A Giant Echo – Resine

Sergio Todisco torna con il suo progetto A Giant Echo, non più un semplice alter ego musicale, ma una vera e propria band capace in “Resins 2” di eseguire sonorità ricche di sfaccettature e influenze che si “appiccicano” sin dal primo ascolto e non ti lasciano più…

Ciao Sergio, nel 2018 usciva “Songs By Ghosts And Machines”, cosa è accaduto da quel momento?
Ciao, piacere di conoscersi e scambiare due chiacchiere. Mi verrebbe da dire che nulla di straordinario è accaduto, rispetto al tempo che nella mia vita dedico a scrivere, comporre ed esercitarmi nella musica. Rispetto al progetto A Giant Echo, invece, è cambiato che finalmente ora c’è una band che può suonare i brani dal vivo, ci sono amici cari con cui condividere certe sensazioni suonando e, infine, le composizioni possono esulare dalla dimensione studio e prendere forma, con arrangiamenti diversi, su un palco, di fronte ad un pubblico.

Il presente si chiama “Resins 2”, un titolo che non è un semplice nome per l’album, ma quasi una dichiarazione d’intenti. Ti andrebbe di spiegare il concept che sta dietro questa seconda opera?
Sì, intendo l’album come un concept. Intanto il titolo, “Resins” (resine), è stato scelto come richiamo a qualcosa che si attacca, che ha la capacità di rimanere, che anche quando sembra essere andato via, ha lasciato traccia di sé, che si incolla quasi e non se ne va più, o non se ne va mai del tutto. Sono delle impressioni, dei sentimenti, dei sorrisi, o delle lacrime versate, legati a degli eventi, accaduti una volta, ma che in qualche modo rimangono incollati per sempre all’esistenza di chi li vive, legando in una forma particolare passato, presente e futuro dei cicli esistenziali. Così, diversi brani cominciano, hanno un’evoluzione, sembrano finire, ma poi ricominciano (un’evoluzione che si manifesta particolarmente in “Part Three”, che inizia con un’introduzione, poi si sviluppa in un altro modo, sembra finire, ma poi riprende suoni, impressioni e melodie dell’introduzione). Così anche l’arpeggio finale di “Part One”, che riemerge durante la coda di “Last Part”, a manifestare la ricomparsa di quanto è stato vissuto, ma dentro un altro contesto, sebbene quello generale (l’insieme, il contesto complessivo) sia il medesimo. Quello che si cerca di richiamare è una rievocazione di accadimenti, di sensazioni che hanno marcato la persona in dei momenti, modificandola nella sua costituzione nel tempo. I brani, allora, diventano le parti di un processo di costituzione in cui si forgia l’essenza di chi racconta, scrive e canta di questi pezzi di esistenza, dalla prima all’ultima, non necessariamente in ordine cronologico. Infatti, “Part Four” sembra non esserci, sul supporto fisico compare come sesta traccia, ma non è annoverata in copertina (qualcosa che sembra scomparsa, ma che in realtà ricompare dopo). Ecco perché le strutture hanno un ciclo che parte, cresce, muore, rinasce, finisce; o perché le melodie ritornano.

Quel “2” che appare nel disco come lo dobbiamo intendere: parte integrante del titolo oppure una semplice appendice a rappresentare che si tratta della seconda opera dei A Giant Echo?
Sicuramente è parte integrante del titolo dell’album, ed ha un significato: c’è stato un precedente di quest’album, si chiamava “Resins”, dove c’erano i prototipi di questi brani, fu la prima autoproduzione di A Giant Echo, nata da tanta ispirazione ma accompagnata da pochissime capacità e abilità e ancora meno esperienza. Nel tempo quei brani sono cresciuti, sono stati cambiati, riarrangiati, fino ad arrivare alla versione confluita in “Resins 2”.

A proposito, dobbiamo parla dei A Giant Echo oppure di A Giant Echo? Di un progetto tuo personale o vera e propria band?
Una definizione non per forza esclude l’altra, soprattutto se si guarda all’evoluzione nel tempo e ai modi di scrivere e poi di suonare live. I brani di “Songs by Ghosts and Machines”, come quelli di “Resins 2”, sono nati dalle idee di un singolo, ma poi quel singolo ha cercato persone con cui condividere e portare davanti a un pubblico le idee. Fortunatamente ho trovato delle persone e degli amici, musicisti bravissimi che hanno voluto partecipare al progetto A Giant Echo, dapprima Riccardo Bianchi alla batteria e Davide Pascarella al basso, e infine, ultimo ad unirsi, Marco Nardone alla chitarra e synth. Ora c’è una band che si chiama A Giant Echo e che può suonare i brani live; ma il songwriter singolo non è scomparso, e risponde sempre al nome A Giant Echo. Tutto quello che c’è stato e c’è, è sempre in evoluzione, e ciò che si potrà creare insieme, fra quattro musicisti, è sempre da considerarsi in evoluzione.

Torniamo al disco, pur essendo legati tra loro, i brani appaiono molto vari. Questa scelta di spaziare tra i generi e le influenze è stata una scelta nata a tavolino oppure un processo spontaneo?
Non ho studiato musica né, allargando il senso della domanda, mi sono mai posto obiettivi commerciali, quindi, tenderei a dire che le strutture dei brani non sono nate a tavolino; per altro, dal momento del concepimento a quello della sintesi finale, i brani sono cambiati. In sostanza direi che la base di partenza è assolutamente spontanea, lo sviluppo è frutto di un’esperienza di studio, ma inteso come studio ricco di istinti e influenze, e povero di nozioni. Credo che lo spaziare fra generi e influenze dipenda dalle variegate esperienze di ascolto.

I brani sono nati nell’ordine in cui appaiono in scaletta oppure hai assemblato la tracklist in un secondo momento?
All’interno del processo di creazione, credo di aver pensato in itinere all’ordine della scaletta.

“Part Four” perché hai deciso di utilizzarla come bonus e non come parte integrante del disco?
“Part Four” è decisamente diversa dalle altre, c’è molta più influenza di musica elettronica, più uso del computer e dei synth ed è nata da sensazioni più tetre rispetto ai vissuti che hanno ispirato le altre. Intendevo separarla dalle altre, e con essa ho voluto segnare la fine triste di un disegno, ma in qualche modo quella fine era prevista, immaginata in anticipo e solo dopo confermatasi come chiusura (ecco perché è segnata da un numero che la presupporrebbe in una posizione antecedente). Così come, invertendo la prospettiva, le parti del ciclo che nell’ascolto arrivano prima della fine prevista, possono rivivere ed essere immaginate anche dopo di essa.”Last Part” sarebbe la chiusura, reca con sé tracce di “Part One”, si pone in scaletta prima di “Part Four”, ma è marcata da un aggettivo che la presupporrebbe alla fine del ciclo. In sostanza, se non si capisce quale sia la fine tra “Part Four” e” Last Part”, il concetto è passato.

Proporrai le canzoni di “Resins 2” dal vivo?
Sì, e le abbiamo già proposte in due concerti, ma solo quelle cantate; per le strumentali si pone qualche difficoltà nel riadattarle in maniera soddisfacente con l’attuale formazione a quattro membri.

Le tue prossime mosse?
Scrivere, comporre, registrare, riarrangiare, suonare.

RæstaVinvE – Di uomini e di donne

RæstaVinvE è un duo pugliese che ha pubblicato un album dal titolo “Bianlancia” lo scorso maggio. Per conoscerli meglio e saperne di più li abbiamo contattati in occasione di un loro concerto a Roma domenica 30 gennaio presso il club Let it Beer.

Partiamo dal significato del vostro nome, RæstaVinvE, così singolare, cosa vuol dire esattamente?
Il nome non è che l’accostamento dei nostri due moniker, Raesta, per Stefano Resta, e Vinvè per Vincenzo Vescera. Un nome che però negli ultimi tempi ha iniziato ad indicare una realtà abbastanza corale. Dietro di noi e accanto a noi ormai c’è una band ormai sempre più consolidata: Francesco Argentati (basso), Federico Curto (batteria), Andrea Allocca (chitarre). Ovviamente c’è l’onnipresente Maurizio Loffredo degli Artigiani Studio come produttore artistico. Il nome unico indica che nell’intero percorso creativo, dalla scrittura, all’arrangiamento, così come nell’ esecuzione, i pezzi vedono l’intervento di entrambi. Inoltre il gusto un po’ francese della “è” finale ed il dittongo iniziale denotano la nostra esterofilia, dimostrata anche dal featuring presente nell’album con Clio.

Come è nato il vostro duo? Come vi siete conosciuti e siete arrivati ad oggi alla pubblicazione del vostro primo album “Biancalancia”?
Galeotto fu un concerto, quello di Riccardo Sinigallia, dove Stefano cercava un produttore ed ha trovato un coautore. Vincenzo conosce l’artista romano, il quale non potendo produrre Stefano ha ‘passato la palla’ a Vincenzo che ha iniziato una graduale collaborazione. Uno dei primi risultati è stato il buon piazzamento al premio Lunezia, edizione del 2019. Scrivendo abbiamo pensato di iniziare a cantare i pezzi insieme. Nella traccia “L’amore è un fiore” di Stefano già c’era una collaborazione con Vincenzo seppur unicamente come produzione artistica. Quando siamo entrati in studio abbiamo iniziato a lavorare su due EP diversi ma a quel punto ci è venuto naturale creare un’unica entità per dividerci l’enorme mole di lavoro che si cela dietro un progetto che in quasi assoluta autonomia cerchi di affacciarsi tra il big dell’oceano discografico. Ci siamo divertiti, ci divertiamo ed eccoci qua.

Che significato ha il titolo “Biancalancia” e cosa vorreste trasmettere attraverso i testi delle vostre canzoni?
“Biancalancia” nasce dalla consapevolezza giunta dopo la nascita dei primi brani che l’album sarebbe stato incentrato sulle donne che avevano in qualche modo ispirato la produzione delle canzoni. Il tema è quello dello scontro uomo/donna in tutte le declinazioni. Ispirati dalla vita nostra e da quella di chi ci è vicino, abbiamo parlato d’amore: dell’amore tossico, dell’amore perduto, di quello omosessuale, e di quello tra persone anagraficamente distanti. Ovviamente la scelta di intitolare l’album ad una delle mogli di Federico II di Svevia, forse quella che secondo la leggenda lo ha fatto più tribolare, è stata un omaggio alla nostra terra d’origine, la Puglia: Vincenzo è di Vieste, Stefano è di Corato.

Nel brano “Rien Va Plus” avete un featuring di Clio, come è stato collaborare con lei e come è nata questa collaborazione?
Durante il lockdown Stefano ha iniziato a convivere con la sua compagna ed attuale moglie, Chloè. Con lei hanno ripescato e elaborato un vecchio testo di Stefano nato come uno sfogo di cinque pagine, ridotte sapientemente da Vincenzo che ha avuto un approccio più tecnico essendo meno coinvolto emotivamente. Contestualmente abbiamo imparato a conoscere il pop francese e Clio è stata una scoperta illuminante. Così abbiamo provato a contattare il suo management. Sono stati gentilissimi nonostante la nota cantante fosse alle prese con l’uscita del suo terzo album ed una collaborazione con Iggy Pop. Strano ma vero, è stato più facile che collaborare con altri nomi del panorama musicale italiano. L’eccezione è stata la preziosa collaborazione con Cesare Pastanella, noto percussionista jazz pugliese, oltre che la presenza della penna di Francesco Di Bella su “Senza Cuore”. Che dire? È importante collaborare con chi senti di avere feeling, senza spaventarsi di alzare lo sguardo anche oltre il proprio orizzonte più prossimo.

Avete a breve un live a Roma, che tipo di set porterete sul palco e dove esattamente?
Da maggio del 2020 abbiamo provato a mettere su un live che non compromettesse troppo il sound dell’album così come prodotto. Nell’album hanno registrato Andrea Pesce (Fish) alle tastiere, Ivo Parlati, noto session man partenopeo e batterista di Riccardo Sinigallia, lo stesso Maurizio Loffredo e Daniele Sinigallia alle chitarre. Quindi ci è toccato studiare a fondo, riprendere dimestichezza con ampli, piano, pedaliere e il live in generale ed oggi suoniamo i brani così come sono stati incisi. Non disdegniamo piccoli set acustici ma questa è un’altra storia. Al momento stiamo suonando in locali e pub, e non c’è mancato un teatro a Viterbo dove peraltro abbiamo registrato il videoclip di “Verdiana”, al momento in rotazione.

A proposito di esibizioni live, qual è il vostro parere su questo “lungo fermo” della musica a causa della pandemia? La musica e lo spettacolo in genere sembra il settore più colpito.
I rischi legati alla diffusione ci sono. Un’idea che si potrebbe realizzare è mettere su un pool, un servizio di professionisti per assistere e guidare gli esercenti di attività che prevedano l’aggregazione di gente, in quelle zone dove il virus si è scontrato su una realtà magari già in difficoltà. Non si può fingere che il virus non ci sia, ma come una patologia, non si possono ignorare nemmeno gli effetti iatrogeni che nella società si traducono nella crisi di tante realtà più delicate benché di fondamentale importanza, se vogliamo dire così.

Il vostro singolo ‘Verdiana’ questa settimana è nella classifica ‘Indie Music Like’ tra i primi 50 posti, è una soddisfazione, bel traguardo…
È una grande soddisfazione, specie per una realtà totalmente indipendente come la nostra. Ci fa ben sperare nel futuro di questo progetto e ci dà anche una linea da seguire nelle prossime produzioni.

Il vostro album è reperibile in CD per il momento, ci sarà un’edizione in vinile?
Ascoltare sul CD l’album dà soddisfazioni che altri supporti digitali non permettono. Tuttavia aspettiamo un po’ per i vinili che arriveranno sicuramente anche se in limited edition. 

Fate vostro il CD dei RæstaVinvE, ordinabile online presso i loro canali social, e se siete in zona Roma venerdì non perdetevi il loro live-set. Disco consigliato da Wanted Record, Bari.

INTERVISTA ORIGINARIAMENTE PUBBLICATA SU “IL QUOTIDIANO DI BARI” IL 26 GENNAIO 2022

Amedeo Giuliani – Viaggiare controcorrente

Ai cantautori ultimamente non stiamo lasciando molto spazio sulle nostre colonne, ma non potevamo non approfondire con Amedeo Giuliani i dettagli del suo nuovo album, “Il viaggio di Chinook”, rilasciato alcune settimane fa dalla Music Force.

Ciao Amedeo, quando è iniziato questo  tuo nuovo viaggio con Chinook?
In realtà, forse dalla mia nascita, ma se fai riferimento alla scrittura e composizione del disco, da qualche anno. Qualche brano lo avevo nel cassetto ed è stato rivisitato e lavorato di cesello, altri sono stati scritti per l’album.

Chi è Chinook?
L’amico Chinook è un singolare pesce, comunemente denominato salmone il quale, con la sua forza, coraggio e resistenza del vivere ci riporta alle aspirazioni e desideri e travagli nell’affrontare le vicissitudini le esperienze e disavventure dell’esistenza Umana.

Perché l’idea di viaggio, nonostante un mondo sempre più a portata di click, continua ad affascinare?
Perché la vita è un eterno viaggio che non si può arrestare, ci si può fermare a riposare volontariamente o forzatamente in base alle vicissitudini che ci mette davanti su quegli scogli che però non arginano la voglia di proseguire e arrivare alla agognata meta. Di bolina risalire il vento controcorrente senza lasciarsi influenzare dai diktat di un sistema di società completamente massificata e pesantemente indottrinata dalle mode del momento.

Che ruolo ha svolto Cesare Zarbo durante la scrittura del dico?
Un ruolo molto importante considerando il fatto che Cesare e coautore di tutti i testi del disco, di “Monadi” e di un po’ di brani del “Fantasma del buio”. Abbiamo raggiunto una sintonia importante, dando così luogo a un connubio vincente.

Quanto è importante per te raccontare storie e non scrivere semplicemente delle canzoni?
Essenziale, non riuscirei a scrivere un brando che non abbia un senso, quantomeno indicare una via, senza la presunzione di insegnare nulla a nessuno.

Nelle note che accompagnano l’uscita si fa riferimento ai grandi del cantautorato italiano e internazionale (De André, De Gregori, Cohen e Dylan), ma io in alcuni frangenti ho ritrovato anche dei riferimenti alla tradizione nostrana prog. Deformazione mia di rocker o è davvero così?
Non sbagli, sono tutte cose che fanno parte del sacco delle mie esperienze, il mio personale background musicale.

“Figlio di un’idea” per tematiche trattate e sonorità mi pare un piccolo tributo agli Inti-Illimani, no?
Non esattamente, è il tributo alla persona che ha cambiato la mia vita. Comunque gli inti-Illimani mi piacciano molto.

Ti senti più un artista di strada o da studio?
Mi sento un artista del mondo. Non mi sono mai posto schemi o barriere e mai lo farò. Potrei essere un artista di strada e da studio allo stesso tempo.

Credi che potrai portare in strada queste tue nuove canzoni a causa della pandemia?
Lo spero, ma più che la pandemia temo la poca curiosità dell’italiano abituato sempre alle minestre scaldate. Temo che non ci sia più spazio in Italia per la musica d’autore. Comunque noi resistiamo e lottiamo. Stiamo lavorando per portare dei bei live in giro per l’Europa. Incrociamo le dita. Nel frattempo seguitemi sul sito della mia etichetta, in cui troverete tutti i link alle mie interviste, recensioni, videoclip, acquisto cd e le novità che mi riguardano www.musicforce.it/catalogo-produzioni/2522-amedeo-giuliani-il-viaggio-di-chinook oltre che sulla mia pagine FB AMEDEOGIULIANI75.



Deric – Riflessi d’autore

Fra le nuove leve del sottobosco cantautoriale italiano già da qualche anno si fa strada Federico Bonanno, prima in gruppo col progetto Hash ed ora da solista con lo pseudonimo di Deric. Abbiamo parlato insieme dei suoi esordi e del nuovo singolo “Le stesse parole” (autoproduzione, 2021).

Scrivi canzoni fin dalla prima adolescenza, come è nata la passione per il cantautorato e quali sono stati i primi artisti di riferimento?
È nata insieme alla passione per la chitarra e la musica rock, scrivere ha sempre fatto parte della mia vita e in qualche modo mi è sempre piaciuto. Penso che sia un modo anche per mettere in ordine i pensieri e fare un po’ di introspezione. Direi che le due cose si sono fuse in modo abbastanza naturale. Un momento importante di sicuro è quando ho avuto in regalo la mia prima chitarra e ho cominciato a prendere lezioni, poi a scrivere le mie canzoni. Dopo con la band le cose sono diventate anche più serie. In quel periodo andavo scoprendo i primi gruppi punk, i Ramones, i Pixies, i Nofx che mi ricordo di avere visto in uno storico/disastroso concerto all’ex Bier Garten qua a Palermo. Incredibile. Degli italiani ascoltavo spesso i Prozac+, Le Luci della Centrale Elettrica, Cremonini, oppure Battiato. 

Parallelamente al percorso cantautoriale, portato avanti col gruppo Hash, hai cominciato a produrre musica elettronica con lo pseudonimo di Deric. Dove finisce Hash e dove comincia Deric? Perché non hai rilasciato il singolo “Le stesse parole” come Hash?
Hash era il nome del gruppo che si è sciolto più di un paio di anni fa. È stata una bella esperienza durata tanti anni, insieme abbiamo pubblicato due EP, anche se la formazione era cambiata diverse volte. Dopo ho continuato a scrivere e mettere online sul mio Soundcloud qualche brano di musica elettronica. Essendo un grande appassionato di tecnologia e delle sue conseguenze sulla musica e avendo anche studiato l’argomento, non vedevo l’ ora di fare i miei primi esperimenti. Mi ricordo che quando ho scoperto alcuni gruppi come i Massive Attack, i Portishead, gli Alt-J è stato un momento di grande maturazione dal punto vista musicale per me. Tornando alla domanda, quello che mi rappresenta oggi è questo progetto, sarebbe stato incoerente per me proseguire con lo stesso nome visto anche che non sarebbe semplice riproporre quei brani dal vivo oggi.

Con la musica elettronica, in termini di lunghezza dei brani, c’è più libertà espressiva rispetto al cantautorato attuale, mi pare. La breve durata del nuovo singolo, due minuti e mezzo, è casuale o dovuta a necessità radiofoniche? Oppure nessuna delle due?
Non c’è stata nessuna necessità radiofonica in realtà, il brano è nato così ed è volutamente diretto e conciso, punta di più sulla voce e sul groove che sullo strumentale. Mi piaceva l’idea di puntare sulla semplicità, credo sia il modo migliore per arrivare alle persone. Senza trascurare il sound ma creando un’atmosfera che si sposasse con le parole. Nel frattempo la durata del brano mi ha permesso anche di entrare in qualche playlist in più, quindi direi esperimento riuscito!

Il testo della canzone, scritto in piena pandemia, parla di alienazione senza però fare riferimento ai problemi sanitari dell’ultimo biennio. Da musica e parole emerge una gran voglia di voltare pagina, ma rispetto a quale ambito della società attuale?
Sono tante le riflessioni che si potrebbero fare a proposito del brano. Una sicuramente è quella sulla monotonia e la ripetitività che a tutti capita di vivere, per vari motivi come il lavoro, la famiglia, problemi personali e altro. Un’altra riguarda la tecnologia, i social-network, la televisione, penso che siano tutti strumenti che bisogna conoscere e saper utilizzare per avere il controllo della situazione e non venire controllati noi stessi in qualche modo. Lo diceva anche Pasolini molti anni fa in una famosa intervista alla Rai, che si trova anche su YouTube. Oggi tutti conosciamo gli scandali sui big data di Facebook, non è molto diverso secondo me. Per questo bisogna conoscere le cose e avere spirito critico, altrimenti l’illusione e la possibilità di venire influenzati è dietro l’angolo. C’è una frase tristemente famosa che dice “a forza di ripeterla una cosa diventa vera”, secondo me a forza di ripeterla si diventa stupidi.

Come è nata la collaborazione con Luca Rinaudo e Marco Nascia allo Zeit Studio?
Con loro ci siamo conosciuti qualche anno fa. Luca e Marco hanno organizzato un corso di produzione musicale nel loro vecchio studio di registrazione, a quel corso durato circa un anno ho partecipato anche io insieme ad altri. Dopo abbiamo anche scoperto di avere qualche amico in comune.

Cosa hanno aggiunto Luca e Marco in termini di produzione?
Il loro contributo è stato importante per dare alla canzone il sound e il groove giusto. Con Luca e Marco, dopo avere fatto una pre-produzione registrando le varie parti di chitarra e voce, abbiamo pensato agli arrangiamenti insieme.  Marco suona diversi strumenti fra cui chitarra e percussioni e riesce a farlo in modo unico e personale vista anche la sua esperienza. Luca si è occupato di più del missaggio e del mastering, direi che è stato davvero bello lavorare insieme.

Hai in programma dei concerti a breve? Altri progetti futuri?
Non ho concerti in programma, anche se ci sto pensando. Al momento mi sto concentrando su altro dovendomi occupare un po’ di tutti gli aspetti del progetto che richiedono tempo e risorse, sto anche lavorando in studio ad altre canzoni, una delle quali uscirà a dicembre.

L’Omino e i Suoi Palmipedoni – Storie di caldaie e stantuffi!

Ospite di Mirella Catena a Zona Rock, Riccardo Pusateri de L’Omino e i suoi Palmipedoni, band autrice dell’EP Caldaie Stantuffi” (Frantic Mule).

Benvenuto a Riccardo de L’Omino e i suoi Palmipedoni. 
Ciao, il piacere è mio!

Per prima cosa ti chiedo: come mai hai scelto questo nome per la band?
L’Omino” è il soprannome che mi è stato appioppato fin dall’adolescenza, perciò mi è sembrato naturale proporlo alla band. Dario, il batterista, ha poi aggiunto “e i suoi Palmipedoni”.

Ci parli delle tue esperienze musicali?
Ho imparato a suonare la chitarra alle scuole medie e seguito corsi con lettura del pentagramma ed esibizioni in gruppi sinfonici, poi ho preso in mano un basso elettrico e cominciato a suonare i Nirvana!

Come vi formate e da chi è composta la line up attuale?
Ci siamo formati molto spontaneamente. All’inizio Dario alla batteria ed io al basso abbiamo suonato insieme per qualche mese, facevamo una sorta di doom metal. Parallelamente avevo iniziato a suonare alla chitarra le mie canzoni con Andrea alla tromba, sono stato contento quando Dario ha deciso di abbracciare questo progetto più cantautoriale. La line up attuale è la stessa degli inizi, ma in cinque anni si sono succeduti diversi altri amici musicisti.

“Caldaie Stantuffi” è l’EP pubblicato a giugno e che contiene tre brani, risalenti alla prima sessione di registrazione del nucleo fondante, riproposti ufficialmente con un nuovo mix a cinque anni dalla loro incisione. Ci parli di questa nuova uscita discografica?
Questa nuova uscita nasce dal tempo che il lockdown ci ha dato per guardare al nostro passato. I primi brani registrati da noi erano stati divulgati soltanto in una manciata di CD autoprodotti, a riascoltarli adesso ci ho trovato molti spunti interessanti. Le tre canzoni di questo EP le considero come un nuovo inizio per la band.

Vista la riapertura dei locali negli ultimi giorni, sono previste date per ascoltarvi dal vivo?
Qui a Palermo siamo in zona gialla da poche settimane appena, fortunatamente qualcosa già comincia a muoversi perché la città è molto attiva da questo punto di vista. Ancora non sappiamo dove e quando, ma speriamo di tornare a suonare dal vivo al più presto.

State già lavorando a qualcosa di nuovo?
Stiamo lavorando alle canzoni “nuove” lasciate in sospeso prima che scoppiasse la pandemia. Non abbiamo deciso se il prossimo lavoro sarà un EP o un album, ma qualcosa bolle in pentola.

Dove i nostri ascoltatori possono seguirvi?
Ci trovate su Facebook e Instagram per gli aggiornamenti, su YouTube per i video e su Bandcamp per le canzoni. Il nostro primo album “Escoriazioni”, uscito nel 2019 per Qanat Records, è anche su Spotify.

Grazie di essere stati qui con noi.
Grazie a voi, rock ‘n’ roll!

Ascolta qui l’audio completo dell’intervista andata in onda il giorno 12 giugno 2021

Folco Sbaglio e Le Ore Perdute Trio – Le storie del pettirosso

Ospite di Mirella Catena ad Overthewall il cantautore Folco Sbaglio.

Ciao a tutti da Mirella Catena e bentornati sullo spazio interviste, oggi con noi un artista la cui carriera affonda le basi nella scuola cantautorale italiana e trae ispirazione da artisti come Dylan, Rolling Stones e Lou Reed. Diamo il benvenuto a Folco Sbaglio! Andiamo indietro nel tempo. Quando hai iniziato a comporre?
La prima canzone che ho scritto, al netto di composizioni giovanili adolescenziali, è 2Latinoamerica”, che è il pezzo di apertura del disco “Storia di un Pettirosso”. Era il periodo romano, studiavo psicologia a San Lorenzo, abitavo a Porta Maggiore. Impiegavo il mio tempo a studiare, nella militanza politica e a scrivere canzoni.

Nel 2009 la tua carriera musicale si unisce con la band Le Ore Perdute. Com’è nata questa collaborazione?
In verità nel 2009 ero fermo con la musica da qualche anno. Suonavo a casa per conto mio. Mi ero lasciato alle spalle un periodo musicale molto intenso. Si presentarono a casa Nitto Lasco e Dano Briga. Con Dano avevamo forse migliaia di ore musica insieme. Nitto invece era un giovane di 21 anni con cui ci conoscevamo poco, ma sapevo che era un ottimo musicista, specialmente per la sua età, e che gli piacevano molto i miei pezzi. Loro avevano saputo di un concorso. Un premio Fabrizio De Andrè. Bisognava partecipare con tre canzoni. Risposi che non avevo voglia. Che ero fermo. In verità ero impigrito e svogliato. Loro però insistettero fino a sfinirmi. Alla fine mi feci convincere. Partecipammo al premio De André e lo vincemmo. Uno dei tre pezzi che portammo era una canzone mia, a tutt’oggi ancora inedita: “Settembre”. Dopo quella soddisfazione i ragazzi ci presero gusto e cominciarono il pressing per partire con una formazione che mi affiancasse negli arrangiamenti dei miei brani per ricominciare i live. A quel punto però, dopo essere salito di nuovo sul palco, divenne più facile persuadermi. La musica è un po’ come le sigarette, se ne fumi una poi il rischio di ricaduta è altissimo. Ci mettemmo alla ricerca di altri musicisti. Scelsi i più validi e nacquero Le Ore Perdute, cioè il mio gruppo di supporto, i miei musicisti. All’epoca erano in quattro: al basso c’era Deddo Lelmì, alla batteria Nonio Nass e alle chitarre Dano Briga e Nitto Lasco. Ricominciai a suonare. Dopo qualche mese mi ritrovai in una situazione un po’ insolita per me. Un discobar. Non so come ci fossi finito. Ero col cocktail in mano quando vidi che affianco al DJ che mandava techno house a manetta c’era una ragazza. Una ragazza veramente giovane. Suonava il violino. Mi concentrai molto su quello che faceva. Ne rimasi rapito. Dissi al proprietario del discobar che volevo il suo numero di telefono. Seppi che aveva solo 15 anni. La chiamai. Entrò nel gruppo e divenne la mia violinista. E poi negli anni diversi musicisti si sono avvicendati, entrati e usciti. Attualmente nel video domestico di Oggi siamo in Guerra ci sono Nonio Nass alla batteria, Leda Fancini al flauto, Nitto Lasco e Vanni Panovus alle chitarre, Rebbo Anzio al basso e Merlina Plaza al violino 

Ma questi sono nomi d’arte giusto? Pare che sia tu stesso ad assegnarli ad ognuno di loro, è così?
Sì, è così. O meglio: quando un musicista entra nel Le Ore Perdute domando sempre quale sia il suo nome d’arte. Questo perché trovo un fatto importante averne uno. L’arte è un ambito molto particolare, è un luogo dello spirito. E quindi avere un proprio nome, dedicato a questo ambito, secondo me è un fatto importante. Ecco se non hanno un nome d’arte chiedo di scegliersene uno. Quasi sempre accade che non ce l’hanno e mi chiedono di fare una sorta di battesimo musicale. Così mi piace trovare delle traslazioni eufoniche, cioè degli anagrammi imperfetti che suonino bene. Cioè: un nome d’arte deve avere anche un minimo di musicalità, di gradevolezza melodica. Ma ci metto anche giorni, settimane, per tirare fuori un nome d’arte di un mio musicista. Spesso un nome d’arte porta con sé anche un significato nella sua mutazione rispetto al nome anagrafico. Insomma con Le Ore Perdute, con tutti loro, non è solo un fatto musicale. C’è un rapporto personale umano che travalica il dato squisitamente musicale. E questo ci aiuta molto nel processo creativo degli arrangiamenti.

Parliamo del singolo “Oggi siamo in guerra”. Un testo pieno di rabbia e di denuncia dei potenti della terra. Com’è nato questo brano?
Ero a Napoli a casa di mio padre. Correva l’anno della guerra in Kosovo, era il 1998. Era notte, molto tardi. Sono solito da sempre andare a letto molto tardi. Non riuscivo a prendere sonno perché dalla base militare vicina si alzavano in volo in continuazione dei cacciabombardieri. Dei boati assordanti. La cosa mi irritò molto. Poi dopo un attimo pensai che io, a causa di quel rumore non potevo dormire, mentre a poche centinaia di km in linea d’aria quei boati incutevano a migliaia di persone la paura della morte, delle bombe, della guerra. Quindi a quel punto, completamente insonne presi la chitarra e cominciai a scrivere. Scrissi con molta rabbia è vero. Del resto come si può non provare rabbia per una guerra e soprattutto per i signori che la muovono e la promuovono e ci si arricchiscono sopra. E poi sono cresciuto con la musica usata anche per divulgare il sentimento del pacifismo. Quindi non feci altro che scrivere in linea con le cose con cui ero cresciuto.

Il video è stato realizzato in versione home made a causa della pandemia in corso, quanto questa situazione ha cambiato la tua vita di musicista?
Molto. Mi mancano da morire il palco, gli applausi, le critiche, le prove anche se, come ho avuto già modo di dire, mi mancano più di ogni cosa i miei musicisti. Averli affianco, guardarsi negli occhi e capirsi. Per me la musica e la socialità sono stretti in un rapporto di grande mescolanza. Sono figlio unico, soffro molto la solitudine, ma anche per indole sono molto dipendente dai rapporti. Mi piace proprio tanto stare insieme agli altri. La pandemia ha cambiato tanto. Io ad esempio non riesco a scrivere. Per scrivere devo avere un minimo sindacale non dico di felicità ma almeno di tranquillità. Ecco sono stati questi i mesi più terribili, quel tipo di situazione che mi porta a non scrivere nulla. Probabilmente quando tutto finirà recupererò tutti gli arretrati.

Qual è il messaggio che vorresti arrivasse con la tua musica e le tue parole?
Di non assuefarsi mai. Di non fare la fine della rana bollita. Di non inghiottire mai le ingiustizie che ci passano davanti e come diceva qualcuno di sentire sempre sulla propria pelle ciò che subiscono gli altri, in qualunque parte del mondo.

Questo questo video domestico segna una ripresa, seguirà un album?
Ma in verità mi sono fermato con la pandemia proprio quando stavo per far partire il secondo crowdfunding per il secondo disco. E credo proprio che fra qualche settimana mi rimetto in moto. Il disco è pronto, dobbiamo solo trovare le risorse per entrare in sala registrazione e per la promozione.

Dove i nostri ascoltatori possono seguirti sul web?
Siamo praticamente ovunque. Da youtube a Spotify, sui social, basta googlare un po’ e cercare Folco Sbaglio.

Grazie di essere stato con noi. Ti lascio l’ultima parola!
Ringrazio io voi per questo spazio di espressione. La musica e lo spettacolo hanno patito più di qualsiasi altro settore tutta questa situazione. Io non so se e quanto le istituzioni ne terranno conto. Sono certo invece che ne terranno conto quelli a cui piace la musica, lo spettacolo la cultura. Sono certo che da loro, dal pubblico, riceveremo un grande abbraccio e una grande partecipazione compulsiva non appena sarà possibile ritornare in strada liberi da questa pandemia, e credimi non vedo l’ora.

Ascolta qui l’audio completo dell’intervista andata in onda il giorno 15 marzo 2021:

Lou Mornero – Pace ombrosa

“Grilli” (Cabezon, 2021 \ Fleisch Agency), album d’esordio ed evoluzione naturale del primo EP di Lou Mornero, è un lavoro che cresce ad ogni ascolto, ma anche ogni volta che un passaggio strumentale o un verso riaffiora in mente mentre si è sovrappensiero. Il polistrumentista Andrea Mottadelli ha partecipato alla realizzazione del disco, le cui sonorità spaziano agevolmente dal folk alla dub, dal blues al trip hop. Ecco la nostra intervista.

La canzone “Grilli” apre l’album e ne rappresenta bene le atmosfere, però potrebbe risultare di difficile approccio per le orecchie meno avvezze alla musica d’autore. Perché non hai scelto un brano introduttivo più diretto come “Happy Birthday Songwriter” o “Due”?
Di base perché certe decisioni competono, nel bene e nel male, esclusivamente alle mie sensazioni che, in quanto tali, possono eludere la percezione altrui finanche nell’ipotesi di risultare, come dici, ostiche per alcuni, ma non vedo alternative. In secondo luogo perché “Grilli” ha un mood e un’atmosfera secondo me adatte ad introdurre un discorso musicale, atmosfera che avverto meno negli altri due brani che hai citato, pur non mancando di pathos, ma differente, da discorso già avviato, per così dire. E’ proprio una questione di gusto personale e nulla più.

Hai prodotto l’album “Grilli” insieme ad Andrea Mottadelli, che ha dato un tocco d’elettronica al tuo stile prevalentemente acustico. Avete registrato quasi tutte le canzoni lontani l’uno dall’altro, ognuno nella propria città. Il risultato finale corrisponde alle aspettative iniziali o, lavorando a distanza, avete preso direzioni musicali impreviste in corso d’opera?
Tra me e Andrea, distanti solo per questioni geografiche, c’è sempre stata un’interazione e un confronto talmente fitti che nulla, in fase di produzione, è stato lasciato nell’esclusivo palmo dell’uno piuttosto che dell’altro, perciò ogni canzone ha una veste al cui ricamo abbiamo contribuito entrambi. La premessa non toglie il fatto che lavorare con Andrea sottintenda l’apertura a sorprese e soluzioni inaspettate poiché lui ne è una fonte inesauribile e ti confesso che se stravolgere mi è risultato in alcuni casi inizialmente complicato da digerire, in altri è stato una rivelazione. “Piccolo Tormento” è un esempio calzante dell’intuizione di uno e dell’apertura dell’altro: io l’ho sempre considerato un blues acustico e sporco, così lo suonavo tra me e me, mentre Andrea l’ha trasformato in un brano quasi industrial, accendendo la mia curiosità e trovando il mio appoggio nonché compiacimento finale. Questo per dire che il risultato ha talvolta trasformato e superato le aspettative iniziali.

Ho letto da una tua una intervista che, se fossero persone, alcune canzoni di questo album sarebbero già “adolescenti”, nel senso che tu le hai concepite parecchi anni fa. Una di queste è proprio il singolo “Happy Birthday Songwriter”, che hai affidato all’esecuzione vocale di Paolo Saporiti. Daniele Paoletta canta invece in “La Cosa Vuota”. Come è stato distaccarsi da questi brani, che sono cresciuti insieme a te per così tanto tempo?
Non penso ci si possa distaccare mai da qualcosa che ti è nato dentro e attraverso te ha trovato il modo di arrivare ad altri e nel contempo mi fa molto piacere che queste canzoni non siano più solo mie, d’altronde non posso trovare un senso nello scriverle che non preveda la loro pubblicazione e condivisione. Il fatto di ospitare altre ugole ad affiancare la mia è fonte di pura gioia poiché, oltre a significare che quello che faccio ha un senso, mi riempie d’orgoglio personale e mi alleggerisce in qualche modo. Le collaborazioni in questo album, ma più in generale collaborare con artisti che stimi e rispetti aggiunge sapori al piatto, sfumature nuove e mi vengono in mente diversi dischi propriamente collaborativi che occupano posti fissi nel mio juke box personale.

Un lungo piano sequenza all’interno di un bar occupa i primi due minuti del video di “Happy birthday songwriter”. Tu sei al contempo il protagonista della storia ed uno spettatore, complice il fatto che a cantare davanti a te c’è proprio Paolo Saporiti. Mi sembra anche che a suonare la chitarra ci sia Andrea Mottadelli. Come è stato registrare tutti insieme questo video?
Uno spasso! Prima di tutto eravamo tra amici e, oltre a Paolo e Andrea, includo chi era dietro la camera, davanti la camera e dietro al bancone e poi è stato divertente perché abbiamo girato in un locale che frequentiamo tutti più o meno abitualmente, il Bar Bah, quindi non si è percepita la differenza tra lo stare su un set di un video e il trovarsi in una qualsiasi serata, se non per il fatto che ero costretto a buttar giù whiskey e birra a ogni ripresa, in genere non ho bisogno di un regista per ripetere certe azioni. E poi c’è l’aneddoto, ossia che alla mezzanotte di quel giorno era davvero il mio compleanno, puoi quindi immaginare i giri di brindisi che son partiti nonostante fosse solo lunedì…

Finito di guardare “Happy Birthday Songwriter”, YouTube mi propone una selezione “slow rock”, con tanto di Kurt Cobain in versione unplugged come anteprima. Secondo te, che orientamento stanno prendendo le tendenze musicali attuali? Si sta andando, come successe nella seconda metà degli anni ‘90 dopo il frastuono dell’era grunge, verso sonorità meno chiassose?
Mah, non saprei dirti. Ascolto un sacco di musica nuova, diversa e di qualità e ce n’è per tutti i gusti. Da quella più energica a quella più chill, basta curiosare un po’. Sicuramente le contaminazioni hanno preso il sopravvento negli ultimi anni e la cosa mi garba parecchio. Se parli più in generale di mainstream mi viene naturale girarci un po’ alla larga pur essendo abbastanza informato sui fatti ma credo che si debba fare un doveroso distinguo, in Italia soprattutto, tra il mainstream spesso facilotto e senz’anima, spremuto e propinato in tutte le salse e il sottobosco che vive nell’ombra e nell’ombra resta. Da noi in particolare ci sono distanze importanti tra i due mondi, quello che frequento abitualmente offre sempre spunti interessanti mentre l’altro tende a perplimermi un po’.

“Ouverture”, traccia conclusiva di “Grilli”, è l’unica canzone dell’album registrata dal vivo in studio, e che studio! Che emozioni hai provato ad entrare in un tempio della musica come lo Strongroom studio, dove hanno inciso nomi del calibro di Nick Cave e Prodigy?
Purtroppo io non l’ho visto neppure da lontano lo Strongroom poiché non mi è stato possibile andare a Londra a causa delle restrizioni dovute alla pandemia. Solo Andrea, londinese da qualche anno, si è recato a registrare e per l’esattezza al Bella Studion che si trova all’interno del complesso degli Strongroom.
Pertanto la parola passa direttamente a lui: “Avevo già avuto in precedenza l’opportunità di lavorare lì per un mix di un altro progetto, ma non nascondo che entrare in una struttura così importante che ha contribuito a tanti dischi che ho ascoltato un’infinità di volte non lasci certo indifferente. Sicuramente una bella sensazione. La cosa positiva è che mi sono trovato a mio agio in un’atmosfera creativa e rilassata al tempo stesso. Credo che questa cosa possa emergere nel lavoro fatto su “Ouverture” in cui sono partito nello sviluppare un’idea di arrangiamento che già avevo in testa, per poi sfruttare l’ispirazione del momento e degli strumenti che ho trovato a disposizione.”

Nella copertina dell’album luci al neon ed alberi fioriti fanno da cornice ad una figura nascosta sotto un ombrello. Come mai hai scelto questa immagine?
La risposta è molto semplice: è l’unica scattata durante una session apposita organizzata col mio vecchio amico nonché fotografo sopraffino Luca Tombolini. Ci eravamo dati appuntamento una sera all’indomani della fine del primo lockdown, armati di buoni propositi per fare qualche fotografia in città ma dopo qualche sopralluogo e un solo scatto, appunto, si è messo a piovere per bene e questo ha mandato all’aria tutti i piani per quella sera. Dopo di allora non siamo più riusciti a organizzare un’altra sessione per i vari impegni di Luca che lo portano spesso all’estero e quindi l’unica immagine che avevo era quella che poi è finita sulla copertina del disco. Detta così potrebbe sembrare che non avessi altra scelta ma in realtà non mi sono neppure affannato a cercare un’alternativa, quell’unico scatto aveva qualcosa che mi appartiene molto, una sorta di solitudine pacifica che non smetto mai di cercare, ed è in qualche modo silenziosa, che pare una contraddizione parlando di musica ma evidentemente alludo alla frenesia del mondo che lì dentro è messa a tacere. E poi c’è la sera, il buio, il mio momento preferito. La mia compagna si è poi adoperata nel ritoccare e accendere i colori nonché realizzare la grafica che a breve troverà la giusta collocazione nelle copie fisiche del disco.

Dopo aver apprezzato “Grilli”, sono andato ad ascoltare il tuo lavoro precedente. Seppur arrangiati e prodotti diversamente, alcuni brani del tuo EP di debutto e di “Grilli” hanno un elemento comune, cioè le lunghe code strumentali. Che valore dai tu a queste appendici? Sono digressioni verso nuovi orizzonti o hanno un significato diverso?
Ottima osservazione di cui ti ringrazio! La verità è che amo i viaggi musicali, mi ci abbandono con estrema facilità e molto gusto, mi coccolano la mente e mi ci perdo. Fosse per me ogni momento della giornata potrebbe essere scandito al tempo di lunghe code strumentali. In realtà non gli si deve dare per forza un significato, io non ce lo vedo, è puro piacere che asseconda il gusto di chi le compone e in questo senso includo anche Andrea che, come me, adora perdersi nel suono. Scavando nel passato mi vengono in mente certe jam sessions da saletta, quelle un po’ erbacee, che potevano superare tranquillamente i dieci minuti ininterrotti senza la presenza di una singola nota vocale, bei tempi quelli.

Nell’intervista a cui mi riferivo prima, hai dichiarato anche di voler continuare a creare “senza l’obbligo di fare qualcosa che piaccia per forza o che debba andar bene a qualcuno in particolare, che non sia io stesso”. “Grilli”, naturale evoluzione del tuo primo EP, conferma le tue parole. Ti stai già dedicando al prossimo capitolo?
Nella mia testa “Grilli” fa già parte di un passato lontano e sento fisso il bisogno di aggrapparmi a qualcosa di nuovo che prenderà forma in maniera spontanea nel tempo. Non smetto mai di abbozzare idee musicali, a fasi alterne ma costantemente, e qualche cosa che mi stuzzica già c’è. Mi piacerebbe dare sfogo alle mie diverse anime musicali e approfondire suoni che ancora non ho avvicinato ma che esercitano un forte fascino.

Moltheni – Nessun lascito

A undici anni di distanza dalla raccolta finale “Ingrediente novus” Moltheni – al secolo Umberto Maria Giardini, cantautore dalla scrittura trasversale e sempre riconoscibile –  ha pubblicato lo scorso Dicembre un nuovo album. “Senza Eredità” (La Tempesta Dischi / Fleisch Agency) rappresenta la chiusura di un cerchio, nonché l’ultimo capitolo di uno dei progetti più importanti del panorama indipendente italiano.

Ciao Umberto, benvenuto su Il Raglio del Mulo, premetto che è un grande piacere per me poter parlare di musica con te. “Senza Eredità” il disco del (non) ritorno di Moltheni è uscito da oltre un mese, che tipo di aspettative avevi a dieci anni dalla chiusura di quel capitolo?
Non avevo nessun tipo di aspettativa, speravo fosse un disco semplice apprezzato dal popolo di tanti affezionati al progetto Moltheni. I risultati, nonostante non abbiamo ancora ufficializzato ne un videoclip ne un tour, sono positivissimi sia in termini di critica degli addetti ai lavori che nei numeri riferiti alle vendite. Quando si lavora bene e con un esperienza acquisita che mette a fuoco il valore delle cose, è difficile produrre cose brutte.

“Ingrediente Novus” si chiudeva con il brano inedito “Per Carità di Stato” – personalmente lo considero tra i grandi capolavori della musica italiana – che fotografava perfettamente la situazione di quel periodo ma che trovo ancora tremendamente attuale, come la riscriveresti oggi?
Francamente non ne ho idea, poiché è una domanda che non riesco a pormi. Sono stato sempre attento alla vita di tutti noi e alle sue sfaccettature che inevitabilmente la complicano. Probabilmente oggi la scriverei diversa nella forma, ma non nei contenuti, che ahimè sono rimasti uguali se non peggiorati.

Da batterista, quando quel ragazzino che vediamo in copertina ha deciso che poteva anche essere un cantautore?
Quando mi sono reso conto che era molto difficile far capire agli altri come andavano scritte le canzoni che intendevo io. Ho sempre avuto una visione molto personale del modus operandi che applico al lavoro, per questo motivo le collaborazioni mi sono sempre andate strette. Detesto suonare la chitarra, ma sono stato obbligato ad imparare perché nessuno scriveva per me quello che volevo. Oggi avendo un giro di musicisti attorno a me molto in gamba, fatto di persone affidabili, tendo sempre di più a cantare e basta. Scrivo sempre tutto io usando la chitarra, ma poi delego lo strumento poiché sono annoiato.

Ricordo che l’ultima volta che abbiamo avuto modo di scambiare due parole (dopo un concerto all’Eremo Club di Molfetta) avevi con te “Badmotorfinger” dei Soundgarden – era da pochissimo morto Chris Cornell – secondo te che cosa è andato storto dopo gli anni ’90? E’ stato davvero l’ultimo periodo dove la musica era determinante nella società – all’estero ma anche in Italia – o è solo l’effetto nostalgia di chi ha ormai varcato la soglia dei quarant’anni?
La musica intesa come necessità e come costume integrante dell’ascoltatore giovane e meno giovane, ha smesso di esistere attorno al 2006. La colpa dell’annullamento è assolutamente dovuto alla rete. Le chitarre e gli strumenti che suonano veramente, sono passati sempre di più inosservati, e la tecnologia becera ha materializzato la possibilità di creare dischi senza la necessità reale di suonare. Di fatto (in Italia il fenomeno è dilagato) sono usciti miliardi di gruppi, cantautori, performer, la maggior parte ultra-scadenti che per ovvi motivi e di riflesso alla società affamata, sono diventati straconosciuti e adorati. Il saper suonare, cantare e scrivere testi applicati alla musica di spessore è diventato un valore aggiunto trascurabile. Tutto ciò che è scadente oggi piace. E’ accaduto questo…

Quanto è importante per te la psichedelia?
La psichedelia è stata per me fondamentale, anche dal fatto che me ne sono invaghito da giovane. E’ stata una porta che aprendosi mi ha dato la possibilità di vedere tutto sotto una prospettiva allargata e benevola. L’uso di droghe pesanti ha accentuato questa fase, ma graziato dalla sorte, frenando proprio nel momento in cui mi son trovato a scegliere se darci dentro o venirne fuori, ho scelto la vita frenando quel processo di autodistruzione che precludeva anche il plasmarmi con la musica psichedelica, che oramai era dentro di me.

In quasi tutti i tuoi dischi – di Moltheni ma anche UMG – c’è sempre stato spazio per un brano strumentale, cosa che ho sempre molto apprezzato e trovato caratterizzante (ho amato il progetto Pineda) in questo disco non ce ne sono, come mai?
In “Senza Eredità” non compaiono episodi strumentali solamente per la coincidenza che, nel materiale recuperato non vi erano brani senza testo. Ho sempre amato scrivere musica indipendentemente dalla voce cantata, questo perché suscita in me immagini straordinarie, che spesso vengono rovinate dalla parte vocale. Qualsiasi mio brano nasce strumentale, spesso mi capita di non sentir la necessità di scriverci un testo ed è così che lo lascio senza voce evitando di snaturarlo.

Ho sempre seguito con interesse il tuo approccio “vintage” nella strumentazione e nell’approccio alle registrazioni, hai mai pensato di dare un “vestito” più contaminato dall’elettronica alle tue composizioni?
Sì, ci ho pensato spesso, ma bisogna trovare anche persone capaci, e in Italia il gusto riferito alla musica elettronica è un po’ latitante.

Cosa stai ascoltando in questo periodo?
Ascolto dischi classici perlopiù di jazz. Chet Baker, Miles Davis, Coltrane, Thelonious Monk, Evans. Ascolto rock soprattutto mentre guido, spazio anche lì tra i miei amori che non abbandonerei nemmeno sotto tortura; Smiths, Echo & the Bunnymen, Lotus Eaters, Lloyd Cole and the Commotions, Housemartins, Roy Orbison, Elvis.

Negli ultimi anni sei passato dalle sonorità mature ed elettriche di UMG al disco con la band Stella Maris per tornare alle atmosfere più folk oriented di Moltheni, cosa dobbiamo aspettarci nell’immediato futuro?
Sto ultimando le registrazioni del nuovo album di Stella Maris che considero qualcosa di straordinario. Presumo che nella primavera inoltrata inizierò la pre-produzione del nuovo album di UMG, ma occorrerà ancora un po’ di tempo per regalargli vita vera. Nel frattempo produco cantautori sconosciuti e la cosa mi diverte molto.

Foto originale di copertina di Avida Dollars (@nsfilmphoto)

Fys feat. Fulvio – Farsi strada fra le macerie

Sweet Persecution” (Autoproduzione, 2020) è il titolo dell’EP frutto della sperimentazione tra Fys, duo composto da Pietro Gugliotta (programming, sample, synth) con Gabriele Marchese Ragona (chitarra, basso), e il cantautore Fulvio Federico, in arte Fulvio. Ne abbiamo parlato insieme agli autori di questo mix ben equilibrato fra elettronica e cantautorato.

Come è nata la collaborazione per “Sweet persecution”?
Gabriele: La collaborazione con Fulvio è nata grazie ad un contest palermitano al quale abbiamo partecipato con i nostri rispettivi progetti. Abbiamo visto in Fulvio l’opportunità di sperimentare l’unione di cantautorato e musica elettronica.
Fulvio: Ho iniziato a collaborare con i Fys già a dicembre del 2019. Loro conoscevano il mio progetto musicale e così abbiamo deciso di fare diverse sessioni di prove insieme. Poi è arrivato il lockdown e, dal chiuso delle nostre stanze, abbiamo iniziato ad inviarci piccoli riff e tracce. Più passavano i giorni e più aumentavano le idee. Così, quando è stato possibile rivedersi, abbiamo ulteriormente perfezionato i suoni e scelto quelli che fossero in grado di creare le giuste atmosfere e, alla fine, ci siamo accorti che avevamo creato del materiale in grado di raccontare una storia. Così abbiamo deciso di pubblicarlo.

Perché avete scelto questo titolo?
Fulvio: Letteralmente le parole “Sweet” e “Persecution” rappresentano delle contraddizioni e questo EP è un po’ anche frutto di una contraddizione. Unire la musica elettronica al cantautorato non è stato affatto semplice, eppure estremamente appagante. Al di là dell’aspetto sonoro, l’intero EP parla di alcune contraddizioni dell’animo umano come l’amore che scalfisce la razionalità o il tema della dipendenza, questo titolo ci è da subito apparso come il più adatto ad inglobare tutti questi temi. Inoltre, fra i tre brani che compongono l’EP, “Sweet Persecution” è stato quello che è nato per primo nel corso della nostra clausura forzata.

C’è stato qualche momento particolarmente significativo durante la lavorazione?
Pietro: La lavorazione è stata molto spontanea, specie nella prima parte, che si è svolta proprio durante il lockdown ed in cui ognuno, da casa sua, contribuiva alla nascita e allo sviluppo dei brani. Poi, al termine del lockdown, è stato molto bello rivedersi e mettersi a suonare tutti insieme quello che era stato creato durante quei mesi complicati.

L’inserimento della linea vocale, presente anche nella traccia conclusiva del vostro EP precedente “Less is more”, è solo un esperimento o ci state prendendo gusto?
Gabriele: L’ultimo brano dell’EP “Less is More” intitolato “May day” l’abbiamo composto come ogni nostra produzione, inizialmente strumentale. Poi capita di ritrovarci a valutare, in questo caso insieme ai produttori che ci hanno aiutato nella realizzazione dell’EP, l’inserimento di una linea vocale perché magari quel pezzo si presta particolarmente. Più che averci preso gusto, ci piace lasciarci trasportare dal nostro istinto e dalla voglia di continuare a sperimentare.

Il video di “Sweet persecution” mostra un mondo desolato, in cui un protagonista solitario vaga spaesato in cerca di… cosa?
Pietro: “Sweet Persecution” racconta la complessa ricerca di un amore eterno ed indistruttibile, qualcosa visto come appunto una “dolce persecuzione”: la ricerca è chiaramente ostacolata dalle macerie, che rappresentano un po’ tutte le avversità che incontriamo nella vita di tutti i giorni.

I testi delle tre canzoni dell’EP sono in qualche modo collegati fra loro?
Fulvio: In tutti i testi dell’EP ho cercato di fotografare alcuni particolari dell’animo umano come l’amore, la dipendenza e le fragilità che ciascuno di noi nasconde nel proprio “io” più intimo. Nessun uomo è tale senza le sue fragilità e le sue contraddizioni. Il sound dei Fys, unito ai testi che ho scritto, rappresenta un viaggio che il protagonista vive costantemente, nella vita di tutti i giorni, durante cui è messo in contatto con la sua natura umana necessariamente imperfetta.

Nelle vostre composizioni mescolate suoni elettronici con basso e chitarra, come si è evoluto il vostro stile nel corso degli anni?
Gabriele: Abbiamo iniziato il nostro percorso semplicemente con un basso elettrico, una tastiera ed un ipad. Nel corso degli anni la sperimentazione e la consapevolezza del sound che volevamo creare ci ha portato poco a poco ad aggiungere strumenti fino a riempire la sala dove proviamo come un piccolo studio. Lo stile strizza sempre l’occhio all’elettronica, arricchita talvolta da più synth, talvolta da chitarra con effetti analogici.

Per voi che significa proporre un EP in un mondo musicale che va avanti a forza di talent show e uscite di canzoni singole?
Pietro: In un periodo in cui è impossibile esibirsi dal vivo, pubblicare un EP di inediti è il nostro modo di dire che ci siamo e continuiamo a scrivere. Quando si fa musica strumentale ci si preclude, per forza di cose, la partecipazione a spettacoli televisivi come i talent, quindi significa andare incontro a tanta diffidenza, cosa che a primo impatto potrebbe far dubitare delle proprie capacità. Vedere la gente divertita e che balla i nostri pezzi durante i live è probabilmente la soddisfazione maggiore.

Siete già al lavoro per il prossimo EP? O magari stavolta sarà un LP?
Gabriele: Nella prima parte del 2020 abbiamo creato tanta musica, ci siamo confrontati inizialmente da remoto e poi finalmente in sala con sessioni in presa diretta. Il prodotto di questo lavoro è tanto nuovo materiale inedito che vogliamo riordinare nei primi mesi del 2021 per poter dare forma a qualcosa di più corposo rispetto alle precedenti pubblicazioni.

Guido Brualdi – Tutti estinti… tranne i morti

Ormai siamo abituati a pensare alla vita in modo dicotomico, prima e dopo pandemia. La nostra memoria tende a ingannarci, nonostante non si tratti di giorni molto distanti, dipingendoci quei momenti coma una sorta di epoca dorata. Guido Brualdi, con la sua matita invece, ce li disegna in modo diverso, ricordandoci che forse eravamo già destinati all’estinzione. Il suo disco più fumetto, “Estinzione 666” (MiaCameretta Records), è un’opera delicata e catastrofica: se dobbiamo morire, meglio farlo con un sorriso sulle labbra…

Ciao Guido, dopo il tuo esordio discografico ti senti più fumettista o cantautore?
Ciao! Anche se suono da un po’ di anni, mi riesce ancora difficile definirmi musicista! Mi sento più un racconta-storie che usa la musica e il disegno come mezzo per esprimersi!

Quali sono le analogie e quali le differenze nei processi creativi delle due forme d’arte in cui ti diletti?
Ho sempre disegnato e mi è venuto sempre naturale! Mi piace dare una visione del mondo attraverso i miei occhi e attraverso le situazioni che lo caratterizzano, che viste coi miei occhi sono un insieme di sfumature di colori, di tristezza e assurdo, di comicità e grottesco. Con la musica riesco a comunicare la mia parte forse più introspettiva… sto cercando di far comunicare questi due mondi, facendoli convivere, cercando di alimentarsi l’uno con l’altro. Quando scrivo una storia per poi disegnarla cerco di avere tutto abbastanza strutturato, la trama, i personaggi, le battute! Mentre quando scrivo un brano molto spesso lascio andare i sentimenti e la melodia va di conseguenza, mentre le parole cercano di seguire il suono

“Estinzione 666” un titolo profetico alla luce di quello che sta accadendo oggi?
Per come stanno andando le cose, sotto un certo punto di vista mi sembra inevitabile! Se continuiamo a non rispettare l’ambiente e la natura, agendo per convivere in armonia, con gli anni a venire e le sempre più aspre condizioni climatiche per l’uomo, sarà molto probabile un collasso della società per come la conosciamo. I film distopici sul futuro non sono così distanti da un possibile svolgimento della nostra storia. Quando ho scritto le canzoni dell’album, nel 2019 e prima della pandemia, ero arrabbiato e rassegnato per come l’umanità ha perso di vista le cose davvero importanti, e per come a molti potenti interessi solo il profitto, i soldi, dei pezzi di carta con dei numeri stampati sopra. E’ arrivato il momento di ridefinire le priorità, di volerci bene per davvero e volere bene alla nostra terra. Rileggendo quello che ho scritto sembro un santone, eheh.

Quello che mi pare di capire dalle tue parole, opere, album e fumetto, è che non ce la passassimo bene neanche prima, no?
Assolutamente no, non ce la passavamo bene ma abbiamo fatto finta di niente, considerando come secondari il riscaldamento globale, lo sfruttamento delle risorse e la violenza dell’uomo. Anche se siamo di fronte a un periodo difficile, sono certo che ci sia ancora speranza! Se nel piccolo agiamo per il bene, per l’Amore, facendo quello che amiamo fare, rispettando noi e gli altri, impegnandoci a dare un segnale positivo, quel segnale può diventare un’ onda, un’onda che non può essere fermata!

Cosa è nato prima, il fumetto o il disco?
E’ nato prima il disco! Le canzoni sono state pensate e scritte nel 2019 e registrate tra dicembre 2019 e gennaio 2020! Il fumetto è nato quando ho iniziato a immaginare la copertina, volevo che le canzoni raccontassero una fine che sta per arrivare, se non cambieremo per il meglio, mentre nel fumetto la fine è arrivata, e ci troviamo di fronte una (forse) nuova civiltà.

Credi che siano scindibili le due cose?
A un primo sguardo e ascolto potrebbero sembrarlo, diciamo che con il fumetto e il disco si ha una visione più completa di quello che volevo dire!

Quali musicisti e quali disegnatori ti hanno ispirato per “Estinzione 666”?
Disegnatori che imi hanno influenzato dire Blain, Moebius, Vivès, musicisti Phil Elverum, Vic Chesnutt, Phoebe Bridgers, Verdena.

Durante l’ascolto mi è venuto più volte in mente uno dei classici del prog tricolore, “Per… un mondo di cristallo”, album dei Raccomandata Ricevuta di Ritorno. Inizialmente, musicalmente, anche se le due opere sono stilisticamente molto distanti, poiché il tuo disco è molto essenziale, mentre quello dei RRR è strutturato e complesso. Poi mi sono reso conto che i romani come te nei testi, nel loro caso scritti dalla poetessa poetessa Maria Comin, parlano della fine del mondo. Vorrei sapere se conosci quel disco e se in qualche modo ti abbia influenzato.
Wow! Purtroppo no, non conosco né il disco né la band, vedrò di recuperarmeli! Grazie dello spunto!

L’album ha dei suoni low-fi, a cosa è dovuta questa scelta?
Ho registrato l’album con una scheda audio, un Mac, microfono e chitarra, tra camera mia a Pesaro e la casa in campagna dei miei nonni al confine tra Marche e Romagna! Mi piaceva l’idea di registrare qualcosa che avesse delle imperfezioni, rendono il tutto molto più vero e umano. Il master è stato realzizato al Vdss Recording Studio a Ceprano (FR) da Filippo Strang, che ha fatto un lavoro super!!

Progetti futuri?
Sto disegnando un fumetto lungo per un editore, è una storia molto importante per me, ma ancora non posso sbilanciarmi a dire troppo eheh! Uscirà l’anno prossimo se tutto va bene! Sto anche scrivendo nuove canzoni, vedremo poi che succederà! In tempi migliori mi piacerebbe suonare un po’ in giro, pandemie e disastri a parte, speriamo presto!