Quinto album per i Deluded by Lesbians, power trio meneghino (anche se due terzi della band ha realmente origini baresi) che pubblica la loro ultima fatica discografica, “Umami”, con l’etichetta Bagana/B District. La band, formata da Lara Brixen (batteria e voce), Federica Knox (chitarra, basso e voce) e Lara O’Clock (basso, chitarra e voce), durante la sua carriera ha aperto i concerti per band come Nada Surf, Kyle Gass Band, Monotonix e ha partecipato a festival importanti come l’Home Festival di Treviso nel 2017, Expo 2015 a Milano, Magnolia Parade 2010, Miami 2011, calcando anche palchi internazionali come lo Sziget Festival di Budapest per ben due volte nel 2010 e 2012. Abbiamo intervistato Lara che ci racconta qualcosa in più su quest’ultimo lavoro, appena pubblicato.
Avete un nome “singolare”, da dove deriva il vostro monicker e soprattutto da dove derivate voi come musicisti? Tutto quello che riguarda il nostro magico mondo viene da storie vere e anche il nome della band ha un riscontro nella realtà: tre ragazzi che si innamorano di tre ragazze che purtroppo avevano gusti molto simili ai nostri e quando si trovano a suonare insieme cercano un nome con qualcosa che li accumunava. Le persone vengono da esperienze musicali e di ascolto molto diverse (metal, alternative ed fm rock anni ’90) e questo ci porta a non avere mai un approccio unico nei nostri pezzi e lo riteniamo un po’ il nostro marchio di fabbrica.
Che significato ha il titolo del vostro ultimo lavoro “Umami” e come mai i riferimenti al Giappone? Quando abbiamo scritto “Glutamate”, il nostro secondo singolo e videoclip che ironicamente sfata il mito del glutammato di sodio come pericoloso, siamo entrati nel magico mondo dell’umami. L’umami è proprio il sapore che viene stimolato dal glutammato, è il quinto sapore che può percepire la nostra lingua ed è stato scoperto in Giappone ad inizio ‘900. Questo è il nostro quinto disco, lo riteniamo molto saporito e chiamarlo “Umami” è venuto naturale! E il Giappone rimane sempre un posto molto affascinante. Ma il disco non parla solo di umami, ci sono asinelli (“Rufus”), canzoni che sembrano belle ma la radio le passa fino allo sfinimento (“Out Of My Head”), canzoni contro le cover band dei Queen (“Freddie”), abbronzature improbabili in paesi Baltici (“Suntanning in The Baltics”) lotte sociali per il Wifi libero (“WIFI”, su cui ospitiamo Timo Tolkki degli Stratovarius per un assurdo power solo in una canzone pop punk).
In che formato esce e dove è possibile acquistare il vostro disco? Abbiamo ritenuto che non potessimo non avere un’uscita fisica del disco, ma siamo rimasti legati ai nostri cari vecchi anni 90 e al CD (che al momento è nettamente più semplice da stampare visti i ritardi mondiali che si sono accumulati nella stampa dei vinili). Siamo molto orgogliosi del prodotto finito, abbiamo fatto finta di essere una band giapponese che pubblicava un disco negli Stati Uniti, con un booklet interamente in Giapponese, un secondo booklet in bianco e nero con i testi tradotti in Inglese e l’OBI, la fascetta di cartoncino tipica dei dischi pubblicati nel sol Levante. Il disco è disponibile sulla nostra pagina Bandcamp, ai nostri shows e ovviamente in digitale e streaming su tutte le piattaforme.
I vostri videoclip sono altrettanto particolari, così come il vostro modo di comunicare, ce ne parlate? Abbiamo un approccio molto creativo in tutto quello che facciamo. Pur avendo una “linea editoriale” cerchiamo sempre di non annoiarci e creare qualcosa di nuovo e che faccia divertire soprattutto noi per primi e a volte ci ispiriamo al rock del passato. Per “Glutammate” abbiamo deciso di girare una parodia di “Numb”, un singolo degli U2 del 1993 che il magazine NME ha messo al sedicesimo posto nella classifica dei peggiori video di sempre.
Tour in vista, programmi imminenti? Oltre ad avere una dozzina di pezzi in saccoccia in diversi stadi di completamento su cui lavorare, siamo pronti per promuovere “Umami” in tutta Europa e non vediamo l’ora di calcare i palchi soprattutto dei Festival per farci conoscere da un pubblico che ancora non è salito sul carro dei delusi.
INTERVISTA ORIGINARIAMENTE PUBBLICATA SU “IL QUOTIDIANO DI BARI” IL 29 MARZO 2023
Aggiungere il settimo tassello alla propria discografia, è un traguardo importante per una band. Gli Acid Brains con “Il Caos” (Artist First / (R)esisto) lo tagliano senza particolari problemi, ripresentandosi al proprio pubblico con un lavoro completamente in italiano.
Ciao Stefano (Giambastiani), il settimo sigillo è stato posto sulla vostra discografia, siete soddisfatti del risultato ottenuto? Scongiurata la crisi del settimo disco? Sì, decisamente soddisfatti! Sembrerebbe di sì, crisi scongiurata!
Se non crisi, però “Il Caos” ha portato con sé una serie di novità importanti, in primis il passaggio al lingua italiana per l’intero disco: come mai avete fatto questa scelta così radicale? Perché da anni ci stavo pensando e in molti me lo avevano consigliato. Prima non mi sentivo pronto ma durante il lockdown ho avuto il tempo per mettermi li e provarci e ci sono riuscito.
Dal punto di vista strettamente tecnico, il dover montare un testo in italiano, con evidenti differenze di metrica, vi ha condizionato oppure avete lavorato sempre allo stesso modo? Sicuramente il processo compositivo tra inglese e italiano è diverso. Prima i testi erano una cosa successiva alla musica ed erano molto semplici, ora sono una priorità e richiedono cura e pazienza.
Vi siete affidati a Manuele Fusaroli, produttore di alcuni dei maggiori dischi indie italiani, questa scelta come ha influito sul vostro sound? Noi siamo una band molto spontanea, abbiamo un sound ben delineato da anni e avevamo bisogno di curare i dettagli. Con Fusaroli finalmente l’abbiamo fatto.
Un titolo come “Il Coas” quanto ha che fare con la fase storica in cui viviamo? Moltissimo. L’EP si chiama cosi proprio per questo motivo. Oggi tutti noi viviamo nel caos…
Il primo singolo estratto dal disco è stato “Confucio”, credete che sia il brano più rappresentativo degli Acid Brain del 2022? “Confucio” e “2020” sono i singoli scelti ed entrambi sono perfettamente in linea con ciò che siamo oggi.
Cosa è rimasto intatto, dopo tanti anni, degli Acid Brains del 1997, anno della vostra fondazione? La sincerità e l’urgenza emotiva. Per noi sono due cose fondamentali.
Degli altri tre brani del disco che mi dici? Ogni brano di questo EP è concepito come un singolo e sono tutti collegati e complementari tra loro. Ogni brano è un pezzo del puzzle
Porterete il disco dal vivo? Sì, certamente. Non vediamo l’ora di farlo!
Mariangela Demurtas è la vocalist del super-gruppo gothic Tristania. In questa intervista per Il Raglio del Mulo, ci ha parlato del mondo della musica, dei Tristania e dei suo progetti da solista.
Ciao Mariangela, benvenuta su Il Raglio del Mulo, è un piacere di averti qui. Come è iniziata la tua carriera nel mondo del metal? Ciao, grazie per avermi invitato. Il mio ingresso nel mondo del metal è stata una conseguenza dal fatto che sono stato chiamata da una band quando avevo 23 anni. Una realtà sarda che si chiama Reel Fiction, ho detto di sì, e così sono partita per una nuova avventura.
Cosa significa far parte di una grande band come i Tristania? Hai mai pensato di lasciare tutto e continuare con una vita normale? Coloro che vivono una vita normale sono i più felici! È bello vivere l’esperienza di essere una cantante e mi considero molto fortunata per questo. I Tristania hanno contribuito molto alla mia crescita come artista.
Quali sono i principali problemi che devono affrontare le band all’interno di una scena mondiale ormai satura? Non ritengo che sia un problema, c’è spazio per tutti. Forse potrebbe essere un bene non cercare di imitare le altre band di successo e costruire una propria identità… è un lavoro duro, ma ripaga sempre.
Secondo te, cos’è che non consente la crescita nell’underground? Intendo, come possibilità di poter avere un reddito proveniente dalla propria band e dalla musica che si crea, possibilità di acquistare nuove attrezzature, partecipare a festival rinomati… La musica underground ha meno pubblico della musica mainstream e per di più le etichette e le piattaforme continuano a rubare dagli artisti e ad abusarne. Questo spero che possa cambiare…
Internet oggi con le piattaforme di musica digitale, secondo te, è una benedizione o una maledizione? Internet fa bene alla promozione, ma come ho detto, il fatto che le persone paghino le piattaforme invece dell’artista, ci sta uccidendo.
Mariangela, oltre a Tristania quanto materiale hai registrato e quali altri progetti hai ? Oh, ne ho avuti molti e spero di averne ancora in arrivo. Non posso davvero contarli tutti, ma il mio progetto solista è attivo e “Dark Ability”, il mio nuovo EP è uscito a febbraio. Sta arrivando anche un nuovo album dell’altra mia band, gli Ardous…
Stante la tua esperienza, una band emergente, qualunque sia lo stile del metal, può avere successo solo se ha una grande casa discografica alle spalle o, al contrario, c’è più libertà di poter far conoscere la propria musica senza dipendere da un’etichetta? Al giorno d’oggi possiamo contare sul supporto delle persone e non abbiamo molto bisogno di un’etichetta per creare musica. Ma quando si tratta di tour e festival, credo che devi avere dei santi però…
Cosa pensi debba cambiare urgentemente nell’industria musicale? Il modo in cui un artista viene trattato e maltrattato. Se non abbiamo il controllo sulle nostre vendite, sul nostro lavoro e sulla nostra identità, finiamo tutti fottuti…. triste ma vero.
Cosa spinge Mariangela a fare metal? Quale passione ti lega all’arte del metal? Non faccio solo metal, ho la passione per ogni tipo di musica e il metal è solo una di esse. Infatti, la mia musica da solista non è metal.
Qual è uno dei sogni che hai e che non sei ancora riuscita a realizzare ma per il quale in questo momento stai lavorando duramente per la sua realizzazione? Mi piacerebbe provare a vivere nel Nord America per un po’ di tempo o studiare qualcos’altro oltre alla musica o alle lingue, forse un giorno ce la farò…
Ospite su Overthewall Luka, leader e fondatore degli Shake Me. Benvenuto!
Il progetto Shake Me nasce come hard rock band nel 2009. Ci parli dell’idea iniziale della band e quali trasformazioni ha subito nel corso di questi anni? Ciao Mirella, è un piacere essere nella tua rubrica Overthewall. Shake Me è nato per caso, era un’estate del 2009 e ricordo come se fosse oggi che stavo ascoltando con piglio quasi annoiato un pezzo dei Savage Garden; esatto quei Savage Garden; i due fighetti australiani di “Truly Madly Deeply”, il pezzo che girava era “Break Me Shake Me”, mi ritrovo a canticchiarlo per tutto il pomeriggio e in parte anche a zompettarlo per casa, dopo poco prendo un foglio A4 e inizio a scarabocchiare un logo con la scritta Shake Me, non sapevo come potesse suonare ma avevo bisogno di un logo vincente e da vecchio appassionato di cartoons anni 80 e di Lamù in particolare, ebbi l’idea della bambolina formosetta creata dal grafico di quegli anni. La sera, telefono al chitarrista partenopeo Joe Nocerino (che qualche anno dopo entra a far parte del progetto “Il Nero” di Gianluigi Cavallo ex voce dei Litfiba! n.d.a.) con il quale avevo iniziato a collaborare pochi mesi prima, comunicandogli che il vecchio progetto era morto e che il nuovo corso sarebbe stato decisamente rock ‘n roll senza fronzoli e volutamente cantato in italiano. Eravamo entrambi gasati per il ritorno sulle scene dei Litfiba con Pelù alla voce e quindi nel giro di pochissimi mesi entrammo in studio per l’esordio de “L’inquietudine”, un disco di robusto rock italiano. Con il passare degli anni sono stato sempre più un uomo solo al comando, con tutti i pro e contro del caso. I pro sono e saranno sempre che il progetto Shake Me morirà solo quando io ne avrò voglia senza rotture di scatole che troppe volte fanno crollare le band. I contro sono soprattutto economici in quanto sono io a metter fuori la grana per ogni singola operazione oltre a non poter condividere con nessuno preoccupazioni e frustrazioni di sorta. Non essendo Vasco o Liga, ti assicuro che essere un solista è dura, fino a quando avrò la forza combatterò senza nessun problema.
Il progetto vanta la collaborazione di grandi musicisti italiani quali Ricky Portera, Alex De Rosso, James Castellano, giusto per citarne qualcuno. E’ stata un’impresa coinvolgere tutti questi grossi nomi ? Il tutto è nato oltre quattro anni fa, volevo dare una sterzata importante al progetto perché vivevo una situazione di stallo e amarezza in quanto la band con la quale stavo scrivendo i pezzi nuovi era andata in malora, per mia scelta aggiungo. Avevo la certezza che suonassi con quei ragazzi perché non riuscivo a trovare di meglio. Quindi tutti a casa e in un momento di coraggio e follia tramite una mia carissima amica entro in contatto con Ricky Portera. La prima volta ci incontrammo a Salerno e fui colpito dalla sua gentilezza oserei dire disarmante. Lo guardavo e pensavo alle hit che aveva scritto con gli Stadio; ancora adesso se ci ripenso mi emoziono. Vivo di emozioni Mirella; mi nutro anche di piccoli dettagli che poi porto per sempre con me. L’appetito vien mangiando e lo stesso feci con Giacomo. Ricordo che lo tempestai di email in una mattinata e alla fine mi diede il suo numero di telefono. Ora posso dirlo ridendoci su, ma non fui esattamente a mio agio a telefono anche se cercai in tutti i modi di essere disinvolto. Tu sei il signor nessuno di Salerno e lui invece si divide i palchi con Pelù, Elisa, Nannini, Raf ecc, capirai che sono cose che un tantino mettono agitazione. Non ne avevo abbastanza e contattai poi il mitico Alex de Rosso. La cosa che racconto spesso ai miei amici è che la prima telefonata che ebbi con Alex durò quasi mezz’ora, probabilmente percepii una persona estremamente empatica che mi lasciai andare e parlammo tanto. Alex è una persona davvero speciale anche lui dotato dell’umiltà che solo i veri grandi posseggono. Consentimi di citare fra i nomi più quotati anche Mark Basile, grande voce dei DGM ma anche eccellente tastierista e arrangiatore. Con Mark ci si conosce da tanti anni anche se poi la prima volta che ci si è conosciuti di persona è stata in occasione di un festival che organizzo a Salerno, il “Rock in Flames” dove i DGM erano gli headliner. Già in quell’occasione capii che con Mark c’era poco da scherzare. Persona davvero affabile ma estremamente professionale. Dalle nostre parti diciamo “due parole sono troppe e una è poca”!
“Lullaby For Demons” è un disco che parla dell’universo femminile; cosa ti ha spinto a scegliere questa tematica? A istinto e in maniera alquanto superficiale ti direi perché adoro le donne; sia in termini estremamente passionali che dal punto di vista del rispetto che ho verso la figura femminile. E’ un lavoro che riesce a ruotare intorno all’essenza femminile traendo spunto da fatti di cronaca nera, di scandali sessuali, disagi esistenziali o perché no il semplice tributo ad un film. Trova spazio naturalmente anche il “semplice” e delicato romanticismo che deve essere sempre un comodo rifugio per ogni ascoltatore che si approccia a delle ballad.
Credi che le donne abbiano realmente conquistato la tanto combattuta parità dei diritti o siano sempre e comunque oggettivizzate dalla società ? Domanda molto interessante che solo una donna poteva farmi e della quale ti ringrazio naturalmente. Ti spiazzerà ciò che sto per dirti ma credo che la donna da qualche anno si sia accorta consapevolmente dell’avere tante frecce al proprio arco. La donna ormai è in pianta stabile in ruoli della società che erano ad appannaggio solo degli uomini; in politica ad esempio il ruggito femminile è forte e imponente; magari io non spingerei troppo il piede su questa storia della parità, in quanto è diritto di una donna poter aspirare a ruoli decisamente maschili, ma ti sono sincero, quando vedo soldatesse in giro per strada dalla fisicità tutt’altro che imponente allora mi chiedo perché: perché la donna deve per forza perdere la propria femminilità pur di competere con il maschio. Mi accennavi al pericolo dell’oggettivizzare ancora le donne. Faccio l’avvocato del diavolo rispondendoti che per me la donna come già ti ho anticipato, ha raggiunto una forza mentale tale da manipolare anche il più astuto dei maschietti. Ecco perché poi entra in gioco la brutale vigliaccheria maschile, espressa in atti di violenza sicuramente superiori agli anni in cui la donna era confinata ai margini della società, ergo inoffensiva. Lasciandoti con una battuta posso affermare che le donne in tailleur sono estremamente seducenti soprattutto quando poi riescono a rapirti con il cervello.
“Lullaby For Demons” E’ stato pubblicato il 29 Ottobre, sono previsti live per promuovere la nuova uscita? Questo è il tasto dolentissimo della faccenda. Cercherò di fartela breve anche perché non amo parlare delle cose che mi mettono stress emotivo. La faccenda è molto semplice, Mirella. Se non sei con un’agenzia di booking e metti fuori un bel po’ di grana non riuscirai mai a entrare in un giro di eventi di un certo tipo. Molti ci provano anche senza soldi ostentando conoscenze e amicizie con musicisti e promoter, che poi alla fine portano a poco. Io non sono contro il pay to play per intenderci; il problema è che le agenzie anno per anno stanno diventando sempre più mercenarie, divorando i sogni di tante giovani realtà che credono di poter calcare palchi importanti. Anch’io ho un’agenzia ma tendo sempre a mettere le cose in chiaro fin da subito. La promozione la farò in tutti i modi possibili, visto il mio progetto estremamente versatile, sarà fatto in qualsiasi modo, set acustici, ospitate in qualsiasi tipo di evento; è un progetto che musicalmente può essere aperto a più strade e devo essere soprattutto paziente e bravo a sfruttarle quando capiteranno, considerando che questo maledetto covid tenderà ancora a influenzare il tutto.
Ti ringrazio di essere stato con noi, ti lascio l’ultima parola! Mi limito a ringraziare ancora una volta te per lo spazio concessomi ed eviterei di fare la lista dei ringraziamenti che fa molto radio partenopea che trasmette i cantanti neomelodici. Seguite la paginetta Shake Me per restare in contatto e scambiare opinioni sul disco o sulla musica in generale, elemento cardine nel costruire buoni rapporti sociali.
Ascolta qui l’audio completo dell’intervista andata in onda il giorno 6 Dicembre 2021
Nati dalle ceneri dei Lush Rimbaud, per volontà di tre musicisti attivi già con altre realtà underground marchigiane (Jesus Franco and the Drogas, NewLaserMen, Beurk!), gli Heat Fandango hanno da poco rilasciato l’entusiasmante esordio “Reboot System” (Peyote Press). Un interessante miscuglio di influenze disparate che si rifanno a The Fall, Gallon Drunk, Suicide, Lydia Lunch, Soft Boys e Thee Oh Sees. Ne abbiamo parlato con Marco Giaccani (basso/tastierista/farfisa).
Ciao Marco, “Reboot System” è un titolo strano per un esordio, dà quasi la sensazione che ci sia dietro la volontà di voler cancellare il passato e iniziare da zero. Dato che siete una band di recente formazione, qual è quel passato dal quale volete distaccarvi? In realtà, nessuno scheletro nell’armadio, l’idea è piuttosto quella di ripartire da zero di fronte all’evidente fallimento di molti parametri della nostra società. Lo sviluppo inteso come produzione forsennata, il consumo di risorse senza regole. Riavviare il sistema è l’ultima cosa rimasta da fare quando le hai provate tutte ma continua a non funzionare.
Da dove siete partiti? Avevate già del materiale proveniente dalle vostre esperienze passate oppure tutto è stato scritto per gli Heat Fandango? Noi tre (Tommaso, Marco, Michele) ci conosciamo da oltre vent’anni, e suoniamo insieme da sempre. Messa in pausa l’esperienza con i Lush Rimbaud, a fine 2018 abbiamo deciso di ripartire con questo progetto e a dicembre 2019 avevamo esordito dal vivo, avevamo una decina di pezzi, ed eravamo pronti per registrare. Poi è arrivato il covid.
Il disco è stato registrato a distanza durante i vari blocchi dello scorso anno, ma era stato già pianificato – magari con un’incisione più tradizionale – oppure l’esigenza di fare qualcosa è nata durante il lockdown? Era pianificato, ma avremmo dovuto registrare in presa diretta e invece ci siamo ritrovati in mezzo alla pandemia senza poter uscire di casa. Quasi per gioco Tommy ha registrato con la sua scheda audio un pezzo chitarra e voce e ce l’ha mandato per avere un feedback. Ci abbiamo messo sopra farfisa e drum machine e il risultato ci è piaciuto, e ci siamo detti “perché non rifare con la stessa modalità tutti i pezzi”? E così abbiamo fatto. Poi Filippo Strang del VDSS Studio di Frosinone ha fatto mix e master, Salvatore Liberti le grafiche e Bloody Sound e Araghost ci hanno permesso di pubblicare il disco, mentre Peyote press sta facendo promozione.
Le immagini promozionali del disco, almeno le due in mio possesso, vi ritraggono all’interno di un’abitazione, una in particolare in quella che sembra una soffitta. Non se sia stata una scelta conscia o inconscia la vostra, ma pare quasi che vogliate rafforzare l’idea di un album nato in casa durante il lockdown… Quello è il nostro quartier generale, il luogo da cui è iniziato tutto. Rappresenta le nostre origini, ed è da lì che vogliamo ripartire.
Passato è un termine che sta tornando spesso nelle mie domande, ma devo tirarlo fuori anche ora, il vostro sound è una mistura di sound del passato, dal garage rock al punk passando per la psichdelia, eppure il risultato è fresco e per nulla banale: come ci siete risusciti? Grazie, questo suona come un complimento! A parte gli scherzi, hai centrato il punto. Volevamo fare qualcosa di originale partendo dalle nostre radici, il blues malato, la psichedelia, la new wave. Siamo cresciuti con questa musica, fa parte di noi.
Chi ha avuto l’idea di utilizzare una farfisa? Io, in realtà sono un bassista, ma per caso, girando per un mercatino dell’usato, ho visto una farfisa Vip233 con il suo ampli, sempre farfisa. Parliamo di roba di fine anni 60, non sapevo neanche se funzionasse, così il negoziante mi ha proposto di prenderla e provarla, se non funzionava la potevo riportare entro tre giorni e mi avrebbe restituito i soldi. Non mi ha più rivisto.
Che storie avete raccontato dietro i testi? Sono pezzi di vita di tutti i giorni, sogni, riflessioni. Raccontano le impressioni, i desideri e le emozioni di vivere la vita, cosa che a volte sembra scontata, ma che è un’avventura continua.
Mentre, quale storia si cela dietro la copertina del disco? Sono foto di viaggio di Salvatore Liberti, l’autore delle grafiche. Sono frammenti di quello che resta del mondo sovietico, scattate tra Armenia e Georgia. Sono davvero belle, struggenti e melanconiche, ma allo stesso tempo potenti. Milioni di storie e di vite sono state vissute in quei luoghi, e ora sono deserti e abbandonati.
Dal punto di vista live si sta muovendo qualcosa? Per ora possiamo dire che il 16 ottobre presenteremo il disco al Dong di Macerata. Per il resto ci stiamo muovendo, tutto il settore è reduce da anni duri, ma spero di sì.
Il Teatro Barium di Bari stasera (29.09.2021) alle ore 18 ospiterà un chitarrista rock d’eccezione di fama internazionale: Stef Burns. Conosciamo meglio il rocker statunitense attraverso la seguente intervista.
Ciao Stef, ricordiamo innanzitutto che tu hai suonato con tantissimi artisti prestigiosissimi, si ricordano spesso Alice Cooper, Vasco Rossi, Steve Vai, Huey Lewis & the News e molti altri, qual è il ricordo più bello che più ti lega a questi grandissimi nomi e la differenza del modo di lavorare con una band anziché un’altra? Tutti gli artisti con cui ho suonato mi hanno regalato tante belle cose. Sono stato cosi bene con Alice con Huey, Peppino D’Agostino, ed altri ma soprattutto con Vasco… La più grande esperienza musicale che abbia mai vissuto. Tutti i dischi che ho registrato con lui, poi i concerti a San Siro, Modena Park, Imola, Catanzaro e tanti altri.
In particolare il concerto di Modena Park sarà stato qualcosa di incredibile a livello emozionale, che ricordi hai di quella sera? Very very strong! È stato come un sogno suonare davanti a 230.000 persone! Concentrandomi sulle mani in maniera tale di non sbagliare.
C’è qualcuno con cui invece “sogneresti” di suonare? Paul McCartney… per poter suonare i pezzi dei Beatles con lui.
Sei un chitarrista tra i più acclamati al mondo e molto seguito, cosa consiglieresti a un ragazzino che vuole iniziare a suonare lo strumento? Di seguire la sua passione, un suo stile, suonare tanto, suonare davanti alla gente, e con musicisti diversi. Di studiare altri strumenti per l’ispirazione come voce, sax e piano.
Spesso si dice che il “rock è morto”, che differenza vedi suonando per il mondo oggi rispetto a 20/30 anni fa? C’è realmente meno interesse per il genere o sono “solo parole”? Sono solo parole a mio parere. Il rock non morirà mai!
Parliamo finalmente della tua carriera solista, che progetti ci sono in cantiere, lo scorso luglio era uscito un singolo, vero? A novembre il mio gruppo, Stef Burns League, andremo in tour per un secondo giro in Italia quest’anno! Lo scorso luglio è uscito il singolo “Bringing It On” che si trova sulle varie piattaforme digitali. È sempre la cosa più importante e più bella per me suonare i nostri pezzi insieme a Juan e Paola!
Parlando della clinic che terrai a Bari domani, su cosa verterà esattamente? Cosa deve aspettarsi chi verrà a vederti? Suonerò pezzi dei miei album, “Swamp Tea” e “World Universe Infinity”, più qualche sorpresa. Spiegherò come uso la Stratocaster e come faccio tante cose con la chitarra e parlerò anche dell’ispirazione per comporre ed improvvisare. Risponderò alle domande del pubblico e ci divertiremo tanto!
Non resta altro stasera che recarsi al Teatro Barium di Bari, in via P. Colletta 6/6 alle ore 18. Il costo di ingresso è di € 30,00. Per qualsiasi ulteriore informazione, per prenotare il proprio posto e per conoscere maggiori dettagli sull’evento, sono reperibili sulla pagina dell’evento Facebook A lezione da Stef Burns. Evento consigliato da Wanted Record, Bari.
INTERVISTA ORIGINARIAMENTE PUBBLICATA SUL QUOTIDIANO “IL QUOTIDIANO DI BARI” IL 29 SETTEMBRE 2021
Il nostro cammino nel panorama musicale italiano a caccia di realtà interessanti ci ha fatto incrociare una creatura a tre teste dal nome, Belvas, che di per sé è una sorta di “manifesto programmatico”. Grazie alla Metaversus di Marco Gargiulo abbiamo potuto contattare il gruppo per parlare dell’album d’esordio “Roccen”.
Ciao ragazzi, come e quando nasce la band? La band nasce nel 2018 dalle menti di Claudio Palo alla batteria (membro fondatore dei Manetti! ed ex membro dei Milaus) e Mirco Lamperti al basso, che hanno posto le fondamenta con gli embrioni di basso e batteria di cinque brani (“Belvas”, “Bianco”, “Pink Boy”, “Spaziale”, “AnDn”), finalizzati nel 2019 con testi, linee vocali e di chitarra con l’ingresso di Paolo Rosato alla chitarra elettrica e Manuel Dall’Oca alla voce e successivamente basso e chitarra acustica.
Il moniker Belvas è arrivato da subito oppure col tempo? Ve lo chiedo perché dall’ascolto della vostra musica pare che il nome sia quasi un manifesto programmatico… Belvas deriva da Belva, appellativo attribuito al batterista per il suo carattere irruente e per il suo modo di suonare, diventato poi nostro punto di forza.
Un elemento che salta subito all’occhio a chi ha il vostro CD di esordio, “Roccen”, in mano è il disordine che regna sovrano. Tra scarabocchi e scritte varie, quasi si resta storditi. Quanto è importante per voi disordine in fase compositiva? Il disordine in copertina e nelle grafiche del disco è solo apparente, bisogna farci l’occhio per poterlo apprezzare appieno e cogliere l’importanza che diamo ad ogni dettaglio. Non c’è disordine nel nostro modo di creare, sia nella composizione dei brani che nella preparazione delle grafiche.
I brani paiono mettere in evidenza una doppia anima, una più rude e una più delicata. Come riuscite a bilanciare questi elementi nella vostra musica senza che uno prenda il sopravvento sull’altro? Il bilanciamento tra indole rude e delicata non è studiato ma è il nostro modo di essere. Questa è una delle caratteristiche che ci rispecchia maggiormente e la si può sentire in modo evidente in “Piacere E’ Dolore”, secondo noi il brano che racchiude perfettamente queste due anime contrastanti.
“Roccen”, contiene 15 brani per più di un’ora di musica, quasi una rarità oggi un disco così lungo. I pezzi sono stati composti appositamente per l’esordio o avevate alcuni di loro chiusi nel cassetto da tempo, magari per un altro progetto? L’album “Roccen” è una raccolta di 15 brani scritti per l’esordio. La lunghezza è voluta, è il nostro modo di ribellarci a una società dove tutto scorre a mille orari ma si ha bisogno di più aria, dove il tempo è solo denaro.
In un periodo in cui l’ascolto, e di conseguenza l’attenzione, del pubblico va sempre più verso il singolo, tirar fuori un disco così lungo può essere un rischio? Sicuramente è un rischio e ne siamo consapevoli, ma noi siamo amanti della cultura musicale vecchio stampo.
In generale quanto vi riconoscete nella scena musicale odierna? Dall’ascolto di “Roccen” parete più proiettati sul passato, sui 90 e anche più indietro… Rispetto alla scena musicale odierna facciamo parte della minoranza, con un background musicale che arriva dagli anni 90 e anche più indietro, ma restiamo comunque proiettati verso il futuro!
Un’altra impressione che ho ricavato dall’ascolto e che forse lo vostro musica sta un po’ stretta tra i solchi di un disco, pare quasi fatto esclusivamente per essere suonata dal vivo: siete riusciti a testare i brani su un palco tra un lockdown e l’altro? Qual è stata la versione del pubblico? Bella domanda! L’album è stato registrato volutamente in presa diretta, per avere un suono il più possibile fedele a quello che è un nostro live. Purtroppo stiamo iniziando solo ora a programmare qualche data dal vivo causa Covid ma la reazione del pubblico nelle poche esibizioni che abbiamo fatto finora è stata positiva.
Ora che la belva è fuori, qual è il suo prossimo passo? È tutto, grazie. Siamo al lavoro sul secondo disco, ma stiamo puntando a portare finalmente in giro “Roccen” che, come una belva in catene da troppo tempo, ha bisogno di uscire.
Daniele Mammarella, chitarrista dal talento riconosciuto a livello internazionale, da qualche giorno ha pubblicato per la Music Force Records il suo secondo album, “Moonshine”. Lo abbiamo contattato per saperne di più…
Ciao Daniele, complimenti per il tuo nuovo album “Moonshine”. Le emozioni che provi per questo secondo disco sono le stesse dell’esordio oppure hai acquistato una consapevolezza maggiore dei tuoi mezzi in questo biennio? Ciao Giuseppe, ti dico, pubblicare un disco è sempre una grande emozione, è esattamente come la nascita di un secondo figlio! Ovviamente per “Past, Present and Let’s Hope” c’è stata, oltre che l’emozione, anche la novità nel fare un’esperienza nuova, di conseguenza ho vissuto le due diverse uscite con vedute diverse, “PPLH” è stato diciamo il mio biglietto da visita, mentre “Moonshine” ha un obiettivo ben più ampio!
I tredici brani come sono nati? Qualcosa proviene dalle session del precedente “Past, Present and Let’s Hope”? La maggior parte dei brani che scrivo nascono così, senza pensarci troppo, li suono e basta, ovviamente con le dovute e giuste ritoccatine. Molti invece escono fuori dall’esigenza anche di creare dei contenuti per il mio format che ho chiamato “Musica Panoramica”, dove mi arrampico per le montagne o attraverso fiumi per riprendere gli scenari più belli della natura per suonarci sopra. Beh sai, non potevo riproporre sempre gli stessi 10 brani del primo disco per un anno e mezzo, di conseguenza prima di partire per il luogo dove avrei fatto il video, scrivevo una melodia al volo per poi farlo diventare un piccolo brano fingerstyle. Ti faccio un esempio, la prima traccia di “Moonshine” si intitola “Shadow Blues”, questo brano è nato appunto perché mi serviva un’idea nuova per un video, il problema è che quando andai a registrare, il cielo si era coperto di nuvole e gli alberi ricoprivano d’ombra tutta la vista… una volta tornato a casa, guardando la ripresa, notai che non si vedeva niente per la troppa oscurità, però dai il pezzo mi piaceva e così è nato “Shadow Blues”. Per quanto riguarda l’ultima domanda, sì, alcuni brani sono stati scritti praticamente nei giorni seguenti all’uscita del primo disco come la title track “Moonshine”, “In the Sky” e “D-Train”.
Sei passato da una copertina in cui sei raffigurato in un’immagine in peno giorno ad una in cui invece sei immerso nella notte. A questo diverso approccio iconografico ne corrisponde anche uno musicale? In realtà no, questo cambio deriva dal fatto che all’ultimo momento decisi di cambiare il titolo dell’album in “Moonshine”, così chiamai il mio amico Samuele Bucci (esperto in fotografia paesaggistica) e decidemmo di fare la foto presso il “Lago Racollo” (Gran Sasso) alle 23.30 con -6° di temperatura, che esperienza traumatica… eppure me l’avevano detto di non vestirmi con giacchetta e jeans ahahhahah!
A 24 anni hai due dischi solisti fuori e ti sei tolto diverse soddisfazioni live e in studio, ma come è nata la passione per la chitarra? Beh in realtà ho sempre due storie da raccontare… La prima si rifà a quando avevo 7 anni e per “fare il figo” con un’amichetta delle elementari che stava prendendo lezioni di musica, presi la chitarra e iniziai a suonare delle cose a caso, da lì poi iniziai a prendere lezioni. La seconda storia invece dovrebbe essere quella ufficiale… Vivo in una famiglia molto grande con tanti cugini e zii, mio nonno era appassionato di musica tradizionale abruzzese e decise di riportare a casa per noi bambini, una chitarra e una fisarmonica. Poco tempo dopo mio nonno ebbe una brutta malattia, da lì, un po’ per mio nonno, ma anche un po’ per me, decisi di iniziare a suonare.
Nel 2016 ti sei diplomato al Guitar College di Londra. Per chi volesse compiere un cammino simile al tuo, qual è l’iter per entrare nella prestigiosa scuola albionica? Io mi sono diplomatico al Trinity College tramite la scuola dove adesso sono insegnante di chitarra fingerstyle, sto parlando dell’Apm di Benedetto Conte. Ci sono varie scuole che hanno il permesso di rilasciare questi attestati. Prima si individua il livello del partecipante, dopodiché si intraprende un percorso di studi adibito a quel livello fino a che non si arriva all’esame finale con la direttrice che viene direttamente da Londra per esaminarti.
Un anno fa hai vinto il concorso “The Star of Magic” come miglior chitarrista fingerstyle: quando e perché hai iniziato ad approfondire questa tecnica chitarristica? Sono sempre stato un appassionato della chitarra Fingerstyle, scoprii questo mondo all’età di 9 anni grazie al mio vecchio maestro. Ricordo che mi faceva imparare, a quell’età, brani del leggendario Tommy Emmanuel e fidati, a 9 anni non era proprio una passeggiata ahahah. Una cosa molto bella è che sin da allora mi spronava a scrivere i miei primi brani, infatti molti pezzi sono nati all’età di 13 anni, come per esempio “Danny’s Blues”. Mano a mano che avanzavo con l’età mi rendevo sempre più conto che questa sarebbe stata la mia strada, di conseguenza intrapresi anche piccoli studi personali per perfezionare la “mia” tecnica.
Il tuo pubblico è composto prettamente da amanti della tecnica chitarristica oppure è di più largo respiro? Direi molto di più la seconda! Uno dei miei più grandi obiettivi è sempre stato quello di portare il fingerstyle dove non c’è ma soprattutto renderlo un genere, anche dal punto di vista concertistico, molto più popular! Ho sempre cercato di trasmettere le stesse emozioni di una band sul palco ma solo con la chitarra. Quindi si, la seconda!
Hai già programmato delle date a supporto di “Moonshine” o stai aspettando che la situazione sanitaria sia ben tranquillizzante? Sì sì! Ho già delle date programmate, la prima è stata il 17 giugno presso lo stadio del mare di Pescara, seguiranno poi (per adesso), altri 15 concerti fino a settembre! La prossima è l’11 luglio “Concerti all’alba” presso la Torre di Cerrano di Pineto (Te). Poi pubblicherò l’intero calendario
Da insegnate e da amante della chitarra, che consiglio daresti a chi si approccia oggi allo strumento? Studiate, appassionatevi e credeteci. Ne vedo tanti che si arrendono perché “non ci riesco” e non c’è cosa più sbagliata!
Ospite di Mirella Catena ad Overthewall, Ago Tambone autore dell’album “Libera”
Ciao Ago e benvenuto su Overthewall, tu hai iniziato ad interessarti di musica già da giovanissimo con pianoforte e tastiere ma ad un certo punto molli le tastiere per la chitarra. Ci racconti com’è avvenuto questo cambiamento? E’ stato abbastanza semplice: l’approccio alle tastiere è avvenuto naturalmente, intorno ai cinque o sei anni, con le prime tastierine elettroniche, un po’ per gioco. Crescendo, ho “curiosato” più seriamente, studiando pianoforte classico e tastiere per due anni circa; però qualche tempo dopo, la curiosità si è spostata sulla chitarra (strumento che strimpellava mio padre, per accompagnarsi quando cantava). E così c’è stato un vero e proprio innamoramento per questo strumento, che mi ha spinto a studiare ed approfondire i suoni e le tecniche relative. Studio che naturalmente, si è esteso al basso e saltuariamente al mandolino… non tralasciando, ovviamente le tastiere.
Ci sono stati dei chitarristi storici a cui ti sei inizialmente ispirato? Non essendo io un chitarrista di formazione classica, ho avuto dei riferimenti chitarristici in artisti moderni, anche se amo il mondo della chitarra classica. Quindi nella mia formazione chitarristica, ci sono stati chitarristi – giusto per citarne alcuni – come Eric Clapton, Carlos Santana, Richie Blackmore, David Gilmour, Mark Knopfler, Pat Metheney, Van Halen, Yngwie Malmsteen, Kee Marcello, Richie Sambora, Gary Moore, George Benson… anche Chuck Berry! Ognuno di questi artisti, ha rappresentato un riferimento molto importante per me, tanto dal punto di vista tecnico, quanto e soprattutto, dal punto di vista compositivo.
Durante la tua carriera hai collaborato con diverse realtà musicali. Quali progetti musicali ti hanno coinvolto maggiormente? Nel mio percorso artistico, ho avuto la possibilità di collaborare con diversi musicisti, di varie estrazioni. Questo aspetto è fondamentale per un musicista, poiché può imparare tanto da tanti generi differenti, oltre ad imparare come instaurare un buon rapporto umano e professionale con i propri colleghi. Devo dire che le collaborazioni che hanno lasciato il segno, sono quelle con i One Way Ticket nel 2004/2005, band rock barese capitanata da Morris Maremonti; nel 2009, c’è stata una bella parentesi in studio, per delle registrazioni di alcune parti di chitarra, con i Poeti del Quartiere, formazione rap barese, tuttora attiva. Vi consiglio di ascoltare i loro lavori; dal 2009 al 2012 invece, sono stato chitarrista e bassista per i Revo’, una formazione pop-rock italiana emergente, fondata insieme al cantautore Francesco Cacciapaglia. Una menzione a parte, merita una collaborazione del 2011 con Giuseppe Cionfoli, per la pubblicazione di un brano dedicato a Sarah Scazzi, appena quindicenne, che come tutti ricorderanno, perse la vita nel delitto di Avetrana, un caso che ebbe un enorme rilievo mediatico. Il brano, intitolato “Sarah”, nacque da un’idea di Giuseppe Cionfoli; naturalmente, io accettai subito, prendendo parte alla composizione e alle registrazioni. E’ stato un atto di umanità, che dovrebbe farci riflettere.
Ad un certo punto inizi il tuo percorso da solista. Nel disco che presentiamo oggi, che ha come titolo “Libera”, suoni praticamente tutti gli strumenti, ed è stato mixato e masterizzato da te nel tuo studio di registrazione. Un lavoro oserei dire intimo e personale che racchiude sensazioni ed esperienze da te vissute. Ci parli di questo disco? “Libera” nasce da mie esperienze e riflessioni, sulla quotidianità degli eventi della nostra vita. Già il titolo, vuole essere un’esortazione a sentirsi liberi di vivere la vita come si vuole e di fare le proprie scelte, senza essere vincolati da fenomeni di massa (“Libera”) Naturalmente, senza intaccare la libertà altrui. Il disco tratta anche di argomenti come l’indifferenza tra gli esseri umani, che ormai non è più un fenomeno isolato, dato che la gente si distacca sempre più dalla natura umana. Questo atteggiamento lo si vive soprattutto nelle grandi città per via della vita caotica e lo stress che tendiamo ad accumulare (“Indifferenti”). Di conseguenza, è nata la necessità di scrivere anche un brano sulla incomunicabilità tra la gente (“Una Sensazione”). Figurano altri brani che invece spaziano tra vari argomenti: Voglio spronare l’ascoltatore, a credere sempre nei propri desideri e a non mollare facilmente, poiché con la tenacia, spesso si raggiungono i risultati sperati (“Credici”); in effetti questa esortazione, si ispira a una parentesi autobiografica. O ancora, il bello del senso di libertà e di pace interiore che può dare il viaggiare per il mondo, in cosciente solitudine (“I Live On My Own”). Non è un aspetto da sottovalutare, direi… Nel percorso di “Libera”, ho voluto rendere omaggio a mio modo, a tutte le vittime degli attacchi dell’11 settembre 2001. Era un forte desiderio che ho provato praticamente dal momento che ho visto, così come tutto il mondo, le terribili immagini in televisione. Soprattutto, quello che mi ha colpito maggiormente, è stato vedere la gente che si lanciava nel vuoto. Mi è sembrato un modo per onorare in qualche modo, tutte le persone che hanno perso la vita, innocentemente (“The Falling Ones”). Non cito gli altri brani, per non svelare tutto l’album… che tra gli altri, contiene anche tre cover di brani molto famosi, ai quali sono legato. Il disco mi ha visto impegnato come autore dei testi, non tutti, per la verità, compositore e arrangiatore. Ho suonato tutti gli strumenti, ad accezione del pianoforte su “The Falling Ones”; ho curato tutta la parte delle riprese audio, editing, missaggio e mastering. Insomma, ho avuto un gran da fare! La soddisfazione maggiore, è stata aver avuto accanto, durante la lavorazione di buona parte del disco, altri artisti che hanno fatto la differenza. A loro sono molto grato.
“Libera” è stato pubblicato nel 2020, quando in realtà liberi non eravamo affatto a causa della pandemia. E’ stata una scelta casuale o voluta? In effetti “Libera” è stato pubblicato verso la fine di gennaio 2020, il che fa intuire che era già pronto da fine 2019. Non c’è stato nessun riferimento alla pandemia, che ci ha privati di diverse libertà; anche perché l’opinione pubblica, è venuta realmente a conoscenza della gravità della situazione sanitaria mondiale un mese più tardi, con tutte le conseguenze che conosciamo bene. Però, direi che per estensione del concetto di libertà, accosterei il messaggio del mio disco alla forte necessità di tornare a vivere normalmente, nel più breve tempo possibile, come tutti auspichiamo!
C’è un brano del disco a cui sei particolarmente legato? Sono legato, ovviamente, a tutti i brani. Se però parliamo di un legame particolarmente forte, direi che c’è un posto speciale per “Credici” (data l’ispirazione autobiografica) e “The Falling Ones”, per le ragione già citate.
Nel disco collaborano alcuni musicisti. Ne vogliamo citare qualcuno? Al disco, hanno preso parte: Antonio Gridi, cantautore che ha scritto i testi e cantato in “Indifferenti” e “Renditi Libero” e ha preso parte ai cori di “I Live On My Own”; Monica Cimmarusti, cantautrice che ha cantato in “Indifferenti” e “Wrapped Around Your Finger” e ha preso parte ai cori in “I Live On My Own”; Massimiliano Morreale, cantautore e polistrumentista che ha cantato in “Comfortably Numb”; Francesco Cacciapaglia, cantautore e musicista che ha scritto il testo di “Cristalli Gelidi”; Pasqualino de Bari, cantautore e tastierista che ha scritto il testo di “I Live On My Own” ; Gianvito Liotine, pianista e tastierista che ha suonato il pianoforte in “The Falling Ones”. Detto ciò, abbiamo svelato anche due delle tre cover!. Vanessa Bisceglie per la fotografia; Andrea Tarquilio per la Cover-Artwork. A tutti loro, sono molto grato.
Restrizioni permettendo, sono previsti dei live per promuovere il disco? Al momento, non è previsto nessun live, poiché sto lavorando all’ultima fase del mio nuovo disco, che per ora è pubblicato solo online, su varie piattaforme musicali. Magari, quando si tornerà alla normalità, riprenderò con i concerti… che ci mancano tanto!
Puoi dare delle indicazioni ai nostri ascoltatori per seguirti sul web? Per chi fosse interessato all’ascolto e/o all’acquisto, i miei lavori, si possono trovare su: Bandcamp, Facebook, Youtube, Spotify e Apple Music.
Grazie di essere stato con noi su Overthewall. Ti lascio l’ultima parola… Grazie a te, Mirella e a tutto lo staff di Overthewall, per avermi invitato. E’ stato un vero piacere essere vostro ospite! Colgo l’occasione per ringraziare chi come voi, si impegna quotidianamente a far conoscere la musica “non convenzionale”. Siete grandi! Un saluto a tutti gli ascoltatori, con l’auspicio di tornare a vedere tanta musica dal vivo, nel più breve tempo possibile. Soprattutto di poter ascoltare tanta musica di grande qualità… ne abbiamo bisogno. A presto!
Ascolta qui l’audio completo dell’intervista andata in onda il giorno 31 Maggio 2021
Ospiti di Mirella Catena ad Overthewall i Twang, autori dell’album“Il tempo dell’inverso”.
“Il tempo dell’inverso” è il primo full length dei nostri ospiti di oggi, i Twang, cinque giovani musicisti torinesi, con un bagaglio musicale abbastanza importante e soprattutto interessante. Benvenuti! Grazie mille, Mirella. Ciao a tutti!
Abbiamo la line up al completo! Volete presentarvi ai nostri ascoltatori? Bartolomeo Audisio: Ciao, io sono Bart e suono chitarra e flauto, e alle volte seconde voci. Federico Mao: Io sono Fede, sono chitarrista e corista. Moreno Bevacqua: Io sono Morris, bassista e seconda voce. Simone Bevacqua: Ciao, io sono Simo, voce solista e chitarra ritmica. Luca Di Nunno: Ciao, io sono Luca e suono la batteria, e a volte chitarra acustica e voce.
Quali sono le vostre esperienze musicali prima di formare la band? Bart: Beh, siamo tutti abbastanza giovani (in scala, nati dal 1994 al 1998) ma fortunatamente siamo riusciti tutti a collezionare un bel po’ di esperienze importanti. Io per esempio studio musica praticamente dai sei anni, mi sono laureato al conservatorio nel 2015 e tuttora continuo gli studi classici. Attualmente, oltre che con i Twang, suono nella formazione Duo Volgaris. Fede: A 14 anni ho cominciato a calcare vari palchi di Torino (come Spazio211 e Cap10100) grazie alla scuola “The House Of Rock”, frequentata anche da Simo e Morris. Di questi tempi, suono il basso con le band Zagara e Moonlogue. Morris & Simo: Siamo ovviamente cresciuti insieme in tutti i modi possibili, attraverso la succitata House Of Rock (con i maestri Roberto Bovolenta e Chiara Maritano) e con il nostro primissimo progetto, i 9000dol, con il quale abbiamo suonato anche all’Hiroshima e al Fortissimo Festival. Luca: Io ho cominciato a studiare batteria jazz da bambino , con mio padre Cesare come insegnante …
Un figlio d’arte, praticamente ! Luca : Diciamo di sì. Ai tempi del liceo suonavo con una band psichedelica, i Crode, e con i Crawling Waves. Poi per un po’ sono rimasto sgruppato, finché non ho incontrato casualmente il vecchio Simo, alla fine del 2015…
Come avete scelto il nome della band? Il nome Twang è legato a qualche aneddoto particolare? Fede: E’ una storia abbastanza buffa, perché l’abbiamo scelto praticamente a caso, puntando letteralmente il dito su un vocabolo random in un dizionario inglese; fortunatamente, però, è legato a molti elementi che ci caratterizzano. Di per sé è un’onomatopea, può ricordare il suono di una corda di chitarra che si spezza, o il carattere tipico di una Fender Telecaster (posseduta da tutti e tre i chitarristi del gruppo, ma sono dettagli). Inoltre è un nome abbastanza facile da ricordare, e ci si può giocare in mille modi.
Dalla vostra bio ho appreso che l’idea della band nasce verso la fine del 2015, durante un concerto dei Blues Brothers, come sono andate le cose? Simo: Io, Bart e Luca abbiamo frequentato lo stesso liceo artistico, e certamente andavamo d’accordo, ma non è che non fossimo proprio amici. Così sono rimasto alquanto stupito quando Bart mi ha chiamato, nel Maggio del 2015, dicendomi “Weiiiii Simo, ti va di incontrarci al concerto dei Blues Brothers stasera in Piazza San Carlo? Devo farti una proposta!” “C’è un concerto dei Blues Brothers stasera???”… Poche ore appresso, durante la jam di “Sweet Home Chicago”, Bart ha offerto a me e al mio inseparabile fratello di creare un gruppo di matrice Blues Rock, giusto per cercare un po’ di palchi, senza paranoie, e magari con una Voce Femminile… Sarebbe stato bello, ma nulla di più lontano da quel che poi i Twang sono diventati. Qualche mese dopo il concerto abbiamo cominciato a provare in power trio, con me alla batteria, e alla fine del 2015 la formazione era esattamente quella che oggi si sente ne “Il Tempo Dell’Inverso”.
Alla fine, a quanto pare, è rimasta una formazione prettamente maschile. Inutile dire che la voce femminile non l’abbiamo trovata, si sono dovuti accontentare di me come cantante! Però nell’album le voci femminili ci sono eccome, nei brani “Esilio” e “Il Pirata”.
Il vostro esordio avviene con un EP che avete auto-prodotto nel 2017 e che vi ha dato parecchie soddisfazioni e nello stesso anno, con il singolo “La legge del più forte”, siete i vincitori del premio Miglior Band del concorso nazionale “Senza Etichetta”, presieduto da Mogol.Com’è stata la vostra reazione a queste importanti conferme? Luca: Sicuro, registrarlo autonomamente in garage da Bart (e con mezzi di fortuna) è stata un esperienza meravigliosa, considerando i risultati poi ottenuti da “Nulla Si Può Controllare”. Ma la vittoria a Senza Etichetta è stata una sorpresa meravigliosa, soprattutto il momento in cui il Maestro Mogol ci ha preso da parte, sul palco, appena dopo l’annuncio : praticamente, per cinque minuti il pubblico non ha sentito altro che silenzio, mentre Mogol ci spiegava cosa andava e non andava nel testo del brano, metodo di scrittura ecc…
Avrete fatto sicuramente tesoro delle sue parole nei vostri lavori seguenti. Luca: Assolutamente sì!
Parliamo del nuovo album, “Il tempo dell’inverso”. Quant’è durata la gestazione e dove è stato realizzato? Morris: Rispetto a “Nulla si può Controllare”, il processo di produzione è stato un salto di qualità assurdo, a partire dallo studio di registrazione. L’abbiamo realizzato da capo a piede agli Imagina Production di Torino con il produttore Alessandro Ciola, che in seguito ha avuto l’idea di portarci in Inghilterra per mixare i due singoli (“Attacco” e “Il Tempo dell’Inverso”). Abbiamo mixato i brani ai Real World Studios di Peter Gabriel, una specie di oasi paradisiaca nel mezzo della campagna inglese, un’esperienza di vita senza pari. Inoltre, completamente a sorpresa, Alessandro ha organizzato una sessione di mastering agli Abbey Road Studios, che non hanno certo bisogno di presentazione.
Insomma, il vostro produttore sembra esservi molto affezionato , deve essere rimasto particolarmente colpito da voi. Morris: Sì, Ale è stato fondamentale per la buona riuscita di questo LP, siamo davvero felici di averlo incontrato. Comunque, nel complesso la lavorazione dell’album è durata all’incirca un anno, anche perché Fred viveva a Londra e Bart ad Amsterdam, ma ne è decisamente valsa la pena.
Il cantato in italiano per alcuni è uno scoglio che impedisce lo sdoganamento delle band, voi, invece, ne avete fatto un punto di forza. Perché questa scelta, quanto mai azzeccata? Simo: In verità, un tentativo di scrittura in inglese è stato fatto, durante i primi esperimenti di composizione, ma nessuno era propriamente convinto dei risultati. Sentivamo il bisogno di esprimerci nella nostra lingua, ed è complice anche il fatto di aver sempre scritto in inglese nei nostri primi progetti. La difficoltà più grande è sempre il rischio di sovraccaricare i versi, cadendo in un territorio quasi “rap” che assolutamente non ci appartiene, ma basta resistere alla tentazione e vengono fuori dei cantati più che soddisfacenti. A questo proposito, è difficile che un testo venga redatto da capo a coda solo da uno di noi. Io e Luca siamo i parolieri più prolifici, ma il lavoro collettivo è sempre più ricercato e necessario. Ad esempio il brano “Caverna”, contenuto in ITDI, è stato composto interamente a sei mani, idem “Attacco”. Inoltre, personalmente, io mi sentirei a disagio a cantare un pensiero che non sia rappresentativo di tutti e cinque.
Quanto la pandemia ha bloccato i vostri progetti? Cosa state preparando per i prossimi mesi? Fede: Abbiamo dovuto riorganizzare completamente la pubblicazione dell’album, ma la cosa che più ci è mancata e che ci manca tuttora è la possibilità di suonare dal vivo. E’ quello che tutti i musicisti aspettano di poter fare di nuovo, non vediamo l’ora e ci stiamo preparando per questo. Ci stiamo poi ingegnando per stampare le copie fisiche dell’album “Il Tempo dell’Inverso” (uscito il 2 Aprile su tutti gli store digitali). Inoltre, stiamo preparando il videoclip del singolo “Il Pirata”, e siamo finalisti regionali di Sanremo Rock 34.
Dove i nostri ascoltatori possono seguirvi? Bart: Penso di poter dire tranquillamente “visitate il nostro sito web“, ma anche Facebook, abbiamo una pagina Instagram che sta crescendo con rapidità, i vari store digitali come Spotify e iTunes, e ovviamente Youtube per tutti i nostri video.
Grazie di essere stati con noi. Vi lascio l’ultima parola! E’ stato un piacere essere ospiti di Overthewall, prendetevi tempo per godervi “Il Tempo dell’Inverso” (il pessimo battutista è Simo) , e mille grazie a Mirella !!!
Ascolta qui l’audio completo dell’intervista andata in onda il giorno 5 aprile 2021: