Francesco Gallina – Dipinto sull’acciaio

Francesco Gallina si sta rivelando un autore prolifero e vario: nel giro di poco più di tre anni ha scritto tre libri – “Donne rocciose. 50 ritratti di femmine rock, dalla contestazione alle ragazze del 2000”, “Adepti della Chiesa del Metallo. Riflessioni su ciò che siamo stati per capire ciò che siamo diventati” e “Dipinto sull’acciaio. Del rapporto tra heavy metal e pittura” (tutti editi da Arcana) – in cui il critico ha spaziato tra le pieghe dell’heavy metal, andando ad approfondire tematiche poco battute in passato. L’abbiamo contattato di recente per discuterete della sua ultima opera…

Ciao Francesco, Dipinto Sull’Acciaio e scritto su carta, verrebbe da dire! Come è nata l’idea di dedicare il tuo terzo libro a un argomento così particolare come il rapporto tra immagine e musica heavy?
Ciao Giuseppe. Prima di tutto grazie a te personalmente per esserti interessato al mio libro e un saluto ai lettori de Il Raglio del Mulo. L’idea è venuta fuori in modo molto spontaneo. Musica heavy, scrittura e pittura sono le mie più grandi passioni e riunirle in un libro è una cosa che ho trovato semplicemente naturale. Col crescere dell’impegno nel mondo della musica e della scrittura avevo però dovuto un po’ mettere da parte l’interesse per l’ultima. Diciamo quindi che è stata un’evoluzione logica del mio percorso e un riprendere un discorso parzialmente interrotto. In passato, del resto, avevo già scritto degli articoli che trattavano del rapporto tra rock e immagini, anche se mi ero rivolto più che altro al settore fotografia. Argomento peraltro presente nel libro con alcuni spazi dedicati.

Prima di scrivere il tuo libro qual era il tuo rapporto con l’arte grafica, semplice appassionato o avevi fatto degli studi?
Li ho fatti, ma da privato. Ho letto molto in questo campo: enciclopedie, saggi critici, biografie e in passato ho frequentato ogni volta che ho potuto il mondo delle mostre. Fino a sviluppare delle idee mie sul lavoro di molti artisti che ho inserito nel libro. Ovviamente, senza minimamente trascurare quanto stabilito da gente ben più qualificata di me, specialmente se si tratta di professionisti.

Ci troviamo in un’epoca in cui l’immagine è centrale, basti pensare ai cellulari che sono macchine fotografiche che permettono anche di fare telefonate o al successo di social come Instagram. A fronte di questa necessità di fotografare tutto, assistiamo a un processo, ormai concluso, di dematerializzazione della musica, in cui la copertina è quasi un orpello virtuale. Per te che hai studiato a fondo il legame tra musica e immagine, oggi quanto è importante la copertina per un disco?
Nonostante tutto credo che continui a essere fondamentale. Almeno per una certa fascia di ascoltatori realmente appassionata alla musica e quindi al prodotto fisico vissuto come feticcio. Credo si siano verificate due inevitabili fratture generazionali. Una è avvenuta con l’avvento del CD che, per questioni di formato, ha reso l’artwork di un album meno fruibile di quello apprezzabile con ogni vinile. La seconda con l’avvio del processo di dematerializzazione cui hai fatto riferimento nella domanda. Da quel momento in poi la religiosità dell’ascolto ha perso di significato. E con essa la sacralità di annessi e connessi quali la “vivisezione” della copertina e l’imparare quasi sempre a memoria non solo la scaletta dell’LP e la line up di ogni gruppo, ma anche tutti i credits. Un discorso che – lo ricorderanno quelli già negli “anta” – era comunque già cominciato col walkman e la possibilità di portare musica ovunque con ingombri molto ridotti. Di conseguenza, con meno interesse di tanti per le questioni tecniche. Ovviamente con un impatto enormemente inferiore rispetto alla musica “liquida”. Questa situazione, però, non ha mai riguardato la gran parte di quelli tra noi che sono cresciuti col vinile, restando così legati alla fisicità della musica. Una forma di piacere che oggi viene recuperata da molti col ritorno del vinile che, sulla lunga distanza, ha fatto a sorpresa le scarpe al CD. Consentendo a tanti di riassaporare quelle gioie antiche e facendo conoscerle a chi non le aveva potute provare per motivi anagrafici. In generale, il discorso è prettamente sociologico. Il superamento della necessità di passare attraverso una certa catena di supporti e l’azzeramento dei costi per ottenere e conservare le immagini, fa comunque parte di un processo molto complesso con molti pro e vari contro. Non ultimo quello della scarsa affidabilità nel tempo di molti degli archivi in cui stocchiamo immagini che otteniamo senza fatica. Un semplice smartphone che si rompe definitivamente può privarci per sempre di centinaia di immagini non salvate anche altrove, per esempio. Un discorso che ho analizzato dettagliatamente nel mio libro precedente intitolato “Adepti della Chiesa del Metallo”, in cui ho usato il metal per trarre vari spunti di analisi nei confronti della nostra società.

In passato, anche a causa degli scarsi canali di diffusione, molte volte acquistavamo un disco perché la copertina ci colpiva: a te è mai capitato? Se sì, quali opere hai comprato fidandoti dei tuoi occhi?
Infinite volte e anche stavolta ne ho parlato nel libro di cui ti ho appena detto. Al tempo (io sono classe 1967, quindi parliamo per quello che mi riguarda di anni a partire dal 1980, se ci focalizziamo sul metal), l’unico canale informativo su heavy e rock alternativo a portata di edicola era Rockerilla. Il suo piccolo inserto centrale era la sola finestra disponibile sul mondo dell’heavy e le sue poche recensioni l’unico modo per conoscere gruppi e dischi nel profondo Sud. Ciò prima di arrivare alle fanzine e alle prime riviste come Inferno Rock – della quale io stesso ero redattore – e HM. Intanto, però, nell’unico negozio in cui potevo trovare i pochi dischi heavy stampati da grandi etichette avevo scelto album di Iron Maiden, Saxon, Anvil, Judas Priest o anche Clash, Police, Genesis e altri grandi gruppi basandomi solo sulla copertina. Ma sono andato oltre; e non sono stato il solo a farlo. Come tanti all’epoca, telefonavo a certi distributori del Nord e se avevo qualche soldo in più, oltre alle ordinazioni decise leggendo le recensioni di Rockerilla tipo Chateaux, Bitch, Griffin, Exxplorer, Omen, Vicious Rumors, Metallica e via discorrendo, le cui copertine avevamo visto in bianco e nero formato francobollo sul magazine e senza aver mai ascoltato una sola nota (zero anteprime all’epoca, solo fiducia nel recensore), mi facevo descrivere le cover degli album che avevano in negozio. Senza sapere nulla delle band. Se dalla descrizione a voce mi colpivano, compravo. E devo dirti che raramente ho preso dei “pacchi”. Dischi di Witchkiller, Bloodlust, Trauma, H Bomb e altri sono arrivati in casa in questo modo. E sono ancora qui.

Passiamo agli aspetti procedurali del libro, sei partito dalle copertine o dagli autori? Cioè, hai preso dei dischi hai visto quali erano i pittori\grafici più frequenti e da lì hai buttato giù una lista oppure hai scelto prima i vari autori e poi sei passato ai dischi\gruppi?
L’intero procedimento è stato piuttosto complicato e molto pesante da tradurre in pratica. In linea di massima sono partito dagli autori, costruendo dapprima uno scheletro base del libro fatto non da band, ma da pittori. A questi si sono poi aggiunti vari nomi man mano che i collegamenti ipertestuali mi portavano sempre più , creando connessioni ulteriori. Chiaramente si trattava di selezionare a monte artisti che sapevo essere presenti nel mondo heavy coi loro quadri, da Kittelsen e Arbo a Giger e Beksiński tanto per citarne alcuni e, contemporaneamente, che servissero a fare un po’ di storia dell’arte e del metal. Una volta stabilito di chi parlare e conferita una struttura definitiva al libro, ho dovuto mettere insieme tutto il materiale che riguardava i singoli. Quindi ricercare ogni gruppo e album da inserire – compresi i più sconosciuti demo stampati magari in 10 copie – e procedere seguendo un criterio preciso in base ai vari periodi storici affrontati. Dalla fine del ‘300 a oggi. Legando ogni paragrafo in modo logico e conseguenziale, costruendo così i capitoli e dando una continuità al discorso attraverso i secoli. Fornendo per ognuno delle coordinate filosofiche di comunanza tra movimenti artistici, dipinti, pittori e band metal che ne hanno usato le opere. Così come per quanto attiene al legame tra correnti pittoriche e stili metal come il black o il death. Poi, seppure a margine, mi sono avventurato nei settori fotografia e scultura prima di passare in maniera organica, nella seconda parte del libro, al mondo dei disegnatori contemporanei. Arrivando quindi alle illustrazioni e ai fumetti.

Quanto è stato complicato ricostruire il tutto? Quanti album e gruppi hai passato al vaglio?
È stato enormemente stressante, nettamente la cosa più difficile da fare. Ben più che scrivere materialmente le 500 pagine del libro. Anche perché mi sono pure concesso alcune digressioni extra metalliche, sconfinando in altri generi musicali. Ti dico solo che gli album e i gruppi presenti nel libro sono migliaia e molti ne ho dovuti escludere insieme ad alcuni pittori per non superare il limite di pagine che ti ho appena indicato. Una barriera che mi ero imposto di non valicare per non risultare troppo enciclopedico e poco “masticabile”. Altre difficoltà sono sorte dal fatto che ho scelto di disporre il materiale non in ordine alfabetico, ma temporale. Pure per quanto riguarda le discografie relative ai disegnatori. Questo ha reso i pochissimi data base utili esistenti – non più di due, per la cronaca – inusabili in quanto tali. Nessun copia incolla generale, quindi, ma ogni singolo dato estrapolato, valutato, controllato e inserito nel testo uno per uno, andando avanti e indietro a seconda dei casi. Senza contare il lavoro di traduzione, visto che si trattava di indicazioni per lo più in inglese. Davvero snervante, ti assicuro. Alla fine, però, le soddisfazioni non sono mancate e l’opera ha ottenuto attenzione persino in ambiente universitario in Italia e all’estero. Inoltre, la notizia della sua uscita è stata ripresa in vari Paesi e ho avuto interviste e passaggi su piattaforme digitali del Sudamerica. Clamoroso, direi, per un libro sul metal scritto in italiano.

Possiamo dividere i protagonisti delle tue pagine in due categorie: “autori inconsapevoli” e “autori consapevoli”. Da un lato ci sono i grandi pittori di un tempo, dall’altro disegnatori di oggi giorno diventati celebri proprio creando copertine. Alcuni hanno legato il proprio nome a una band, altri hanno condizionato l’estetica di un genere, influenzando anche gli illustratori successivi. Secondo te qual è il fil rouge che lega questa due categorie di autori?
Se vai a leggere le biografie dei disegnatori/illustratori che ho incluso nel libro, anche in questo caso una selezione di nomi utile a stabilire determinati punti fermi che dipingano (appunto) un quadro generale, ti accorgi che le influenze provenienti dalle grandi opere del passato hanno inciso parecchio nel creare lo stile di molti di loro. Compresi i casi in cui non hanno riguardato la loro preparazione artistica, non restandone quindi ugualmente indenni. A dispetto di un modo di dipingere e disegnare che potrebbe far pensare talvolta il contrario. Il fil rouge quindi esiste e si manifesta nella formazione di molti disegnatori, il cui esempio più vicino a noi può essere quello di Paolo Girardi, così come un altro è rintracciabile nella mano di uno che si è formato sui fumetti contemporanei o direttamente sulle copertine di gente come Derek Riggs o Gerald Scarfe. E sto parlando di Eliran Kantor. Nel suo caso – ma se ne potrebbero citare altri – il suo modo di lavorare che non dovrebbe manifestare certe influenze, risulta invece ugualmente debitore verso la storia della pittura in modo abbastanza evidente. Ciò dimostra come la cultura artistica mondiale ci attraversi e ci plasmi in ogni caso, rendendoci la somma del nostro passato e del nostro presente. Attimo per attimo.

Ad arricchire il libro troviamo proprio gli interventi di Paolo Girardi, Eliran Kantor, Mario Di Donato, Enzo Rizzi e di Steve Joester. Come hai contattato questi personaggi e quale è stata la loro prima reazione quando hanno saputo di questa tua idea così particolare?
Guarda, devo dirti che non ho avuto nessun problema a convincere questi grandi artisti a partecipare. Sia quelli con cui avevo già un rapporto di conoscenza come Rizzi, Di Donato e Joester, che gli altri due. Ho semplicemente prospettato a tutti quanti cosa stavo facendo e ho chiesto loro se avrebbero gradito partecipare con qualche opera e un intervento scritto. Tutti hanno aderito con entusiasmo e anzi, avrebbero voluto fare di più. Nessun problema nemmeno per i diritti, che tutti hanno concesso gratuitamente. Permettimi però di approfondire un po’ questo aspetto, dato che parliamo di nomi di caratura internazionale dei quali basterà citare pochi riferimenti per definirne la grandezza. Girardi, autore delle copertine degli ultimi dischi dei Manilla Road e di un’infinità di lavori estremi, mi ha concesso la copertina e un intervento scritto. Mario “The Black” Di Donato, musicista doom e pittore notissimo mi ha dato varie opere, un intervento scritto e il dipinto in quarta di copertina. Enzo Rizzi, padre di Heavy Bone, due opere con il suo personaggio disegnate appositamente per “Dipinto Sull’Acciaio” e un lungo paragrafo scritto. Per passare agli interventi dall’estero, Eliran Kantor, colui il quale ha firmato tra le tante le copertine degli ultimi album dei Testament e del nuovo Helloween, ha concesso due opere e ha scritto la prefazione. Per finire, Steve Joester, fotografo e artista di livello mondiale già autore di scatti ufficiali per U2, Rolling Stones, Pink Floyd, Police, Bob Marley, AC/DC, etc., autore della foto dei Judas Priest all’interno di “Screaming For Vengeance” e del servizio che ritrae i Judas con Andy Warhol nel backstage del Palladium, alcune sue foto e la postfazione. Non ti nascondo che sono molto fiero di queste collaborazioni.

E al terzo si riposò? Parafrasi della bibbia a parte, hai scritto tre libri in un arco temporale abbastanza ristretto, hai già una nuova ide su cui stai lavorando o ti prenderei una pausa?
Ti dirò: in realtà “Dipinto Sull’Acciaio” è parte di un progetto più complesso che ho suddiviso in due parti per le ragioni che ti ho spiegato prima. In teoria dovrei quindi essere tranquillamente al lavoro sulla seconda, ma credimi, sono troppo stanco. Tre libri per un totale di 1250 pagine in meno di tre anni sono davvero tanti e portano grandi soddisfazioni, ma anche uno stress notevole e di fatto, ti portano via dalla famiglia. Credo quindi che mi concederò ancora qualche mese di pausa prima di riprendere a scrivere. Anche per non risultare eccessivamente presente. Proseguendo al ritmo di un libro l’anno potrei produrre un “effetto Bruno Vespa” che potrebbe più che altro danneggiarmi. E poi dovrei anche allegare un plastico alla prossima opera, cosa che difficilmente verrebbe appoggiata dalla casa editrice, eh eh eh…

E’ tutto, grazie
Grazie a te per esserti interessato da collega scrittore alla mia opera dopo aver prodotto a tua volta un volume importante come “Icons of Death” e altrettanto ai lettori de Il Raglio del Mulo per aver voluto leggere fino in fondo queste righe. Se voleste una copia di “Dipinto Sull’Acciaio” con dedica, contattatemi pure su Facebook. Ciao e… Stay Metal.

Joyello Triolo – Cover and over again

Joyello Triolo è un DJ, musicista, critico musicale, oltre al suo blog online Fardrock collabora con riviste musicali specializzate. Ha pubblicato un libro biografia sui Krisma, “CHyberNation” (2011), un libro su Faust’o, “Dentro questi specchi” (2014) e l’interessantissimo “Intrusi a Sanremo” (2017), tutti testi a cura della Crac Edizioni, che manda alle stampe anche il suo ultimo “Cover and over again – 100 canzoni, (più di) 200 versioni”, un libro in cui l’autore prende in esame 100 canzoni e di ognuna ne racconta la storia attraverso le versioni originali e le tante cover effettuate successivamente da vari interpreti. Il libro sfata molte nostre convinzioni, tanti sono i brani che nell’immaginario attribuiamo ad un artista e invece Triolo ci fa scoprire che l’autore e/o l’interprete originale è un altro. “Tainted love” portata al successo dai Soft Cell è una delle più comuni tra queste o la ancor più conosciuta “My Way” di Frank Sinatra, “I Will Always Love You” di Whitney Houston, nota colonna sonora per il film “Guardia del corpo” o “Hey Joe” di Jimi Hendrix, per dirne solo alcuni. In verità sono tutte cover. E nel libro di Triolo è tutto spiegato. Il libro, oltre questi 100 brani, contiene anche le schede di 10 album realizzati da singoli artisti o band, composte interamente da cover, ad esempio il recente “California Son” di Morrissey, gli altri ve li lasciamo scoprire nella lettura del libro. Sveliamo solo un altro nome, quello di Ivan Cattaneo, a cui è affidata la prefazione del libro stesso. Abbiamo contattato l’autore Triolo per entrare meglio in questo fantastico mondo delle cover, che tanto ci e lo appassiona.

Come è nata l’idea di un libro sulle cover?
Diciamo che per ogni appassionato di musica e canzonette, le cover sono sempre state croce e delizia e così è per me. Ad esse mi approccio sempre inizialmente con un misto di curiosità e diffidenza, che immagino siano le emozioni che accomunano un po’ tutti noi. La canzone la conosciamo già, magari è una delle nostre preferite e quindi ci abbandoniamo ad essa valutando la qualità dell’arrangiamento e le intenzioni dell’interprete, facilitati dal compito di ascoltare qualcosa di già familiare. Di fatto, io trovo che sia una scuola molto interessante che è maturata con gli anni e a me incuriosisce ed appassiona sempre. L’idea del libro nasce proprio da questa passione e dalle sorprese che ho spesso ricevuto dall’ascolto di queste versioni.

Ci sono cover diventate più famose dei brani originali. Quali secondo te sono quelle “insospettabili” per cui la gente attribuisce il credito a chi ne ha fatto una cover molto popolare senza sapere di chi è l’originale?
Moltissime! La prima che mi viene in mente è “Betty Davis Eyes”, universalmente nota come un successo di Kim Carnes quando in realtà l’aveva incisa Jackie DeShannon (che l’ha anche scritta) nel 1974; “Video Killed The Radio Star”dei Buggles, era stata già registrata un anno prima da Bruce Wooley; “Hush” dei Deep Purple (originariamente di Billy Joe Royal), “Cocaine” di Eric Clapton, che era di JJ Cale e “It’s Oh so Quiet” di Bjork, rifacimento pedissequo di un brano di Betty Hutton del 1951 a sua volta già cover di un vecchio brano tedesco. Poi ci sono casi “bizzarri” come “Dazed And Confused” dei Led Zeppelin e “Ray of Light” di Madonna che sono cover anomale, per motivi differenti che… scoprirete nel libro”.

C’è una che ha sorpreso anche te facendo ricerche per questo libro?
Più di una a dire la verità, ma diciamo che mentre mi stavo approcciando per scrivere la scheda di “Something Stupid”, pensando che quella di Robbie Williams con Nicole Kidman fosse la cover del successo di Frank e Nancy Sinatra, ho in realtà scoperto che già questi ultimi avevano fatto la cover di un successo di Carson & Gaile. Non lo sapevo.

Quale dovrebbe essere il segreto di una “cover perfetta”?
Oh beh, mi chiedi tanto: non ho l’autorevolezza per stabilire i canoni di una cover perfetta. Posso dirti quelli che valuto io, che sono: rispetto per l’originale e emotività. Una canzone ha due elementi precisi che sono spartito e testo. Nessuno di questi due, per il mio gusto, possono subire esagerati stravolgimenti. Il rispetto per l’autore è sacrosanto e se c’è un fa bemolle in un determinato punto, ne va tenuto conto. Lo stesso vale per l’intenzione: “capire” quello che si sta cantando è fondamentale, solo così sarà percepibile la personalità dell’esecutore espressa da arrangiamento e interpretazione. Un esempio banale: non posso pensare a Joey Ramone che fa “What a Wonderful World” esattamente come l’aveva incisa Louis Armstrong, non avrebbe alcun senso. Da lui mi aspetto la batteria in quattro e le chitarre distorte, e va benissimo. Il brano rimane lo stesso, non c’è una sola nota (o parola) cambiata. Il cantante dei Ramones l’ha fatta sua e… a me piace.

Che ne pensi invece del fenomeno tribute/cover band così “dilagante” e diffuso?
Penso che non c’entri nulla con quello di cui ho scritto nel libro. Si tratta di un fenomeno legato unicamente alla musica dal vivo che in certi periodi ha potuto sopravvivere solo grazie a gruppi che non avevano velleità autoriali e si divertivano a suonare. Il pubblico di questi eventi è generalmente quello dell’ascoltatore occasionale, che non ha un reale interesse per la musica ma preferisce (e a volte pretende) che gli venga offerta solo quella che già conosce e che non richieda l’attenzione necessaria. Non ha nulla a che vedere con l’arte, è un passatempo, come il karaoke o il juke-box. E non mi interessa.

Stai lavorando a qualche nuovo progetto?
Ho aperto diversi ‘file’ per alcune idee che mi sono venute ma sono tutti talmente embrionali che non ha senso parlare come di nuovi progetti. Sicuramente, se scriverò qualcosa di nuovo sarà comunque sempre legato a questo mondo meraviglioso delle canzonette.

Wanted Record consiglia la lettura del libro di Joyello Triolo “Cover and over again – 100 canzoni, (più di) 200 versioni” ascoltando le varie versioni proposte dall’autore durante la lettura.

INTERVISTA ORIGINARIAMENTE PUBBLICATA SU “IL QUOTIDIANO DI BARI” IL 24 NOVEMBRE 2021

Giovanni Verini Supplizi – Labirinto Bosé

Giovanni Verini Supplizi, oltre che prezioso collaboratore de Il Raglio del Mulo, da qualche mese ha pubblicato il suo secondo libro, per la Crac Edizioni (ufficio stampa LC Comunicazione). L’avevamo lasciato qualche anno fa alle prese con le sue (dis)avventure nei panni di proprietario di un negozio di dischi (“Bassa Fedeltà”), oggi lo ritroviamo a ricoprire il ruolo di fan\biografo di Miguel Bosé nel nuovo “Labirinto Bosé”.

Ciao Giovanni, ci eravamo lasciati, nella nostra precedente intervista, con una mezza idea di una parte seconda del tuo primo libro, “Bassa Fedeltà”, invece ci ritroviamo dopo qualche anno a parlare del nuovo libro, “Labirinto Bosé”. Inizierei proprio chiedendoti se quell’idea rimarrà tale oppure hai ancora intenzione di scriverla quella seconda parte…
L’intenzione di scriverne una seconda parte c’è, soprattutto perché richiesta da una parte dei lettori della prima, e questo non può che farmi piacere, però volevo cimentarmi in altro, e questo “altro” mi ha impiegato più tempo del previsto, ma devo ammettere che sono molto soddisfatto per la diversità tra i due libri.

Mentre, come è nata l’idea di un libro su Bosé?
L’idea è nata perché Miguel Bosé è il primo artista che ho seguito da bambino, l’ho scoperto all’età di soli 5 anni e da allora l’ho sempre seguito. Io sono cambiato e cresciuto musicalmente, Bosé lo stesso nel frattempo, parallelamente ognuno è cresciuto a suo modo, ognuno ha passato vari percorsi musicali, Bosé ad esempio dalle prime hit adolescenziali al pop più impegnato passando dalla new wave al synt-pop, e tanti altri generi musicali. Serviva un documento che attestasse tutto ciò, per dare un’idea più completa dell’artista, spesso a mio parere, relegato sempre ai soliti successi più noti da noi in Italia.

Sei il primo in Italia a cimentarti sulla vita dello spagnolo?
No, ci sono stati alcuni libri usciti negli anni 80 sulla scia del grande successo nel nostro Paese, inoltre nel 2013 è uscito un altro libro a cura di Anna Maffei e Maria José Merino, “Aún más” per la Chinaski Edizioni, mentre il mio, vorrei ricordarlo ringraziando la casa editrice, è uscito per la Crac Edizioni.

Leggendo le pagine del tuo libro si ha quasi la sensazione che Miguel fosse un predestinato, papà torero, mamma attrice, una casa frequentata dal fior fiore degli intellettuali dell’epoca…
Probabilmente sì, ma come dico anche nel libro pochi figli d’arte riescono a emergere, lui è riuscito a superare persino la fama dei genitori, infatti curiosamente il padre era ricordato come il “torero più famoso del mondo”, successivamente come il “padre di Miguel Bosé”.

Eppure Bosé, nonostante queste premesse di gavetta ne ha fatta, e anche tanta. C’è stato secondo te un momento in cui lo spagnolo stava per gettare la spugna?
Sì, forse il momento più critico sarà stato tra l’83 e ’84, quando ci fu il passaggio da dischi più “commerciali” a lavori più impegnati ed ostici, vedi il disco della nuova “era Bosé”, “Bandido”, l’album che gli ha probabilmente salvato la carriera (sono parole sue), prodotto da Roberto Colombo e tra i tanti vanta la collaborazione con Peter Hammill dei Van der Graaf Generator, che è uno degli intervistati nel libro, tra l’altro.

L’Italia è stata sempre generosa con Miguel, quale è stato il suo apice di fama nel nostro Paese?
L’apice è stato dal ‘78 all’83, con qualche grossa ripresa a singhiozzo successivamente in particolare nel ‘94 e nel 2007. Molto generosa non direi onestamente, o almeno non moltissimo nella sua seconda parte della carriera, non è stato molto capito il suo cambiamento artistico, anzi, l’Italia è sempre stata molto critica e a volte “ingenerosa” con Bosé, sempre secondo il mio parere. Avrebbe meritato di più, e senza fare nomi invece in Italia si innalzano nomi italiani ed anche internazionali che a volte invece trovo sopravvalutati. Ma si sa, spesso accade. Troppi pregiudizi.

Oggi qual è il rapporto di Bosé con l’Italia?
Difficile dirlo, da quello che è il mio punto di vista (del resto il sottotitolo del libro riporta “secondo me…”) Bosé ha preferito altri mercati sicuramente più ricettivi, se consideriamo che dal ‘98 al 2005 abbiamo un buco in Italia della sua discografia, di ben 4 lavori, uno di cover e tre album inediti di cui alcuni veri e propri capolavori, da noi non sono mai usciti, né promossi. Qui poi è difficile dire se la responsabilità sta anche alle case discografiche più che all’artista.

All’estero invece gode di una fama maggiore o minore rispetto alla nostra Italia?
Dipende dai paesi, in Spagna e Sudamerica, così come in parte degli Stati Uniti, è famosissimo, è ancora amatissimo anche dalle nuove generazioni. In Europa a seconda dei periodi ha avuto molta fama in Francia (registrando anche alcuni dischi in lingua) e in altri paesi, in quasi 45 anni di musica, ne ha fatta di strada, forse concentrandosi maggiormente sull’inglese in alcuni paesi d’Europa avrebbe potuto avere più costanza, credo alla fine abbia fatto delle scelte.

Lasciamo stare per un attimo lui e parliamo di te, dove hai raccolto tutto il materiale e soprattutto quante delle uscite dello spagnolo possiedi?
Delle uscite di Bosé possiedo molto, la maggior parte delle ricerche sono state estrapolate da materiale personale, dischi, libri, riviste, cartelle stampa, e anche il web è stato d’aiuto. Insomma, ogni fonte è stata utilissima.

Finiamo con la domanda carogna, so che ami Bosé ed Helloween, a questo punto vorrei sapere dalla fatidica torre quale delle due discografie butteresti giù?
Cattiva questa domanda. Ti posso rispondere col seguito di “Bassa Fedeltà” se riuscirò a scriverlo?


Massimo Villa – The shining book

Massimo Villa con il suo libro “Necrodeath. The shining book” (Arcana) va a colmare un vuoto inspiegabile della saggistica musicale italiana. I Necrodeath sono uno dei capisaldi del metal estremo e la loro storia non è condita solo di grandi album ma anche di aneddoti e storie che meritavano di essere raccontate.

Benvenuto Massimo, il tuo “The Shining Book” è uscito da pochissimo ma sta già ottenendo ottimi riscontri di vendite. Probabilmente eravamo in molti ad aspettare una biografia dei Necrodeath, ne avevi la percezione mentre ci lavoravi su?
Sono sempre stato convinto che dare spazio ad alcune band italiane che hanno fatto la storia di un genere musicale, come i Necrodeath, ad esempio, fosse molto importante la letteratura musicale italiana. Sarebbe stato un crimine continuare a non parlare di una band seminale e per giunta italiana, che ci invidiano in tutta Europa e che anche oltre oceano, come Phil Anselmo ci insegna, miete proseliti. Ho solo colmato un vuoto, spero nel miglior modo possibile.

Come ti spieghi il grande amore del pubblico italiano e non (citi un sacco di personaggi importanti della scena metal che hanno dichiarato apertamente di apprezzare i genovesi)?
È naturale, visto il percorso che hanno fatto i Necrodeath. Come dicevo, spesso siamo noi italiani a voler essere dannatamente esterofili, sempre e comunque, mentre il bello ce lo abbiamo già in casa. E la testimonianza di affetto di tanti addetti ai lavori lo testimonia, vedi membri dei Possessed, Venom, Voivod e tanti altri.

Invece, come hanno accolto i Necrodeath la notizia che stavi lavorando su una biografia a loro dedicata?
L’idea è stata condivisa da subito, prima con Peso e poi con gli altri. Io stavo già lavorando ad altre biografie che usciranno più avanti, e l’idea di scrivere anche quella dei Necrodeath c’è sempre stata. Penso che all’inizio Flegias fosse un po’ scettico ma si è ricreduto dopo averla letta! Penso che comunque siano tutti molto contenti del lavoro d’equipe (ci siamo sentiti per due mesi in streaming) che abbiamo fatto.

Da quali fonti hai attinto il materiale? Hai incontrato molte difficoltà nella ricostruzione di tutti gli eventi, magari soprattutto quelli relativi ai primi e più nebulosi giorni di vita della band?
Come detto, la fonte è stata la band. Mi hanno raccontato tutto loro, in ordine cronologico, compresi i vecchi membri come Claudio o John. GL poi aveva bene in mente tutta la progressione delle date live e ne abbiamo parlato diffusamente con tutti. Peso infine ha riletto tutto e ha approvato quanto scritto. È una biografia totalmente ufficiale, con il bene placido e la partecipazione attiva del gruppo.

Ci sono stati dei momenti in cui hai pensato, ma chi me lo ha fatto fare a buttarmi in questa avventura?
No, devo dire che è stato tutto molto divertente, sia ascoltare i ragazzi (un po’ meno sbobinarmi tutte le registrazioni!) che scrivere il libro in un modo che non fosse la classica biografia noiosa che riportasse esclusivamente dati e date. Penso di essere riuscito a renderla leggibile e simpatica anche per chi magari si approccia per la prima volta al mondo metal. È la storia di un gruppo di ragazzi, alla fine, con tante avventure e disavventure, durante più di trent’anni di metal.

Da un lato il biografo, dall’altro il fan. Non ti nascondo che molte volte ho percepito che questi due livelli in realtà fossero uno solo, quanto c’è di autobiografico in queste pagine?
Come detto, è la storia di noi tutti amanti del metal dalla metà degli anni ’80 ad adesso. Quindi anche della mia, attraverso i loro occhi. Da quando presi per la prima volta in mano il vinile di “Into the Macabre”, alla pandemia che ci impedì di presentare insieme “Neraka”. Penso che tutti quelli che hanno vissuto quegli anni ci si possano riconoscere.

Possiamo dividere la storia dei Necrodeath in due fasi, prima e dopo lo split momentaneo. La prima è quella più rapida e forse amata, la seconda più prolifera e continua. Secondo te qual è l’elemento che accomuna queste due ere e quale invece l’elemento di maggiore distacco tra il prima e il dopo?
I Necrodeath sono stati fedeli a loro stessi sia prima che dopo “la pausa di riflessione”. Hanno sempre perseguito il fine di fare quello che piaceva loro, senza seguire mode, anzi, creandole. Quindi direi che l’elemento che accomuna le due epoche è la coerenza. L’elemento di maggior distacco è dato dal fatto che dopo i tempi sono cambiati e la band ha potuto iniziare a programmare un’attività live che prima era impossibile, anche per lo scarso supporto delle case discografiche o perché i tempi non erano maturai per quel genere musicale. Da “Mater of All Evil” le cose sono cambiate molte da questo punto di vista, e il salire sul palco, dove sicuramente si esprimono al meglio, è diventato una parte consistente delle loro vite.

Dovendo fare una classifica, anche se parziale, dei dischi dei liguri, quali sono i tuoi preferiti e quali invece quelli che non ti convincono?
Guarda, cambio idea ogni cinque minuti, a testimoniare il fatto che tutti hanno qualcosa per cui vale la pena di ascoltarli o riscoprirli. Direi che i miei preferiti rimangono “Into the Macabre”, che ha dato il via a mille band black metal, che ne hanno tratto fonte d’ispirazione, “Black as Pitch, una sorta di trapano chirurgico che ti perfora senza sosta dall’inizio alla fine e “The Seven Deadly Sins”, che trovo assolutamente geniale. Non ho una lista dei più brutti, mi spiace!

Parliamo del tuo futuro, anche se immagino che tu oggi sia concentrato sulla promozione del libro, hai altri lavori in cantiere?
Sì! Ho un romanzo di fantascienza in arrivo all’inizio del 2022, e poi verso la metà del prossimo anno, un’altra importante biografia metal di una grandissima band italiana. Stay tuned!

Massimo Longoni – Helloween: tutta la loro storia in un libro

Massimo Longoni è un giornalista, grande appassionato di musica e cultura pop in generale, collezionista di vinili, scrive di spettacolo su Tgcom24, collabora con varie riviste di settore e ha all’attivo la pubblicazione di diversi libri a tema musicale. Da pochi mesi infatti è uscita la sua ultima fatica letteraria, “Helloween, pumpkins fly free – tutta la storia”, un libro su una delle band heavy metal più importanti a livello mondiale, appunto gli Helloween. Il libro, uscito per la Tsunami Edizioni, va a colmare un importante vuoto che mancava nel mondo della carta stampata, ed è un bel regalo per tutti gli appassionati del genere e della band. Al di là di “Hellbook”, il libro ufficiale della band tedesca uscito alcuni anni fa, che era per lo più un libro fotografico, non una vera biografia, non esiste nulla di così completo riguardante gli Helloween. E c’è da dire che il vuoto lo si colma perfettamente, tanto che il libro meriterebbe numerose traduzioni, in quanto la band è famosa e seguita in tutto il mondo e Massimo Longoni, che abbiamo intervistato, ha compiuto un lavoro eccezionale nel raccontare la band e la sua storia, entrando in particolari sconosciuti anche dai fan più incalliti.

Massimo, il tuo libro è davvero pieno citazioni, testimonianze di cui molte internazionali, quanto tempo hai impiegato per scriverlo e come è nata soprattutto questa idea?
Questo libro è una vita di passione. Mi frullava da un po’ di tempo l’idea di questo lavoro, l’ostacolo però era stato sempre capire se ci fosse materiale su cui lavorare, trovare le giuste fonti. Ci ho messo un annetto circa e devo ringraziare Max Baroni della Tsunami che mi ha permesso di attingere dalla sua cospicua collezione di riviste heavy metal.

Come è nato il tuo “amore” per gli Helloween?
Li ho scoperti per puro caso nel 1989 con i due album “Keeper of the Seven Keys”, prima e seconda parte. Da lì non li ho più mollati, ho amato molto il successivo “Pink Bubbles Go Ape”, anche se molti lo considerano il loro punto più basso, addirittura peggio di “Chameleon”, in cui ci sono diversi brani interessanti e che con il tempo è stato rivalutato da molti fan. Quest’ultimo sicuramente è un disco che ha delle pecche, un album figlio di una frattura all’interno della band, non è un disco di una band infatti, ognuno lavorò per conto proprio, ma ciò non toglie che abbia all’interno dei brani eccezionali.

Forse uscito in questi giorni sarebbe considerato quasi un capolavoro per la sua varietà.
Assolutamente, anche perché oggi c’è molto meno intransigenza a livello di suddivisione di generi nel metal, c’è ancora l’anima “true metal”, vero, ma rispetto ai tempi è anche abbastanza superata.

Il tuo libro dà finalmente alla band quella maggiore credibilità, nonostante siano sempre ad alti livelli ma allo stesso tempo sempre messi un po’ in secondo piano?
Non sono mai stati presi sul serio fondamentalmente. Loro hanno pagato questo atteggiamento di non essere necessariamente “true” in un certo ambiente. Quindi da un lato avevano un atteggiamento molto diverso dalle solite band heavy metal, loro sono sempre stati molto ironici, leggeri, solari, positivi, senza attingere ai soliti stilemi metal un po’ “battaglieri” o quantomeno seri senza mai sfociare in tematiche più vicine a generi più estremi come il satanismo. E per questo sembravano all’occhio di molti dei “pagliacci”, per questo nel 2000 c’è stata una svolta più “dark” spinti anche dall’etichetta e dal management con l’album ‘The Dark Ride’. Poi loro hanno pagato le tante influenze che hanno avuto all’interno della band, il volere andare oltre il genere metal, non essere sempre chiusi in quel cerchio, se prendi ogni loro album per quanto siano subito riconoscibili ogni disco ha una sua peculiarità, un suo marchio che li rende sempre personali. Ci sono band molto più “fedeli a se stessi”, vedi gli Iron Maiden o i Manowar, e spesso ciò è stato visto da una parte del pubblico come un tradimento, che poi non era indirizzato a commercializzarsi e a vendere più dischi ma era fatto semplicemente per soddisfare le esigenze dei singoli elementi del gruppo, prendi ad esempio Michael Weikath (chitarrista, nda), viene da una formazione musicale più vicina a band come Beatles, Deep Purple, ha uno spiccato senso melodico rispetto all’anima più metal che era ed è tuttora di Kai Hansen (altro chitarrista, nda).

Infatti loro ogni volta che sono stati all’apice del successo, invece di proseguire su quella strada vincente hanno sempre sterzato in un’altra direzione, vedi dopo i due “Keepers” e dopo “Better Than Raw” (in Italia quest’ultimo arrivò al 14° posto in classifica) e pubblicarono un disco di cover che di metal aveva poco e niente.
Vero, sì, è proprio una loro caratteristica, come essere su un ottovolante. Oggi stanno raccogliendo finalmente ciò che hanno seminato nel corso di quasi 40 anni di carriera, spesso sperperandolo senza riuscire a goderselo perché ogni volta che arrivavano in cima la volta successiva c’era il disastro. Adesso finalmente tra il tour di reunion e il nuovo album finalmente stanno avendo il successo meritato. Vedessi i live del precedente tour, hanno avuto il massimo degli spettatori.

Dei progetti paralleli, a quale sei più legato?
Sicuramente i Gamma Ray. Devo ammettere che non li ho seguiti da subito. Non essendo prettamente un metallaro, al tempo non mi accorsi della band, sì, seguivo gli Helloween ma non considerai subito la band di Kai Hansen. Li ho scoperti successivamente per caso, al tempo non c’era internet, lo vidi in un negozio di Milano, Mariposa al tempo, chiesi al negoziante “Com’è?” e mi rispose “come i primi degli Helloween”, da lì in poi ho seguito la band, comprato tutti gli album, di cui preferisco su tutti “Insanity and Genius” del 1993.

Hai notato che a differenza di altre reunion di altre band, sembra tra le più “genuine”e che ci sia una vera armonia nella band e che ci sia un gran divertimento tra loro?
Voglio crederlo anch’io, non vorrei essere ingenuo, ma vorrei credere a questa buona fede, anche perché ci sono elementi e indizi che supportano questa tesi. Se analizziamo bene il tutto non era così scontato che a livello economico potesse andare bene, e che ci fosse tutto questo interesse, comunque era un “esperimento” che poteva andar male, non piacere al pubblico, invece è andata benissimo, meglio del previsto, tanto che a Milano era stata fissata una data all’Alcatraz invece è stato necessario spostarla al Forum di Assago. L’unico che non si lascia andare a toni troppo entusiasti sembra sia Weikath ma non so se è anche per via di un suo atteggiamento. Kiske invece nelle interviste è sempre molto allegro, giocoso, sembra davvero sereno.

Andi Deris ha salvato la band in qualche modo al suo ingresso nel 1994, confermi?
Assolutamente. Oggi non staremmo a parlare degli Helloween in questi termini, Tra l’altro Deris è uno che non è entrato in punta di piedi nella band, ha capito da subito perfettamente la situazione, inoltre è uno con una personalità spiccata, molto intelligente, ha compreso che era l’occasione della sua vita. Man mano che son passati gli anni ha preso in mano le redini del gruppo, basta vedere che il numero di canzoni che scrive. Vedi anche la reunion, sulla carta poteva andargli a sfavore, confrontarsi sul palco con Michael Kiske, da una vita il suo “principale rivale”, invece aveva capito che così la band sarebbe diventata più grande facendo persino un passo indietro. Lo dico da fan totale di Kiske, ma al concerto di Milano Deris è stato strepitoso e ha vinto 3 a 0. Kiske ha pagato il fatto di non essere salito sul palco per circa 20 anni, è un po’ statico, impacciato, Deris invece è un istrione totale, capace di fare spettacolo e negli ultimi anni canta meglio dei primi anni in cui è arrivato. Ha cambiato impostazione vocale e oggi canta molto meglio anche i brani dell’era Kiske, direi che è inattaccabile. Che abbia salvato la band non c’è alcun dubbio.

Una grande famiglia anche con i Pink Cream 69 per certi versi.
Sì, alla fine sì, Kosta Zafirou (batterista Pink Cream 69, nda) che fa da manager agli Helloween, Dennis Ward (bassista dei PC69, nda) che fa da co-producer, insomma buona parte di loro per certi versi sono entrati a far parte della famiglia Helloween.

Altro sul libro che vuoi raccontarci?
La parte più difficile da scrivere è stata quella relativa a Ingo Schwichtenberg e alla sua morte (Ingo Schwichtenberg è stato il primo batterista degli Helloween sino al 1993, deceduto nel 1995, nda). Non volevo scadere in termini “gossipari” non sarebbe stato giusto nei suoi confronti, volevo essere il più rispettoso possibile e a dimostrazione di quanto quel periodo è stato difficile anche parlandone con i protagonisti della band è stato difficile ricostruire la catena di eventi, è stato difficile ricostruire il periodo di quando Ingo è stato male veramente, quando hanno dovuto decidere di metterlo da parte, Kiske ricordava una cosa, Roland Grapow ne ricordava un’altra differente, le interviste dell’epoca riportavano notizie contrastanti, così sono andato a sentire un testimone super partes, Riad “Ritchie” Abdel-Nabi, batterista che fu chiamato a sostituire lo stesso Ingo al tempo, è stato molto contento di esser stato preso in considerazione, in quanto di lui non se ne è più parlato. Qualche aneddoto ce lo ha raccontato. Ad esempio, io ho ascoltato la registrazione del primo concerto a Tokyo in Giappone del tour di “Chameleon”, Kiske, a inizio concerto dice che Ingo non c’è e che si sta facendo curare in quanto non sta bene in salute, ma se vedi il tourbook dell’epoca, stampato quindi prima dei concerti, già non c’è più Ingo nella band ma c’era già Abdel-Nabi. Lo stesso Grapow ricordava che Ingo era stato male durante un concerto e Hiroshima durante quel tour ma in quel tour non c’è stato alcun concerto a Hiroshima, ricostruendo il tutto successivamente, Ingo è stato male durante un concerto in Germania precedentemente. Insomma, una situazione abbastanza caotica al tempo, e probabilmente ognuno di loro ha dimenticato quei giorni volutamente in quanto saranno stati certamente davvero duri.

Un libro completissimo sulla band, se volete saperne di più sugli Helloween, correte a comprare la vostra copia di “Helloween, pumpkins fly free” – tutta la storia’ di Massimo Longoni. Libro consigliato da Wanted Record, Bari.

INTERVISTA ORIGINARIAMENTE PUBBLICATA IN VERSIONE RIDOTTA SUL QUOTIDIANO “IL QUOTIDIANO DI BARI” IL 20 OTTOBRE 2021

Transport League – Criminal energy

ENGLISH VERSION BELOW: PLEASE, SCROLL DOWN!

Gli svedesi Transport League non si sono mai guardati indietro da quando, nel 1994, sono stati formati dall’ex cantante dei B-Thong Tony Jelencovich. La band ha attraversato molte difficoltà nel corso degli anni, ma il groove è sempre rimasto intatto come dimostra il nuovo album “Kaiserschnitt” (Mighty Music).

Ciao Tony, siamo nel bel mezzo di nuova ondata di pandemia come state reagendo tu e gli altri ragazzi?
Bene, siamo ben saldi nella nostra passione per la musica e siamo anche una squadra compatta e forte. Non ci resta che lanciare la monetina e trovare altre opportunità.

Il vostro precedente album, “A Million Volt Scream”, è uscito nel 2019 all’inizio di settembre: siete riusciti a promuovere il disco dal vivo o siete stati bloccati dall’emergenza covid?
Abbiamo fatto appena quattro spettacoli ed è stato un peccato. Non abbiamo avuto altra scelta che metterci a lavoro sui nuovi brani e prenotare lo studio. I nostri fan ci hanno aiutato con i finanziamenti e oltre a questo abbiamo venduto un sacco di merchandising. Amiamo i nostri fan.

“Kaiserschnitt” è nato durante il lockdown? L’album è stato influenzato dal tuo isolamento?
Sì, il titolo ha sicuramente a che fare con l’emergenza, e sembrava perfetto in questi tempi strani.

“Kaiserschnitt” sta per “taglio cesareo”: questo titolo ha un significato positivo o negativo? È un nuovo inizio o una rottura con il passato?
Ha un significato totalmente neutro. Beh, abbiamo prodotto noi stessi l’album, è stata una sfida, ma il risultato è ottimo. Abbiamo usato i Grand Recordings per batteria, voce e mix e El Bastardo Studios (studio Henrik Danhages) per chitarre e basso. Tutto progettato da Dan Johansson (ex Mary Beats Jane) e Henrik Danhage (Evergrey). Il mix è fatto da Svein Jensen.

Avevi un’idea di come volevi che suonasse l’album, o ciascuna delle tracce e l’intera opera hanno preso forma in fase di realizzazione?
Abbiamo parlato con Svein Jensen che ha mixato l’album su come volevamo che fosse il suono e il mix. La nostra idea era di avere più chitarre rispetto ai due album precedenti. Il suono è un colpo diretto in faccia ricco di energia e atmosfera rock’n’roll.

Durante l’ascolto sento un susseguirsi di stati d’animo diversi: è questo il tuo disco più ricco di emozioni?
Forse lo è, le canzoni sono arrivate facilmente e noi abbiamo seguiato il flusso.

Qual è il tuo segreto per mantenere il vostro sound fresco ma fottutamente Transport League?
Hahaha, beh, siamo semplicemente noi. Cerchiamo di mantenere la nostra energia ma cerchiamo di trovare nuovi approcci come sempre. Io sono il principale autore di riff insieme a Peter, ma tutti noi della band svolgiamo una parte molto importante nella creazione del suono e dell’arrangiamento. Siamo ragazzi dalla mentalità aperta.

Trovare Sal Abruscato (ex-Type O Negative, A Pale Horse Named Death) in “March, Kiss, Die” e Christian Sture (Heal) nella title track. Come sono nati questi contributi?
Abbiamo fatto un tour di supporto agli APHND nel 2019 e io e Sal siamo rimasti in contatto da buoni amici. Gli ho chiesto se era interessato a fare da guestvocals, e il resto è storia, il risultato è ottimo. Christian Sture è il grande cantante dei GBG che ammiro, e anche il suo contributo è di prim’ordine.

Sei e sei stato coinvolto in molte band, ma cosa hanno di unico i Transport League per te?
Questa è la mia creatura dal 1994. I Transport League ha subito molti colpi nel corso degli anni, ma non ci siamo mai arresi.

The Swedes Transport League never looked back since, in 1994, they were formed by ex-B-Thong vocalist Tony Jelencovich. The band has gone thru many charges thru the years, but the groove has always remained as evidenced by the new album “Kaiserschnitt” (Mighty Music).

Hi Tony, in the midst of the current new pandemic  wave how are you and the rest of the guys holding up?
Well, we are strong in our passion for music and we are also a tight and strong unit. We just had to flip the coin and look for other opportunities.

Your previous album, “A Million Volt Scream”, was release in 2019 at begging of September:  did you manage to promote the record live or were you blocked by the covid emergency?
We did like 4 shows and it´s a pity. We had no other option than to wrap up the songwriting and book the studio. Our fans helped us with funding  and we sold a lot of merchandise on top of that. We love our fans.

“Kaiserschnitt” si born during the lockdown? Was the album influenced by your isolation?
 Yes, the title has to do with emergency for sure, and it just felt perfect in these strange times.

“Kaiserschnitt” stand for “caesarean section”: does this title have a positive or negative meaning? Is it a new beginning or a break with the past?
It just has a meaning, totally neutral.  Well, we produced the album ourselves to it was a challenge, but the outcome is great. We used Grand Recordings for drums, vocals & mix and El Bastardo Studios ( Henrik Danhages studio) for guitars & bass. Everything engineered by Dan Johansson ( ex Mary Beats Jane) & Henrik Danhage ( Evergrey). Mix is done by Svein Jensen.

Did you have an idea of how you wanted the album to sound, or did each of the tracks and the whole thing take shape as it was being developed?
We had some talks with Svein Jensen who mixed the album about how we wanted the sound & mix to be. Our idéa was to have more guitars upfront than on the previous two albums. The sound is in your face with great energy and rocknroll vibe.

While listening, I feel a succession of different moods: is this your most emotional record?
Maybe it is, the songs just comes along easily, and we go with the flow.

Which is your secret to maintain your sound fresh but fuckin Transport League?
Hahaha, well, it is just us, we try to maintain in our energy but try to find new approaches as always. I am the main riff master along side with Peter, but all of us in the band are a very important part of the sound and arrangement. We are open-minded boys.

We can find Sal Abruscato (ex-Type O Negative, A Pale Horse Named Death) on  “March, Kiss, Die” and Christian Sture (Heal) on the title track. How were born these contributes?
We toured as support to APHND in 2019, and me and Sal stayed in contact as good friends. I asked him if he would be interested in doing to guestvocals, and the rest is history, the outcome is great. Christian Sture is a great vocalist from GBG which i admire, and his contribution is also top notch.

You are and were involved in many band, but what have unique to you Transport League?
This is my baby since 1994. Transport League has gone thru many charges thru the years, but the groove has always remained.

Fabio Rossi – Under the sign of the Black Mark

Fabio Rossi ha colmato una lacuna non da poco con il suo nuovo libro “Bathory – La band che cambiò l’Heavy Metal” (Officina di Hank), un’opera dettagliata e ricca di aneddoti che farà la gioia di ogni vero fan della band di Quorthon.

Ciao Fabio, con “Bathory”, se non erro, sei arrivato a tre libri. Uno sul bluesman Rory Gallagher, uno su il trio prog per eccellenza E.L.P. e ora quello sui Bathory. Quello che appare subito lampante è la tua versatilità, figlia di un amore per l’amore musica senza inutili paletti di genere. Appunto, quando nasce questo amore?
Ciao Giuseppe, per essere precisi “Bathory – La band che cambiò l’Heavy Metal” è il mio quarto saggio musicale che segue cronologicamente “Quando il Rock divenne musica colta: Storia del Prog” del 2015, “Rory Gallagher – Il bluesman bianco con la camicia a quadri” del 2017 e “Emotion, Love & Power – L’epopea degli Emerson, Lake & Palmer” del 2019. In pratica, da quando ho iniziato a scrivere libri, ne ho pubblicato uno ogni due anni. Riguardo alla mia versatilità, essa è il frutto del viscerale amore che nutro per il Rock e l’Heavy Metal, una passione che ormai dura da quasi mezzo secolo e che, credo, continuerà per il resto della mia vita. Spazio nell’ascolto dai Beatles ai Cannibal Corpse senza alcun problema e questa propensione si riflette palesemente anche nel mio modo di scegliere le tematiche su cui scrivere. L’amore è esploso dirompente ai tempi del liceo, verso la metà degli anni settanta per essere precisi, quando durante i periodi di autogestione si ascoltavano gli album dei Led Zeppelin, Genesis, E.L.P., Pink Floyd ecc. ecc… e si leggeva Ciao 2001, l’internet dell’epoca come amo definirla io.

Mentre, quando hai iniziato a scrivere di musica?
Provenivo da un quinquennio, dal 2009 al 2014, di proficua collaborazione con il sito http://www.Metallized.it, ma non condividendo alcune scelte degli amministratori decisi di smettere. All’epoca stavo lavorando su un articolo sul Rock Progressivo che inopinatamente non fu mai pubblicato. Ho iniziato quasi per gioco ad ampliarlo e nel giro di poco tempo è diventato un vero e proprio libro. La Chinaski Edizioni, nota casa editrice di Genova – ora si chiama Officina di Hank -, ha creduto nelle mie potenzialità ed è così che è nato “Quando il Rock divenne musica colta: Storia del Prog”. Nel tempo è diventato nel tempo una sorta di “long seller”, più volte ristampato e uscito da poco in seconda edizione. Ci ho preso gusto e ho continuato a scrivere e pubblicare con Chinaski prima e Officina di Hank poi.   

Abbiamo detto della tua varietà di gusti, ma qual è l’elemento che unisce i tre protagonisti dei tuoi libri?
Ovviamente adoro gli E.L.P., Rory Gallagher e i Bathory. Avrei potuto affrontare argomenti diversi ma la cosa che mi sorprendeva di più è che nessuno in Italia si è preso mai la briga di raccontare le loro storie. Pare assurdo ma nemmeno sugli E.L.P. c’era un libro prima del mio! Come dico sempre, qualcuno doveva colmare il vuoto e l’ho fatto io. Certo non nego che mi piacerebbe scrivere sui Led Zeppelin, Genesis, Iron Maiden, Black Sabbath, alcune delle formazioni che prediligo, ma ci sono talmente tanti libri in giro che mi pare assolutamente inutile farlo. D’altra parte sono tanti gli artisti che meriterebbero un bel libro, ad esempio Traffic, Gentle Giant, Tommy Bolin, ed è lì che sesondo me uno scrittore dovrebbe puntare.

Quando hai deciso di scrivere un libro sui Bathory? O sarebbe più corretto dire, un libro su Quorthon? Che tipo di lavoro hai fatto per recuperare il materiale sullo svedese?
Dopo la pubblicazione del mio terzo libro, molti miei amici metallari si stavano letteralmente “incazzando”. In effetti, dopo aver visto dal vivo tutti i gruppi più importanti, aver lasciato un patrimonio nei negozi romani specializzati in vendita di LP e CD (Revolver e Disfunzioni Musicali in primis), acquistato una marea di riviste (ad esempio possiedo tutti i numeri di H/M), scritto di metal sul web per cinque anni, sembra davvero un po’ strano che non mi sia dedicato mai a quel genere. Così è nata l’idea del mio libro sui Bathory o, come dici tu, su Quorthon che poi è la stessa cosa. Dei quattro certamente il saggio sul combo svedese è stato il più difficile a causa dell’esiguità del materiale a disposizione. Ho consultato numerose riviste anche straniere, siti web, forum di discussione, gruppi Face book, fanzine e letto e tradotto una decina di saggi dedicati principalmente al Black Metal e alla cultura vichinga. Sui Bathory ho trovato un solo libro in lingue francese: insomma, un lavoraccio.  

La carriera degli svedesi può essere divisa in tre fasi: la prima black\thrash, la seconda epic\viking, poi c’è la terza, quella dopo l’apparente split post “Twilight of the Gods”, meno omogenea stilisticamente. I fan si dividono soprattutto in due fazioni, ognuno parteggia per una delle prime due: tu quale preferisci? Mentre della più discussa fase finale, in cui comprenderei anche i dischi solisti di Quorthon, cosa ne pensi? Più brutalmente, sarebbe stato meglio chiudere dopo “Twilight of the Gods”?
Come si evince dal titolo, ritengo Quorthon una delle figure più importanti per lo sviluppo dell’heavy metal. Ha gettato le basi di ben due generi musicali, ovvero il black e il viking metal. Tutta la produzione dei Bathory dal debut album a Twilight of the Gods è semplicemente immensa. Verso la metà degli anni novanta il genio decide di cambiare direzione e lo fa con una duplice scelta alquanto discutibile; vira verso il thrash con due album mediocri come Requiem e Octagon e pubblica due dischi solisti influenzati da altri generi tra cui il grunge (pure dai Beatles!). Fortunatamente ritorna al viking con l’ottimo Blood on Ice, anche se poi i fan dovranno attendere ben cinque anni per il disomogeneo Destroyer of Worlds che aveva la pretesa di accontentare tutti finendo per deludere. Grazie al cielo, anzi a Odino, la sua carriera si conclude con Nordland I e II, due capolavori assoluti nella storia del metal. Personalmente apprezzo molto alcuni brani solisti e qualcosa da Destroyer of Worlds, mentre proprio non riesco ad apprezzare il thrash bathoriano distante dalle vette che il genere ha saputo proporre grazie a Slayer, Kreator, Sepultura e via discorrendo. Rispondendo alla tua ultima domanda, direi di no vista l’altissima qualità di Blood on Ice, Nordland I e Nordland II.  

Quando si citano i nomi dei puristi del metal, quelli che non si sono mai svenduti alle mode, uno dei nomi che spunta spesso è proprio quello di Quorthon. Anche se autore di dischi poco brillanti, mai nessuno ha messo in dubbio la sua ortodossia. Però nel tuo libro citi delle interviste in cui dichiara che dopo la fase thrash stampa “Blood on Ice” per fare contenti i fan. Qualcosa del genere lo dichiara anche a riguardo di “ Destroyer of Worlds”, in cui non nasconde di aver voluto accontentare un po’ tutti. Poi ci sono i suoi brani solisti, molte volte lontani dal metal. Nel nostro giro, ci sono starti artisti messi sulla graticola per molto meno, eppure la reputazione dello svedese non è mai stata scalfita. Come la spiega quest’ adorazione totale e incondizionata dei fan?
Non amo molto l’ortodossia nella musica ed è giusto che un artista decida di spaziare nel corso della sua carriera, non ci trovo nulla di sbagliato. Il problema e che a volte le cose riescono e a volte no, ma anche essere ripetitivi finisce per essere un problema. Gli AC/DC fanno la stessa musica da sempre e alcuni dischi francamente li trovo deludenti, i Metallica provarono a cambiare piuttosto radicalmente con Load e Reload e non andò bene, insomma, per dirla con un proverbio, non tutte le ciambelle riescono con il buco. Riguardo Quorthon, se non avesse abbandonato il Black per abbracciare il Viking ci saremmo persi davvero tanto e, quindi, non lo critico per essere passato al thrash o alle composizioni più “soft” dei suoi dischi da solista. L’adorazione totale e incondizionata dei fan è dovuta anche all’aura di mistero che avvolge quest’enigmatico personaggio, una coltre di nebbia che esiste ancora oggi a distanza di tanto tempo dalla sua morte e che contribuisce ad accrescere a dismisura il suo mito.     

Chiudo questa chiacchierata nello stesso modo in cui tu concludi il libro, con l’intervista a Baffo Jorg, personaggio mitico della scena romana, venuto a mancare qualche anno fa. Come è nata l’idea di questa appendice\tributo, che almeno apparentante potrebbe non apparire legata al tema del libro?
Avevo deciso da tempo che quando avrei scritto un libro sul metal l’avrei dedicato al mio amico Baffo Jorg e così è stato. Baffo è stata una figura importantissima che ha reso popolare l’heavy metal a Roma soprattutto grazie al suo locale, il mitico Frontiera, dove ho assistito a numerosi concerti frutto della sua non comune capacità organizzativa. So che non c’è una reale connessione con il tema del libro ma ho colto l’occasione per omaggiarlo. 

Flavio Adducci – Alle origini del nero

Si parla tanto di black metal, ma quasi mai delle sue origini. Di solito si citano i grandi nomi della scena norrena di metà anni 90, dimenticando tutto quello che c’è stato prima. A rendere giustizia ai padri del genere, c’ha pensato Flavio Adducci con il suo libro “Benvenuti all’Inferno!” pubblicato qualche mese fa dell’editore Officina di Hank.

Flavio, da qualche mese è fuori il tuo libro “Benvenuti all’Inferno!”, quando e perché hai deciso di rimetter mano al tuo ebook “Nel Segno del Marchio Nero” per rieditarlo con un nuovo titolo e contenuti più ricchi?
Ciao Giuseppe! Ho cominciato a rimetterci mano nel luglio dell’anno scorso, quando il mio editore, una volta conosciuto come Chinaski Edizioni ma ora come Officina di Hank, mi contattò dopo tanto tempo per chiedermi se volessimo riprovare a pubblicare il libro in versione fisica, dopo che i nostri rapporti erano cessati qualche anno prima per varie ragioni. Ovviamente, fui entusiasta di questo suo ritorno perché il mio sogno era proprio quello di veder stampato su carta il mio ebook, che avevo pubblicato il 24 marzo 2019, il giorno del mio trentesimo compleanno. Così, decidemmo di comune accordo di ridare al libro il suo vecchio titolo, cioè “Benvenuti all’Inferno!”. Inoltre, approfittando dell’occasione, ho apportato qualche modifica anche per correggere alcuni errori presenti nell’ebook, ho aggiunto due capitoli nuovi (quello sulla scena iberica e quello sul proto-speed/thrash metal) e ho inserito la stupenda prefazione scritta da Francesco Gallina, che proprio in questi giorni sta uscendo con la sua nuova fatica, “Dipinto sull’Acciaio”. Ed ecco che il libro non solo è finalmente uscito ma risulta avere adesso circa 40 pagine in più.

Da un certo momento in poi, prima metà degli anni ’90, si inizia a parlare di black metal riferendosi a qualcosa di diverso rispetto a quello che prima era per tutti il metallo nero. Oggigiorno la definizione più comune è proprio questa nata nell’ultima decade dello scorso secolo. Il tuo libro è qui a render giustizia a tutte quelle band che per prime, invece, sono state identificate come black. Una scelta coraggiosa la tua, perché vai quasi contro la percezione generale del metallaro odierno…
Sì, in effetti alcuni non credono affatto nell’esistenza della first wave of black metal perché affermano che gruppi come Venom o i primi Sodom non avessero musicalmente nulla in comune con quelli che vengono percepiti oggigiorno come black metal, come i Darkthrone o gli Immortal. Eppure, si potrebbe quasi dire che questi ultimi, i norvegesi, non abbiano inventato niente perché è stato proprio nella prima ondata che sono emerse formazioni come i Bathory di “Under the Sign of the Black Mark” o gli ungheresi Tormentor, le quali praticamente proponevano del vero black metal prima che questo genere fosse riconosciuto negli anni ‘90 come a sé stante. Il problema è che, quando si parla della prima ondata, si parla di qualcosa di indefinibile. Infatti, qui il punto non è esattamente un fatto di musica ma è più che altro un fatto di attitudine, di suonare nella maniera più sinistra e diabolica possibile cantando di Satana e di argomenti come l’occultismo, facendolo però non seguendo dei copioni musicali precisi. Ecco così che nel libro si trovano inseriti gli Slayer o i Mercyful Fate, due band diversissime fra loro che però, soprattutto nei primi tempi, venivano spesso definite proprio come black metal dalle riviste di settore e dalle fanzine dell’epoca. A dirla tutta, questo succedeva anche perché una larga parte del metal, specie quello estremo, era in via di costruzione, ragion per cui spesso non c’erano degli steccati definiti fra i generi. Quindi, ci si divertiva a inventare le più variopinte definizioni per dare un nome ai vari stili emergenti. Alcune di esse non avrebbero resistito alla prova del tempo mentre altre sì, fra cui “black metal”, che però negli anni avrebbe assunto un significato un po’ diverso da quello originario.

Questo rimescolamento delle etichette mi frastorna, non ti nascondo che quando dico power metal, ho in mente qualcosa di diverso rispetto a quella che è l’accezione odierna (la mia è un qualcosa che sta a metà strada fra il metal classico e il thrash). Ma potrei farti altri esempi, però mi soffermerei su un altro aspetto: i sottogeneri servivano, più che altro, in un momento storico in cui la musica veniva promossa attraverso le riviste per descrivere in modo veloce la proposta di una band. Ma oggi che l’ascolto è quasi immediato dopo la pubblicazione di un album, serve ancora parlare di black, death, power, ecc? Non credi che sia riduttiva come cosa?
Vero, anch’io sono più legato al power metal di cui parli, cioè quello degli anni ’80, durante i quali c’erano gruppi duri e violenti come i mitici Jag Panzer o i Liege Lord. Fra l’altro, potrebbe suonare strano ai cultori di ciò che oggigiorno viene inteso come power metal ma allora da questo genere potevano uscire fuori band dal sound molto oscuro e dalle tematiche ultra-sataniche come i Satan’s Host, che possono esser fatti rientrare tranquillamente nella first wave of black metal. Tornando alla tua domanda, per me ha ancora senso parlare di sottogeneri nel metal. Perché, prima di tutto, penso che abbiano ancora un forte appeal, tanto che negli ultimi anni sono nati canali YouTube dedicati esclusivamente a generi specifici; canali che vengono seguiti particolarmente da metallari che preferiscono degli stili precisi, come il thrash o il black metal, rispetto ad altri. Inoltre, credo che, con questo generale ritorno alla vecchia scuola che stiamo vivendo ormai da un po’ di tempo, si sia in un certo senso riscoperto il metal, le sue origini, e anche generi che erano stati dimenticati come lo speed metal, spesso confuso per il thrash metal, o definizioni come la stessa first wave of black metal. Grazie a tutto ciò, si può dire che si sia ridato lustro ai vari sottogeneri metal, rafforzandoli.

Torniamo al libro, mi parleresti delle fonti? Te lo chiedo, perché spesso sei andato oltre le solite, inserendo nelle tue pagine anche band che difficilmente vengono accostate al black…
Principalmente ho usato fonti come libri, fanzine, il monumentale Metal-Archives e, almeno nei primi tempi, anche YouTube, che già qualche anno fa, quando cominciai a scrivere il libro, era pieno di video che raccontavano la storia e l’evoluzione della first wave of black metal. Però sì, non sempre parlo di gruppi di fatto appartenenti alla prima ondata. Per esempio, nel capitolo statunitense si trovano band che non ne hanno mai fatto parte come i Manilla Road, e perfino i Saint Vitus, che non sono mai stati nemmeno lontanamente satanici vista la loro fede cristiana. Ma, in entrambi i casi, il sound è veramente molto oscuro e vicino, rispettivamente, ai Celtic Frost e, soprattutto durante le parti veloci, agli Hellhammer. A causa di queste somiglianze, ho pensato di inserirli, anche per far capire a tutti quanto il metal si stesse sempre più scurendo in quegli anni. Poi, qui e là nel libro si parla di hardcore punk. Questo è stato sia un atto d’amore verso quest’altro tipo di musica, a cui sono molto legato, e sia perché alcuni gruppi di questo genere presi in esame nel libro presentano delle caratteristiche musicali, vocali e/o di atmosfera capaci a mio avviso di richiamare il black metal. Non è un caso che band come gli inglesi Amebix vengano citate come influenze importanti da protagonisti della seconda ondata come i Darkthrone. Alcune formazioni di questo tipo le ho scoperte dopo aver pubblicato il libro, come gli statunitensi United Mutation, che mi hanno del tutto sorpreso perché nel 1983 se ne uscirono con un pezzo dal cantato agghiacciante come “Lice & Flies”. Ascoltare per credere!

Dovendo mettere dei paletti cronologici, più o meno quando nasce e muore la prima ondata?
Allora, l’inizio della first wave of black metal è da far risalire al 1981, quando i Venom, i fondatori assoluti del movimento, pubblicarono “Welcome to Hell”. Con questo disco la band inglese immortalò per i posteri un metal satanico e blasfemo a cui i nostri diedero una definizione l’anno dopo col secondo album, “Black Metal”, col quale si fondò di fatto tutto un genere musicale che però sarebbe diventato tale solo negli anni ’90. Invece, la fine della prima ondata è da collocarsi idealmente nel 1991, quando Euronymous, leader e chitarrista dei Mayhem, aprì a Oslo il negozio di dischi Helvete, che in norvegese significa “Inferno”. Fu proprio da qui che il black metal divenne finalmente un genere musicale con caratteristiche ben distinte. Ciò praticamente grazie a Euronymous, che spinse molti dei suoi amici, dai Darkthrone a Burzum, ad abbandonare il death metal, definito ormai da lui come un genere commerciale e innocuo, per darsi al black metal, che però a questo punto non fu più concepito soltanto come musica ma anche come una pericolosa ideologia rivoluzionaria votata a Satana e al caos.

Quale è stato il passaggio più complicato da mettere su carta?
Più che altro, ho trovato molto complicato mettere la parola FINE al libro. Infatti, devi non solo considerare che io ho una grande passione per la scrittura che coltivo praticamente da una vita, ma anche che ho scelto come tema qualcosa di indefinibile come la first wave of black metal. Inoltre, a un certo punto delle mie ricerche, ho scoperto che il sito The Corroseum contiene un’enorme sezione dedicata alle fanzine metal degli anni ’80, cioè una vera e propria miniera di informazioni se si vuole scrivere un libro di questo tipo. Solo che, a causa di tutto ciò, ho rischiato sul serio di rendere virtualmente infinita la stesura di “Benvenuti all’Inferno!”! Ma poi, un bel giorno, conscio di aver scritto tutto il possibile, mi sono ritenuto finalmente soddisfatto del lavoro. E così quella che è uscita è la versione definitiva di un libro che ho iniziato a scrivere, se non erro, nell’ormai lontano ottobre 2015.

Hai arricchito il libro con delle interviste ai protagonisti di quella epopea, cosa hai provato ad ascoltare direttamente dalla voce dei protagonisti come sono andate le cose?
Non nascondo che ho provato un po’ di emozione, specialmente quando intervistai al telefono Peso dei Necrodeath. Così, oltre ogni mia più rosea aspettativa, ho avuto l’onore di parlare direttamente con uno dei pionieri del metal estremo in Italia. Per di più, quella è stata la prima intervista telefonica in assoluto che ho fatto in vita mia, ergo l’emozione fu amplificata anche da questo dettaglio. Infatti, prima di allora intervistavo solo per mail o, al massimo, in chat, quindi quell’intervista telefonica fu per me una novità totale. Fra l’altro, nel 2018, quindi due anni dopo aver chiacchierato con Peso, lo vidi all’opera con i Necrodeath quando vennero a suonare a Roma, in una serata che ricordo con grande piacere e di cui feci un live report uscito per la mia webzine Timpani allo Spiedo. Una foto di quel concerto l’ho inserita proprio nel libro. Ma ho avuto anche l’onore di intervistare, tramite mail, non solo altri pionieri del metal estremo italiano come gli Schizo attraverso le parole di S.B. Reder, ma anche i brasiliani Holocausto, che mi hanno risposto perfino con tutta la formazione che registrò il seminale “Campo de Exterminio”. In entrambi i casi, sono state svelate molte cose interessanti. Per esempio, S.B. Reder ha raccontato un sacco di aneddoti, chiarendo fra l’altro la deriva pseudo-nazista che la band ebbe nei primissimi tempi mentre gli Holocausto hanno parlato, anche della particolarissima situazione socio-politica di un Brasile che, in quegli anni, stava uscendo da una dittatura militare.

I fatti criminosi accaduti in Norvegia, è inutile negarlo, hanno dato una spinta notevole alle band della seconda ondata, tanto che il black metal paradossalmente è diventato un genere, se non commerciale, commerciabile. Invece, quale è stata la molla che ha permesso alla prima ondata di arrivare in ogni angolo del globo in un momento storico in cui i mezzi di comunicazione e di diffusione della musica erano ancora farraginosi?
Sicuramente una grande passione per il metal. Stiamo parlando di un tempo in cui non c’era Internet, in cui non c’era modo di ascoltare in anteprima nessun disco, e quindi i metallari, rispetto a oggi, dovevano “faticare” molto di più per coltivare la propria passione. Così, coloro che si aggiornavano continuamente sulla scena internazionale, fra le altre cose, leggevano fanzine e facevano tape-trading con gente magari proveniente dall’altro capo del mondo, arrivando in questo modo a scoprire anche band molto interessanti. In pratica, si può dire che proprio quei mezzi di comunicazione e di diffusione “farraginosi” abbiano contribuito notevolmente a sviluppare una passione musicale incredibile. Inoltre, penso che attirassero parecchio le tematiche sataniche/occulte, che soprattutto all’epoca, prima di essere in un certo senso “normalizzate” negli anni 2000, avevano il classico fascino del proibito per dei metallari che spesso e volentieri erano degli impressionabili adolescenti. Infatti, a partire specialmente dal 1983 e grazie a gruppi come Slayer, Mercyful Fate, Acid e altri, i temi satanici divennero una moda. Solo che lo divennero così tanto che, già sul finire degli anni ’80, si considerava il black metal come un genere obsoleto, nonostante ancora non esistesse come vero e proprio genere musicale.

Ti va di buttar giù una discografia essenziale?
Certamente! In ordine cronologico e prendendo un solo disco per band, menzionerei:
Venom – “Welcome to Hell” (1981)
Hellhammer – “Satanic Rites” (1983)
Mercyful Fate – “Don’t Break the Oath” (1984)
Slayer – “Hell Awaits” (1985)
Celtic Frost – “To Mega Therion” (1985)
Sodom – “In the Sign of Evil” (1985)
Bathory – “Under the Sign of the Black Mark” (1987)
Mayhem – “Deathcrush” (1987)
Sarcófago – “I.N.R.I.” (1987)
Tormentor – “Anno Domini” (1989)
Salem – “Millions Slaughtered” (1990)
Blasphemy “Fallen Angel of Doom…” (1990)
Master’s Hammer – “Ritual” (1991)

In conclusione, cosa bolle nel tuo pentolone oscuro?
Sta bollendo un nuovo libro a cui sto lavorando da metà novembre. Non so se e quando lo finirò ma mi sta impegnando parecchio. L’argomento è top secret ma, per il momento, sappiate solo che non riguarda il black metal. Inoltre, sappiate anche che è prossimamente in uscita, per il mio editore Officina di Hank, “Bathory – La band che cambiò l’heavy metal”, nuova opera del mio amico Fabio Rossi incentrata, appunto, sui Bathory e sul suo mastermind Quorthon, e per la quale ho scritto la prefazione. Ora, nel caso siate interessati a seguirmi, vi lascio i seguenti link:
FaceBook: https://www.facebook.com/flavio.adducci/
Instagram: https://www.instagram.com/xpositivityxeaterx/
Timpani allo Spiedo (la mia webzine): https://timpaniallospiedo.blogspot.com
xSenselessxPositivityx (il mio progetto noisegrind): https://xsenselessxpositivityx.bandcamp.com/
Ciao e grazie, Giuseppe, per questa bellissima intervista! E complimenti per il tuo libro “Icons of Death”, che sto leggendo, anzi, divorando in questi ultimi giorni!

Paolo Merenda – Briciole punk

Paolo Merenda è un artista versatile: salta dalla musica alla scrittura con naturalezza e coerenza. Ma non solo, la sua vena camaleontica viene confermata dalla miriade di band, stilisticamente differenti, in cui è coinvolto e dalla notevole produzione letteraria che va dalla saggistica alla narrativa per bambini. Se c’è un’opera, però, che in qualche modo riesce a catturare entrambe le versioni di Paolo (musicista e scrittore) è “Break – Confessionale Punk” (Gonzo Editore), volumetto che al proprio interno contiene 50+1 mini-racconti e un CD.

Ciao Paolo,se non erro ci siamo sentiti l’ultima volta ai tempi del tuo esordio come autore per bambini con lo pseudonimo Paul Snack, come è andata l’esperienza “Il magico videogame”?
Ciao! Sì, in effetti non pubblicavo carta da parecchio tempo. Sono stato impegnato fra problemi lavorativi e familiari, per cui ho preferito impiegare il poco tempo libero dell’ultimo quinquennio principalmente suonando. Ho pubblicato infatti parecchio materiale musicale, a differenza di quello cartaceo. Quel libretto alle fiere vende bene, parliamo sempre di piccoli numeri e di microeditoria. Non essendo un racconto “rassicurante” non è facile per una insegnante proporlo come lettura facoltativa, ne parlavo proprio pochi giorni fa con una persona del mestiere. Purtroppo la tendenza dei genitori è un po’ quella del padre di Siddharta…

Darai un seguito alla tua produzione per bambini?
E’ un mercato molto difficile. La maggior parte dei libri che escono per editori specializzati sono realizzati “su commissione” dagli autori e si punta sulla produzione seriale dal successo di Geronimo Stilton. Ma io non voglio piacere a tutti e mi guadagno da vivere diversamente, per cui non sono disposto ad accettare troppi compromessi. In conclusione: per ora non ho più pubblicato libri per bambini. Se capiterà, con la giusta motivazione e il giusto editore, però potrei farlo (ho ancora materiale nel mio hard disk).

Da poco è uscito il tuo nuovo libro, “Break – Confessionale Punk”, contenente 51 micro-racconti. Come è nata questa raccolta?
Il “micro-racconto” è una idea che mi frulla in testa da anni. Volevo qualcosa che stesse nello spazio di un biglietto da visita (deformazione professionale) che però fosse di senso compiuto (non aforismi, poesie etc…). Sul sito di “Inchiostro Sprecato”, un progetto letterario autoprodotto che ho ideato insieme ad altri amici del giro punk, abbiamo creato uno spazio per i “Racconti da visita”, alcuni scritti da autori noti. Dopodiché ho cominciato a lavorare ad una mia raccolta di storie, partendo dalla prima uscita sul nostro facebook. Ho proposto l’idea a Gonzo (che ho conosciuto grazie all’amico Vincenzo Trama, a cui è dedicato l’ultimo racconto) quando ancora era in fase embrionale (pensavo nessun editore mi prendesse sul serio), dopodiché abbiamo lavorato per definire e sistemare il tutto. Ci abbiamo lavorato per un annetto, il libro sarebbe dovuto uscire per la Fiera di Torino del 2020, poco prima del mio 40esimo compleanno, ma causa pandemia siamo arrivati a gennaio 2021. Ci tengo a menzionare il lavoro molto professionale di Gonzo, sia a livello di grafica/ ideazione che a livello contrattuale.

I racconti sono tutti inediti e scritti appositamente per questo libro o parte del materiale proviene dal tuo archivio?
Avevo da parte circa 65 racconti, di cui ne abbiamo selezionati 51. Alcuni sono “reprise” – avrai riconosciuto in “L’artigiano” l’ossatura del plot narrativo di “Magico Videogame” – ma perlopiù si tratta di storie scritte apposta per la raccolta e con la stessa tecnica (750 battute spazi inclusi, divise in 3 paragrafi).

Leggendo queste 51 schegge ho sempre avvertito una sensazione di tristezza, quasi di rassegnazione, anche nei momenti più spensierati. Si tratta di una mia impressione o è effettivamente così?
Hai perfettamente ragione. Penso che sia radicata in me ormai questa sorta di malinconia perenne. Anche quando scrivo un pezzo non mi esce mai “fun-fun-fun”. Penso che un po’ derivi dal mio essere “mandrogno” per cui esperienza e background hanno influito sul mio carattere. Inoltre quando ricordo l’adolescenza penso a qualcosa di magico e che non tornerà (anche se in realtà le problematiche erano parecchie). Credo che un po’ della causa sia la nostra memoria selettiva, che tende a ricordare soltanto i momenti piacevoli, ma parte di questo atteggiamento deriva anche dal fatto che ben pochi adulti vivano spensierati come bambini. A me è sempre piaciuto scherzare, prendere e farsi prendere in giro, ma lo humour non è per tutti. Il “mandrogno” poi usa spesso uno humour cinico, secondo me vicino a quello inglese. Anche per questo probabilmente il mio autore preferito rimarrà sempre Dahl. E forse sempre per questo motivo “Break” come il “Magico Videogame” non sono libri per tutti. Ma d’altronde non voglio piacere a tutti e, come già dicevo, non devo pagarci il mutuo con i libri.

Siamo abituati ad immaginare il punk come un movimento, per quanto di periferia, legato alle grandi città. Ma c’è anche un punk di provincia, e tu ne sei il cantore. Mi daresti la definizione di punk di provincia? In cosa si differenzia da quello metropolitano?
Beh, non oserei definirmi il “cantore” del punk di provincia. Prima di me libri come “La città è quieta” di Carlo Cannella hanno avuto molto più successo e molti altri autori sono più conosciuti di me. Detto ciò, per definire il punk di provincia bisognerebbe definire prima il punk, che secondo me non me non è granché definibile. Posso dire soltanto che io amo la provincia e, da qualche anno, la vita di campagna. Da noi puoi vivere in mezzo a un bosco ed essere comunque a 5 km. dal centro storico e questo trovo sia un punto a favore della provincia. Inoltre il costo della vita ad Alessandria è decisamente basso, anche se abbiamo diversi punti negativi: l’alto tasso di inquinamento, il degrado in cui la città è decaduta negli ultimi anni e la delinquenza legata al mercato dello spaccio e della prostituzione. Posso aggiungere soltanto che fare musica alternativa in provincia è sempre stato difficile, mancano spazi, non c’è una “scena” alternativa etc… poi in un periodo come questo mi sembra ormai fantascienza parlare di live. Comunque sia parecchie band di Alessandria, di diversi generi, sono riuscite ad affermarsi all’estero pur essendo ben poco considerate in città.

Alla luce della tua definizione di punk di provincia, quanto c’è di autobiografico in “Break”?
C’è sempre molto di autobiografico in quello che scrivo. A volte esagero i toni come nella tradizione dei “tall tales”, ma principalmente parlo di esperienze vissute: sia per essere più credibile, ma anche perché diversamente non saprei come fare. Ho sempre avuto ben poca fantasia, fin da bambino vedevo altri creare con l’immaginazione fantastiche storie e disegni: a me non usciva mai nulla. Sarà anche per questo che sono ancora legato ai fumetti, molto presenti in “Break”. Il disegno mi ha sempre affascinato, trovo che sia una forma d’arte molto elevata, ma sono totalmente negato.

Il libro contiene anche un CD, di che si tratta?
Ho pensato al “bonus cd” principalmente per dare un valore aggiunto al libro “magro” di pagine. Ci tenevo poi a fare uscire queste tracce (originariamente pensate per il mio progetto A.S.E.) che non si sono concretizzate su disco a causa di problemi della line-up. Ultimamente ho ascoltato parecchie “One-man-band” ed è nata così l’idea di rivisitare le tracce in una versione più grezza e suonabile da solo. Ho registrato in un paio d’ore, in presa diretta, suonando con gli arti inferiori charleston e cassa, mentre con i superiori cercavo di fare del mio meglio per andare a tempo con la Telecaster, aiutato anche da un fuzz in alcune parti. I temi delle canzoni sono poi in linea con i racconti, per cui penso che il cd sia un complemento ideale. Gonzo anche in questo caso si è dimostrato subito disponibile ed ha pensato bene di creare un allegato “artigianale” in puro stile d.i.y. masterizzando e incollando uno ad uno i cd sul retro del libro.

Già che stiamo parlando di musica, c’è qualcosa che bolle in pentola su quel versante?
Come One-man-band avrei voluto suonare per strada e nelle librerie a supporto di “Break” (ovviamente causa pandemia non l’ho ancora fatto), dopodiché sto continuando a suonare punk con il progetto “Bag of Snacks”. Il primo 12” è uscito durante il lockdown di aprile 2020 co-prodotto da diverse realtà italiane ed una americana. In queste ultime settimane invece ho iniziato a provare con un quartetto country/folk/blues (2 acustiche, contrabbasso e percussioni). Sono appassionato di musica e cultura country ormai da 20 anni, per cui trovo sia una esperienza entusiasmante. Con loro stiamo rivisitando alcuni brani del cd allegato a “Break” in aggiunta ad inediti e cover, sperando un giorno di suonare live.

Trevor – Racconti di sangue

Quante volte un’opera letteraria è diventata uno spunto per un album se non il concept su cui costruire l’intero platter? Ma se provassimo a ribaltare questo iter creativo, probabilmente otterremo qualcosa di molto simile ad “Assetati di sangue. 45 serial killer allo specchio” (Shatter Edizioni), l’esordio come scrittore di Trevor. Perché, alla fine, Trevor queste storie le ha sempre raccontate nei Sadist sin dai tempi di “Crust”, ora le ha semplicemente messe su carta, ottenendone un’agghiacciante parata di personaggi che non vorremmo mai incontrare, soprattutto quando incrociamo il nostro sguardo nello specchio…

Ciao Trevor, l’avresti mai detto che un giorno ti saresti ritrovato a rispondere a delle interviste non nei panni di cantante ma in quelli di scrittore?
Sono una persona che ama porsi degli obiettivi, mi piace inseguire i sogni e quello di scrivere un libro era uno di questi. Da sempre mi occupo delle liriche Sadist, mi piace molto buttare giù idee, sono un fiume in piena, per questo motivo mi sono appassionato molto nella scrittura di “Assetati di Sangue”.

Fermo restando che lo scrivere un libro e buttar giù il testo di una canzone sono attività differenti con finalità diverse, credi che ci siano dei punti in comune tra i due iter?
Hai detto bene si tratta di attività differenti, ma certamente con alcuni punti in comune. Penso che avere una buona immaginazione e memoria fotografica sia molto importante per entrambe. Come credo hai avuto modo di vedere, al termine di ogni capitolo segue una sorta di poesia, qualcosa che ha avvicinato le liriche musicali alla fatica letteraria.

In fin dei conti, queste tematiche le hai trattate anche in alcuni dei tuoi testi, ma cosa ti ha spinto ad approfondire il  discorso scrivendo addirittura un libro?
Con Sadist ho scritto diverse liriche sul tema dei serial killer, vedi “Christmas Beat”, “Evil Birds”, “I Want it” e altre. Senza considerare che nel 2003 con il side project The Famili ho scritto un concept album sui serial killer.

Quando è nato il tuo interesse per questo argomento così delicato?
E’ un argomento di cui mi occupo da circa 30 anni, uno strano interesse, che se da una parte spaventa, dall’altra entra di prepotenza a far parte del fascino del male, come gli horror movies. Tuttavia è sbagliato mitizzare questi personaggi deviati, non bisogna mai dimenticare che sono persone malvagie, che hanno ucciso tanti innocenti. Quando si parla di serial killer bisogna farlo sempre nel rispetto delle vittime e delle loro famiglie.

Come ti spieghi  il fascino sprigionato da questi criminali? C’è gente che addirittura ne ha fatto degli eroi…
La cronaca nera non è un mistero attrae molto, per anni e ancora oggi fa la fortuna dei quotidiani e non solo. Negli ultimi anni sono molte le rubriche televisive che trattano argomenti forti e questo è assolutamente indicativo. Trovare affascinante un serial killer è qualcosa di contorto. Credo nasca nelle persone, specie nelle donne, quasi una sorta di sfida, che va ad alimentare il fascino, è come se volessero sfidare la morte. Sono molti gli assassini seriali che hanno collezionato in carcere lettere con dichiarazioni d’amore e addirittura in alcuni casi hanno persino trovato moglie. E’ strana la mente umana!

Dal punto di vista operativo, come hai proceduto alla scelta dei nomi da trattare?
Avevo obiettivi ben precisi sulla scelta dei nomi. La mia intenzione era da una parte dimostrare che questa vera e propria piaga sociale è da sempre sparsa a macchia d’olio, dall’altra portare a conoscenza il lettore del fatto che geograficamente parlando non c’è posto al mondo, dove tu possa ritenerti davvero al sicuro.

Siamo tutti portati a pensare che il fenomeno dei serial killer sia abbastanza recente, invece tu sei partito da un passato remoto…
Il fenomeno dei serial killer non è da attribuire a un periodo storico ben preciso, la storia ci racconta che gli omicidi seriali e la deviazione nell’uomo esistono dalla notte dei tempi. Nonostante il racconto di Thomas Harris alias “Il Silenzio degli Innocenti” ha contribuito e non poco alla notorietà del pluriomicida. Tuttavia la realtà è un’altra, con “Assetati di Sangue” avrete la conferma di quanto detto, ci sposteremo dagli Stai Uniti all’Europa, dalla Russia all’Australia, dall’Africa al Giappone, in un ordine cronologico ben preciso, partendo dal 1400 ai giorni d’oggi.

Quindi oltra al cliché temporale ne hai abbattuto anche uno geografico, il fenomeno non è limitato agli Stati Uniti ma è diffuso un po’ ovunque, quindi le situazioni ambientali che portano a sviluppare determinati istinti non sono univoche?
Proprio così, è sbagliato pensare che questo fenomeno abbia messo radici solo negli States. Il termine serial killer è stato coniato dall’FBI a inizio anni settanta proprio negli Stati Uniti d’America, tutto vero. Tuttavia questi tristi racconti di spaccato sociale e di disagio sono da sempre teatro di orrore in ogni angolo del mondo. Innata propensione a uccidere, infliggere male, narcisimo, onnipotenza, infanzie turbolente, genitori assenti o violenti, madri autoritarie, hanno contribuito a generare la parte più feroce e perversa dell’essere umano.

Uno degli elementi che mi ha fatto più riflettere è quanto sia sottile il confine tra “loro” e “noi”: soprattutto nei capitoli che trattano i periodi storici più remoti, quindi quelli con impianti legislativi più deboli e una minore coscienza sociale, la popolazione ha reagito in modo altrettanto violento quando si è scoperta l’identità dell’assassino. Secondo te, dentro di noi c’è comunque un animale che oggi viene tenuto a freno solo dalle leggi o dalle convenzioni sociali ma che in assenza di queste  probabilmente lascerebbe esplodere  il proprio lato più sanguinario?
Giusta riflessione. In realtà ho pensato a questo diverse volte e la cosa non ti nascondo che mi suscita ansia. E’ davvero spaventoso, la linea tra pensare e agire è sottile. Quante volte i vicini di casa intervistati dopo un brutale omicidio rispondono “era una brava persona, non avremmo mai pensato che…. “. L’istinto criminale da sempre è dentro di noi, anche se: convenzione sociale, repressione degli impulsi primordiali, crescita culturale, fortunatamente ci ordinano di agire pragmaticamente e allontanare i cattivi pensieri.

In chiusura, ti chiederei di nominare due album, uno tuo e l’altro di una band che a te piace, che potrebbero rappresentare l’ideale colonna sonora del tuo libro…
Non ho assolutamente dubbi. “Crust” dei Sadist è l’album che rappresenta maggiormente: violenza sonora, claustrofobia, soffocamento, quanto all’altra band ti direi gli Slayer di “Divine Intervention”, una colonna sonora perfetta per “Assetati di Sangue”!