

Spesso si dice che il “rock è morto”, che differenza vedi suonando per il mondo oggi rispetto a 20/30 anni fa? C’è realmente meno interesse per il genere o sono “solo parole”?
Sono solo parole a mio parere. Il rock non morirà mai!

Parliamo finalmente della tua carriera solista, che progetti ci sono in cantiere, lo scorso luglio era uscito un singolo, vero?
A novembre il mio gruppo, Stef Burns League, andremo in tour per un secondo giro in Italia quest’anno! Lo scorso luglio è uscito il singolo “Bringing It On” che si trova sulle varie piattaforme digitali. È sempre la cosa più importante e più bella per me suonare i nostri pezzi insieme a Juan e Paola!

Parlando della clinic che terrai a Bari domani, su cosa verterà esattamente? Cosa deve aspettarsi chi verrà a vederti?
Suonerò pezzi dei miei album, “Swamp Tea” e “World Universe Infinity”, più qualche sorpresa. Spiegherò come uso la Stratocaster e come faccio tante cose con la chitarra e parlerò anche dell’ispirazione per comporre ed improvvisare. Risponderò alle domande del pubblico e ci divertiremo tanto!

Non resta altro stasera che recarsi al Teatro Barium di Bari, in via P. Colletta 6/6 alle ore 18. Il costo di ingresso è di € 30,00. Per qualsiasi ulteriore informazione, per prenotare il proprio posto e per conoscere maggiori dettagli sull’evento, sono reperibili sulla pagina dell’evento Facebook A lezione da Stef Burns. Evento consigliato da Wanted Record, Bari.

INTERVISTA ORIGINARIAMENTE PUBBLICATA SUL QUOTIDIANO “IL QUOTIDIANO DI BARI” IL 29 SETTEMBRE 2021

Ivan Cattaneo – Poli-Artist!

Sono passati 41 anni da “Polisex”, uno dei più grandi successi di Ivan Cattaneo, incluso nell’album “Urlo” del 1980, predecessore di “Duemila60 Italian Graffiati”, un album in cui l’artista bergamasco riproponeva in una personalissima chiave punk le più belle hit di musica leggera italiana degli anni 60. Il disco ebbe enorme successo, tanto che ne seguirono altri due di album con la stessa formula, “Bandiera gialla” nel 1983 e “Vietato ai minori” nel 1986. Uno dei primi, Ivan Cattaneo, a proporre un progetto così singolare, al contrario di ciò che avviene oggi dove forse le cover sono persino stra-abusate. Così come è stato uno dei primi a proporre dei progetti d’avanguardia sin dal 1975 con l’album l’esordio “UOAEI” in cui proponeva musica sperimentale alla ricerca di un nuovo linguaggio, album tra l’altro molto amato da un certo Lucio Battisti che infatti l’anno dopo portò con sé il batterista Walter Calloni nel suo album “La batteria, il contrabbasso, eccetera”. Da menzionare anche l’album “Superivan” del 1979 in cui le parti strumentali sono affidate alla P.F.M. . Cattaneo non è solo un cantante e un musicista, è un artista poliedrico, la pittura è un altro campo in cui si esprimerà e si esprime tuttora in maniera eccellente. Dieci giorni fa, la casa discografica Soter ha pubblicato un progetto altrettanto singolare, un tributo alla sola canzone “Polisex”, pubblicando un CD per il suo quarantesimo anniversario. Ne parliamo direttamente con Ivan Cattaneo.

Ivan, ci parli di questo lavoro?
Certo. L’idea del progetto non è mia, ma della Soter, la stessa casa discografica che nel 2015 aveva pubblicato “Un Tributo Atipico”, un doppio CD contenente ben trenta canzoni mie reinterpretate da altri artisti. Stavolta invece tributano solo una canzone, appunto “Polisex”. Progetto che doveva uscire lo scorso anno per i 40 anni, ma causa pandemia, siamo al quarantunesimo. È un’idea un po’ particolare, un tributo fatto ad una sola canzone interpretata in dieci versioni differenti uno dall’altra. C’è anche una mia nuova versione ricantata e una sempre mia solo voce e chitarra, così come del resto nacque al tempo “Polisex”. Molte canzoni nascono voce e chitarra, o voce e pianoforte.

C’è una versione in particolare che ti ha colpito maggiormente?
Mi piace molto la versione di Attilio Fontana, una versione “Bossa Nova”, ma devo dire che son belle tutte, è un bel progetto con delle belle foto all’interno, il tutto curato sempre dalla Soter.

Che significato aveva 41 anni fa “Polisex” e quale significato ha oggi?
Il brano è nato al tempo per giustificare ed esaltare la sessualità polimorfa nel senso che era “Polisex”. Ripensando oggi alle varie sfaccettature della sessualità, quelle che oggi chiamano LGBT, già 41 anni fa avevano già una parola che le racchiudeva tutte ed era proprio “Polisex”. Il brano canta proprio quello, parla delle sfaccettature della sessualità che non è mai quello che vogliono farci credere, non è mai bianca o nera, la sessualità è una scatola di pastelli colorati, quando ci dicevano che era bianca e nera era perché erano altri tempi, c’erano tanti tabù, gli omosessuali vivevano più nascosti, era un mondo sotterraneo, mentre oggi ognuno ha la sua libertà e il suo modo di esprimersi senza contrastare gli altri, proprio perché la sessualità è polimorfa.

Il significato di “Polisex” però è ancora attualissimo, non credi? 
Sì, certo. C’è ancora tanto da lavorare. Quando mi chiedono se è cambiato molto rispondo di sì, ma allo stesso tempo temo non sia cambiato nulla. Per certi versi siamo andati avanti, per altri c’è una forma di razzismo, omofobia e intolleranza che è proprio dentro di noi. Il vero razzismo è quello che si ha dentro, una paura non razionale, ingiustificata.

Infatti oggi si parla molto di leggi contro l’omofobia, il razzismo…
Sì, pensa che Alessandro Zan è mio fan da ragazzino. Scherzavamo infatti alcuni giorni fa sul fatto che poteva usare la parola “Polisex” anziché la sigla LGBT, che però è una sigla internazionale, per cui… ma se ci pensi LGBT non è altro che “Polisex”.

Del resto tu sei sempre stato avanti sia con le tematiche che con la musica, negli anni 70 hai in catalogo di dischi da far invidia, però a volte i critici sono un po’ snob, magari relegando sempre un artista solo a ‘determinate canzoni’, non trovi?
Figurati, per quello anche Battiato disse di esser stato snobbato. Io certamente ho fatto canzoni da interprete come “Una zebra a pois” ma anche canzoni d’avanguardia. Devo dire che il vero Ivan Cattaneo è quello cantautoriale, quello di “Polisex”, così come anche quello delle ultime canzoni che ho composto per Patty Pravo “La carezza che mi manca” o per Al Bano “Abbaio alla luna”. Bisogna dimostrare di saper fare uno e l’altro secondo me.

E tu lo fai benissimo. Il tuo ultimo lavoro di inediti “Luna presente” del 2005 è un gran lavoro e include una canzone “In /con/ per: amore” che è un gioiellino…
Sì, è proprio un bel brano quello, vero. L’arrangiamento in quel pezzo è di Dario Dust, che era il mio tastierista, adesso produce Elodie, Mahmood. Quest’anno a Sanremo aveva ben sei canzoni.

Stai lavorando a qualche progetto prossimo? Sì, si chiamerà “Titanic Orchestra”, si tratta di un disco/progetto teatrale che sarà portato in giro a gennaio, e sarà uno spettacolo di racconti, monologhi e canzoni tutte nuove, inedite.

Come hai vissuto la lunga sosta dovuta al periodo che stiamo vivendo? Farai qualche data estiva?
Dovevamo fermarci necessariamente, il virus correva troppo velocemente. Farò sì, qualche data, ma non molte, non si è risvegliata totalmente la situazione soprattutto nelle discoteche.

Tu hai molto da raccontare, hai mai pensato di scrivere un libro?
Ne sto scrivendo uno, non è esattamente un libro “da cantante”, più un romanzo autobiografico.

Il CD “Polisex 40th anniversary” è già disponibile in tutti i negozi di dischi e per gli amanti del vinile a breve sarà disponibile anche in vinile nero e picture disc. Disco consigliato da Wanted Record, via G. Bottalico, 10 a Bari.

INTERVISTA ORIGINARIAMENTE PUBBLICATA SUL QUOTIDIANO “IL QUOTIDIANO DI BARI” IL 23 GIUGNO 2021

Helloween – L’armata delle sette zucche

Helloween, il nuovo album!!! Venerdì 18 giugno esce il nuovo attesissimo lavoro in studio dei tedeschi Helloween. Il primo album inedito con la formazione a sette elementi e il ritorno di Michael Kiske (cantante) e Kai Hansen (voce e chitarra), che avevano abbandonato la band molti anni fa. La reunion a tre voci e a tre chitarre portata sui palcoscenici di tutto il mondo alcuni anni fa ha riscosso talmente tanto successo che la band ha deciso di registrare un album tutti insieme. “Helloween” (Nuclear Blast), album che porta lo stesso nome del gruppo di Amburgo, come il loro primo mini LP del 1985. A distanza di tanti anni, una delle band più importanti del panorama heavy metal mondiale sembra avere ancora molto da dire, abbiamo contattato tramite una videochiamata il cantante Andi Deris, nella sua dimora a Tenerife.

Andi, ricordi quando hai suonato a Bari nel 1992?
Certo, che lo ricordo! Ero in tour con i Pink Cream 69, facevamo da special guest agli Europe. Fu divertente e strano allo stesso tempo, ricordo che ero con Joey Tempest nel backstage e nel momento in cui doveva già esserci la gente all’interno del teatro stranamente lo vedemmo vuoto, non c’era ancora nessuno, tutti fuori. Chiedemmo informazioni e qualcuno della crew italiana ci disse che non potevano fare entrare nessuno prima che arrivassero determinate famiglie, una cosa davvero strana, mi è rimasta impressa nella mente. Il tour in Italia fu fantastico, ricordo un cibo buonissimo. In quel tour con gli Europe giocavamo spessissimo a calcio, Svezia contro Germania, spesso vincevano loro.

Il primo singolo del nuovo album, “Skyfall”, nella divisione delle parti vocali, delle tre la tua è quella meno presente, un “bel gesto” nei confronti dei tuoi colleghi aver dato loro molto spazio al loro rientro in formazione.
Nella versione “edit” del singolo, che dura circa sette minuti, sì è vero, nel tagliare le parti sfortunatamente hanno tagliato la maggior parte delle mie, ma se ascolti la versione integrale, che dura circa 12 minuti, quella inclusa nell’album, ci sono anche io (ride, nda).

Ruolo che riprendi pienamente nel secondo singolo, scritto da te, “Fear of the Fallen”, di cosa parla questo brano?
“Fear of the Fallen” parla della più grande paura che hanno gli angeli caduti, appunto i “fallen angels”, dei veri angeli custodi dell’umanità. Quando accade qualcosa di brutto con l’umanità, quando si sta per distruggere tutto o tutto sembra andare all’inferno i veri angeli proteggono l’umanità, è una cosa che penso da quando sono ragazzo, non so se è mito o realtà, ma è una cosa che mi rilassa molto pensare che un grande potere possa salvarci.


Foto di Martin Hausler

Sei religioso o è più un credo spirituale?
Potresti leggerla sia dal punto di vista religioso che sotto altri aspetti. Quando Kai Hansen stava finendo di scrivere il testo di “Skyfall”, l’ha interpretato come se ci fossero degli alieni a vegliare sull’umanità, per questo sembrano esserci avvistamenti di UFO talvolta, non so se è reale o meno ma pensare che ci sia un potere invisibile che veglia su di noi è una bella sensazione.

E’ stato più difficile registrare quest’album rispetto ai precedenti dato che eravate in sette anziché i “soliti cinque”?
Più difficile no, anzi. Piuttosto richiede sicuramente il doppio del tempo, perché utilizzando due, a volte tre voci, devi controllare le parti dove ognuno si trova a proprio agio, lo stesso discorso vale per le tre chitarre, ma non direi più difficoltoso.

Spesso gli Helloween vengono additati come “Happy Metal band”, che ne pensi di questa affermazione?
E’ una parte molto importante che la band ha sempre avuto, però si tende a miscelare il tutto perfettamente con altri suoni, ci sono sempre 3 o 4 canzoni più “cheesy” all’interno di un album anzi a pensarci ne abbiamo molte di più in cantiere volendo (ride, nda).

Voi siete stati definiti la power metal band per eccellenza, ma allo stesso tempo siete una band di classic metal e rock, la definizione “solo power” non vi sta stretta a volte?
Esatto. La band però ha avuto successo agli esordi con “Walls of Jericho”, che è un album tipicamente power metal, uno dei primi in assoluto del genere e da lì siamo stati definiti i “Padri del Power Metal”. Kai e Weiki (Michael Weikath, altro chitarrista della band, nda) parlano spesso dell’argomento, Kai ad esempio è l’uomo più “powermetal” del gruppo, mentre Weiki, “Sì, ma non solo”, per cui c’è una percentuale delle nostre canzoni che escono dal genere, sperimentano. Se consideri brani come “Dr. Stein”, “I Want Out” e “Future World”, sono dei brani classici del power metal, ma allo stesso tempo sono dei pezzi “pop-metal”. Per questo siamo una metal power band ma che ha un’audience molto rock, più classica. Quando ero ancora il cantante dei Pink Cream 69, Weiki mi fece ascoltare “Chameleon” (album degli Helloween del 1993, nda), io lo chiamai al telefono e gli dissi che era un gran disco che mi piaceva molto ma non era un disco adatto agli Helloween, piuttosto lo era per una band come i Bon Jovi. Weiki mi chiuse il telefono in faccia (ride, nda). Il giorno dopo mi richiamò scusandosi per chiedermi se pensavo davvero quello che avevo detto e gli dissi che non era sufficientemente metal per una band come la loro, nonostante sia un disco che mi piace tantissimo.

Cosa ne pensi di questo periodo di stop e del rinvio continuo delle tournée?
Orribile. Il periodo è molto delicato. Cosa sta succedendo in questo momento nessuno lo sa esattamente, non sono io a doverlo dire ma temo che ci sia una grossa influenza politica anche.

Il prossimo tour avrà scalette di tre ore come il precedente?
Non lo so esattamente, avremo uno special guest, gli Hammerfall, che suoneranno circa un’ora e mezza. Dipenderà dai promoter, probabilmente non potremo suonare ogni show per tre ore, ma dove avremo la possibilità di suonare di più lo faremo, tanto abbiamo tre cantanti, possiamo farlo (ride, nda). Tre anni fa abbiamo registrato un live album, tra i vari luoghi abbiamo utilizzato il concerto fatto al WiZink Center di Madrid che è probabilmente il miglior posto del mondo dove una band possa suonare, anche il backstage è fantastico, tutto. Se tutti suonassero lì, potrebbero abituarsi troppo bene le band (ride, nda).

Vivendo a Tenerife, conosci qualcosa la musica spagnola/latina?
Qui c’è molta musica reggaeton ma non è il mio genere, sembrano tutte uguali le canzoni. Però mi piace molto il flamenco, i chitarristi spagnoli sono tra i migliori al mondo, incredibili, ogni volta che li vedo dico che non devo più toccare una chitarra ma devo farlo per scrivere nuovi pezzi per la band (ride, nda). Conosco band rock come gli Heroes del Silencio, che sono una vera istituzione qui in Spagna e in Sudamerica, mentre dal Messico provengono e sono molto famosi anche qui i Maná. Negli anni 70/80 invece, abbiamo avuto in Germania in classifica molti artisti italiani, i miei genitori ascoltavano Adriano Celentano, grande artista, mi piace molto, e ricordo anche Gianna Nannini, anche lei, è bravissima.

Nel 1994 quando entrasti a far parte del gruppo, ti sei reso conto che sei stato con il tuo songwriting “il salvatore” degli Helloween?
Non so, posso dirti che a fine 1993 Weiki mi chiamò nuovamente chiedendomi di entrare nella band. Andai ad Amburgo, per me era importante che i ragazzi degli Helloween ascoltassero le mie canzoni, le stesse che i PC69 quando gliele ho presentate non volevano suonare. Mentre ascoltavano i pezzi li ho guardati negli occhi, a loro piacevano molto e dissi a me stesso: “loro amano le mie canzoni, questa è la mia band!”.

Ci parli di quando in un festival alcuni anni fa i tuoi idoli, i Kiss, ti guardavano mentre ti esibivi?
Stavo cantando e il tecnico del suono mi disse tramite gli auricolari di guardarmi alle spalle, quando vedo Gene Simmons e Paul Stanley che stavano guardando il nostro concerto, mi tremarono le gambe, suonare allo stesso festival, e realizzare che i tuoi idoli di una vita ti stanno guardando è incredibile. Peccato che siano arrivati al loro ultimo tour. Ascoltare musica è come un viaggio nel tempo, è una cosa fantastica che solo la musica ti può dare. In parte anche il cinema, ma non è la stessa cosa, quando ascolti musica chiudi gli occhi, viaggi nel tempo.

Avendo diviso il palco con tante band, qual è stata la più amichevole che avete incontrato?
Gli Iron Maiden, senza dubbio. Abbiamo fatto molti tour con loro. Però sono rimasto piacevolmente sorpreso dai Papa Roach. Entrambe le band ci conoscevamo solo attraverso le riviste ma è state una bellissima esperienza e molto amichevole, cosa non facile che accada con le band americane, non so perché, la gente lì è stupenda, non fraintendermi, ma le band sembrano più “fredde”, invece le band svedesi sono super amichevoli.

Tornando ai Kiss, hai visto l’intervista on line di alcuni anni fa dove fanno togliere all’intervistatore la maglietta che indossa degli Iron Maiden invece di una dei Kiss?
No, non l’ho vista. Il rock e la scena metal devono imparare a stare insieme e aiutarsi a vicenda. Per me non c’è alcun problema se hai una maglia diversa dalla mia band anzi, sono contento perché vuol dire che se hai la maglia degli Iron Maiden possono piacerti i Kiss ad esempio e magari anche gli Helloween. Non è una competizione. Questo è quello che dobbiamo imparare dalla scena rap/hip-hop, un genere musicale che a me non piace per niente, non fa per me, ma hanno una grande community da cui dobbiamo imparare. Tra loro artisti si aiutano molto. Se le band sono unite, lo sono anche i fan. Ad esempio io non amo il black metal ma ci sono delle melodie che mi piacciono, non per questo parlo male del genere.

Il consiglio è correre a far proprio questo album in uscita venerdì 18 giugno per l’etichetta Nuclear Blast. Tra le tante le edizioni previste segnaliamo il doppio CD limitato cartonato, e tra le varie versioni in vinile, oltre al picture disc e a molte edizioni colorate, la versione a tre dischi “Hologram edition”. Disco consigliato da Wanted Record, via G. Bottalico, 10 a Bari.

INTERVISTA ORIGINARIAMENTE PUBBLICATA SUL QUOTIDIANO “IL QUOTIDIANO DI BARI” IL 17 GIUGNO 2021